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LA LINGUA DEI CATALANI

Si parla molto in questo periodo di Catalogna, per gli eventi sociali e politici che stanno succedendo in quella terra. Ma dove affondano le radici e la cultura del Popolo Catalano? Come si è svolto uno dei percorsi culturali più importanti, che hanno messo le basi per una identità nazionale così forte tanto da pretendere oggi la piena indipendenza dal resto della Spagna? Parliamo della LINGUA CATALANA.

INTERVENTO DEL PROF. PATRIZIO RIGOBON, DOCENTE DI LINGUA E CULTURA CATALANA PRESSO L’UNIVERSITÀ “CA’ FOSCARI” DI VENEZIA

Questa è la trascrizione, riveduta, corretta e adeguatamente aggiornata, di un intervento in una tavola rotonda svoltasi qualche anno fa a Treviso dal titolo “Veneto, na £engoa europea”.
Durante questo incontro, organizzato dall’Associazione Veneto Nostro – Raixe Venete, si è discusso anche della lingua catalana, importante esempio di tutela e valorizzazione linguistica in Europa. Il testo risente della relazione concettuale con gli interventi che l’hanno preceduto ed a cui si fa allusione. Tali riferimenti sono stati tuttavia mantenuti.

È certamente significativo il fatto che esistano al di fuori della Catalogna, in questo caso in Italia, persone che, come chi vi parla, insegnano -e non sono proprio pochissime- una disciplina universitaria che si chiama “lingua e letteratura catalana” (per un elenco completo degli insegnamenti di questa lingua e letteratura in Italia, si veda il sito: www.filmod.unina.it/aisc , link “Il catalano in Italia”). Si tratta ovviamente di un segno che può dirci molto anche sul criterio di discriminazione tra “lingua” e “dialetto”, or ora autorevolmente trattato, distinzione che, come abbiamo visto, non esiste per un linguista, ma che di fatto è ben presente nella nostra quotidiana percezione.
Io però vorrei parlare della lingua catalana così come oggi si presenta e si può apprezzare a chiunque di voi vada a Barcellona, capitale del cosiddetto Principato, o che frequenti le spiagge della Costa Brava o delle isole Baleari.

È una lingua che ha una sua “normalizzazione”, cioè è stata disciplinata ortograficamente, secondo i criteri proposti nel 1913 dall’“Institut d’Estudis Catalans” sulla base dell’opera portata a compimento da un linguista che si chiamava Pompeu Fabra, che adottò come base dialettale il modello del catalano centrale. “Centrale” ovviamente rispetto alla geografia del Principato.

Vi dò ora alcuni dati su questa lingua e sul percorso che ha compiuto prima di attingere l’odierno livello.

Oggi essa è parlata oggi da una decina di milioni di persone: per arrivare a questa cifra, oltre agli abitanti delle aree più sopra indicate, vanno aggiunti quelli della regione valenzana (dove la lingua assume la denominazione di “valencià”), della regione storica francese del Roussillon, della città sarda di Alghero, della zona a ridosso dei confini amministrativi tra la Catalogna e l’Aragona, nota come la “franja”.
È una lingua non statale di tutto rispetto (o, meglio, il Principato di Andorra è l’unico Stato sovrano che l’abbia adottata come lingua ufficiale) che può vantare una demografia più significativa di quella di molti idiomi statali parlati nell’area dell’Unione Europea. Si tratta di una cifra di tutto rispetto se consideriamo il fatto che lingue come il neogreco, l’ungherese, il portoghese (solo ovviamente per l’area continentale), lo svedese, il danese, il finlandese, lo sloveno, il lituano, ufficiali nell’ambito dell’Unione Europea, sono parlate da un numero analogo di persone (i primi quattro stati) o addirittura notevolmente inferiore (gli ultimi quattro). Nel dato complessivo, come abbiamo detto, sono stati inclusi anche i parlanti della varietà valenzana, sulla quale c’è una diatriba che ha poco a che fare con la scienza ma più con la politica: nonostante un “dictamen” (risoluzione) dell’“Acadèmia Valenciana de la Llengua” che sancisce l’identità di valenzano e catalano, c’è ancora chi sostiene e promuove la diversità dei due idiomi. Nonostante questo passo in avanti in senso unitario, rimangono tuttavia forze politiche ostili a tale riconoscimento. Tema d’indubbio interesse che però lascerò da parte in questa sede.
Tornando a quanto stavamo illustrando poc’anzi, ribadisco come lingue che dispongono di un numero di parlanti inferiore a quello del catalano abbiano in 66 Pompeu Fabra seno all’Unione lo status di lingua ufficiale, mentre il rango di “lingua regionale” offre possibilità d’uso largamente inferiori nell’ambito delle istituzioni comunitarie. Tuttavia sono state e/o vengono adottate dalle autorità catalane, con notevole impegno, tutte le iniziative in grado di incrementare le situazioni in cui sia ufficialmente consentito utilizzare questa lingua a livello europeo.
Questo lo dico perché è importante capire quanto i catalani siano devoti al loro idioma, che è co-ufficiale entro le comunità autonome in cui si parla. Come ho detto prima, c’è stata una regolamentazione che, pur avendo forse compiuto qualche forzatura (il lavoro di Fabra, benché necessario ed elogiato, è oggi oggetto di qualche revisione critica), ha funzionato come norma sulla quale modellare i testi scritti. Di questi voglio ora parlare e della loro forma più canonica. Il libro.
In lingua catalana sono usciti nel 2005 oltre 7000 titoli. Il trend è in ascesa sia pure con qualche incognita rispetto al fatturato complessivo del settore editoriale in Catalogna , quindi la rilevanza culturale di questa lingua è notevolissima, anche in rapporto alle altre lingue statali “minoritarie” presenti in Spagna.

È interessante vedere come il trattamento giuridico sia stato uno dei momenti in cui le autorità catalane hanno esercitato pressioni attraverso tutti i canali disponibili al fine di vedere riconosciuta una presenza all’interno dell’Unione. L’ultimo atto (o almeno quello più recente) è la possibilità per ciascun individuo appartenente alla comunità autonoma catalana di rivolgersi alle istituzioni comunitarie in questa lingua e ricevere da esse una risposta nella medesima, secondo quanto sancito da un accordo che prevede anche, per i rappresentanti in Consiglio, in Parlamento e nel Comitato delle Regioni europeo di potersi esprimere, nei loro interventi nei vari organismi, in catalano, previo avviso. Il cammino che s’intende far percorrere alla lingua catalana è quello dell’uso non solo privato o “culturale”, ma pubblico e ufficiale. Quando la lingua ambisce in qualche modo a un “potere” sorgono naturalmente dei contrasti, soprattutto, nel caso del catalano, con l’idioma che fino al 1979 aveva occupato esclusivamente gli ambiti dell’ufficialità in Catalogna. Qui non posso non fare riferimento alla situazione specifica della Spagna ed alle censure e proibizioni da parte del regime franchista che hanno certamente contribuito a motivare molto fortemente la comunità e poi il Governo Catalano a perseguire il ritorno a una “normalità” compatibile con la storia e la realtà sociale catalana. Anche nel nuovo statuto d’autonomia, entrato in vigore il 9 agosto del 2006, dopo un iter assai laborioso, dibattuto e non esente da aspre polemiche, la Generalitat de Catalunya (l’istituzione dell’autogoverno) è titolare della competenza esclusiva in materia di politica linguistica relativa al catalano.

Si sono elaborati concetti quali la “disponibilità linguistica”, che riguardano l’obbligo (naturalmente graduabile a seconda dei casi) per un’amministrazione pubblica o una impresa privata di fornire una risposta nella lingua in cui ad essa ci si è rivolti; più estesamente è riferibile a una nozione di bilinguismo assolutamente perfetto (non più “concesso”) in cui ciascuno si può esprimere nell’idioma che preferisce ed ha il diritto di ottenere una risposta nella lingua che sta utilizzando, sia essa il catalano o lo spagnolo.
Un modello certamente difficile da raggiungere, la cui realizzazione può provocare tensioni e sensazioni di persecuzione in settori anche significativi della società, che comunque sta dando positivi risultati, anche per quanto riguarda la convivenza tra chi soggettivamente aderisce a una delle due comunità linguistiche.
“Il catalano è la lingua propria della Catalogna”. Questo, come abbiamo visto, è un dato di grande importanza. È il primo comma dell’articolo 6 dello statuto di autonomia catalano che, dal 9 agosto del 2006, ha sostituito il precedente testo noto anche come “Estatut de Sau” in vigore dal 1979, quattro anni dopo la morte di Franco, un anno dopo l’approvazione della Costituzione spagnola. Il catalano è “llengua d’ús normal i preferent de les administracions públiques i dels mitjans de comunicació públics de Catalunya, i és també la llengua normalment emprada com a vehicular i d’aprenentatge en l’ensenyament” e ovviamente “(…) el català és la llengua oficial de Catalunya”.
Nel secondo comma si legge ovviamente che “el castellà” è ugualmente ufficiale. Si noti come il testo statutario adotti il termine “castigliano” e non “spagnolo” (in modo diverso da come questa lingua è prevalentemente denominata nel mondo). Definizione che in parte deriva dalla Costituzione che, all’art. 3, comma primo, dice testualmente: “El castellano es la lengua española oficial del Estado”. Si desume quindi dal testo costituzionale che il castigliano non è lo spagnolo tout court, ma una delle lingue spagnole.
Il catalano però è diffuso non soltanto in Spagna: vi voglio ricordare almeno due zone nelle quali è parlato e dove anzi ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo notevole, in relazione al numero di parlanti. In primo luogo si tratta del dipartimento dei Pirenei Orientali, a nord della Catalogna, nel sud della Francia, situato a ridosso delle estreme propaggini della catena montuosa ed il Mediterraneo, nella cui capitale, Perpinyà (Perpignan), la lingua catalana è discretamente diffusa.
Non è certo conosciuta ed usata come auspicabilmente ci si potrebbe attendere e tuttavia per uno Stato fortemente centralizzato, e in qualche caso anche centralista, come la Francia, si tratta di un risultato di notevole rilievo.

In secondo luogo, il catalano è anche la lingua della città sarda di Alghero. Non è una curiosità archeologica, è il retaggio di un passato, vale a dire delle conquiste basso medievali della corona catalano-aragonese in Sardegna: è una realtà linguistica che differenzia gli algheresi dal resto dei sardi.
Il fatto che esista questa specifica situazione non significa poi che si siano sviluppati dei casi di ostilità e/o insofferenza: la diversità delle lingue dovrebbe anzi suggerire maggiore tolleranza, perché chi è capace di parlarne diverse è in generale più aperto e disposto ad apprenderne anche altre in rapporto a chi magari ha una formazione rigorosamente monolingue.
Questo per descrivere la situazione del catalano che, come ho detto, non ha un’autorità statale alle spalle: c’è soltanto il Principato di Andorra che, con quasi 70.000 abitanti, costituisce certamente uno stato sovrano con il catalano come lingua ufficiale, ma rappresenta una realtà non molto più grande di San Marino, senza quindi un significativo peso internazionale. Tuttavia il governo catalano, pur essendo un’amministrazione autonoma di tipo regionale, ha messo in piedi tutta una serie di presidi per la tutela, la diffusione e la salvaguardia della propria lingua, anche all’estero.

Vi offro ora un breve excursus sulla situazione attuale del catalano. In Italia si studia in dodici università, il che non è poco, come abbiamo già potuto vedere. Ciò grazie anche al fatto che la Catalogna contribuisce in solido, pagando docenti madrelingua con dei propri stanziamenti. Ci sono poi le due emittenti televisive in lingua catalana, TV3 e Canale 33, nell’area del Principato nonché i canali regionali delle isole Baleari e della regione di València, oltre agli spazi dedicati a questa lingua dalla televisione spagnola.

Apro una parentesi sulla regione valenzana, che come voi sapete è immediatamente a sud della Catalogna: c’è una questione politica che entra pesantemente in collisione con una questione scientifica alla quale ho alluso prima. Che il valenzano ed il catalano siano la stessa lingua non lo dubita nemmeno l’Acadèmia Valenciana de la Llengua, tuttavia esistono degli orientamenti assai significativi nella società valenzana, e di riflesso nella politica che essa esprime, che considerano la Catalogna in modo sospetto e talora apertamente avverso, per ragioni che non approfondiremo in questa sede. Si tratta di una vicenda assai complessa che, esasperando gli animi, contribuisce a radicalizzare le opinioni e le iniziative.
Tuttavia non c’è dubbio che catalano e valenzano siano un’unica lingua e che non abbia dunque senso sottrarre gli uni o gli altri al computo generale dei catalanofoni.

Dal punto di vista giuridico è interessante notare come, subito dopo la caduta del regime franchista, per ripristinare una realtà che aveva rischiato letteralmente di morire, si sono attivate numerose iniziative, un po’ come l’ebraico che è stato resuscitato, così anche il catalano, mantenuto in vita dall’uso privato e familiare, aveva bisogno di azioni che ne garantissero l’esistenza e il riconoscimento, non già nella società, da cui, anche nei momenti più bui del regime, non era mai stato abbandonato, ma nelle istituzioni.
Da questo punto di vista si trattava di una lingua morta, analogamente a quanto era ad essa accaduto nel XVIII secolo: l’avvento di Filippo V, alla fine della Guerra di Successione, aveva portato ai “Decretos de Nueva Planta” che cassavano l’uso della lingua catalana ed imponevano un’organizzazione territoriale e istituzionale modellata su quella castigliana. Dunque, al fine di dare il giusto rilievo pubblico ad un idioma mai abbandonato dai suoi parlanti, la Generalitat de Catalunya, quattro anni dopo l’entrata in vigore dello statuto del 1979, approvò una legge di normalizzazione linguistica. Nel 1986 il governo delle isole Baleari fece altrettanto.
La “Llei de normalització lingüística” del 1983 presenta un articolato piuttosto minuzioso ed un lungo preambolo che spiega, anche a chi non è esperto di diritto, perché si sia arrivati a quella determinazione.
Il testo viene quindi giustificato storicamente e motivato nelle prospettive: esso specifica tutti gli ambiti in cui, secondo lo statuto di autonomia, la lingua catalana doveva essere utilizzata, al pari naturalmente dello spagnolo. L’attuazione del dettato imponeva quindi la formazione di una classe di docenti che non c’era e impegnava le varie amministrazioni preposte a tutta una serie di adempimenti per i quali solo un ente politico può disporre e può attribuire le relative risorse.
Questa legge è rimasta in vigore per 15 anni ed ha radicalmente cambiato la situazione del catalano uscito dall’epoca della dittatura. Una visione letteraria, sia pure velata d’una sottile disapprovazione che appare per lo più ingiustificata, è offerta dal romanzo di Juan Marsé, “L’amante bilingue”, tradotto anche in italiano e pubblicato nel nostro paese nel 1993, accompagnato da un film di modesto successo, nonostante la vistosa presenza di Ornella Muti, nelle vesti dell’amante del titolo. Lo sviluppo degli strumenti telematici, la volontà di consolidare i risultati raggiunti suggerirono di sostituire il testo del 1983 con una nuova normativa, la “Legge di politica linguistica”, che entrò in vigore nel 1998, esattamente un anno prima dell’approvazione in Italia di una legge di tutela delle minoranze linguistiche. La nuova normativa lascia dei margini di discrezionalità e demanda ad un regolamento l’applicazione concreta di alcuni aspetti.

Tanto per citare un caso che suscitò grandi polemiche, essa doveva imporre alle case di distribuzione la presenza nell’area del Principato di almeno una quota del 50% di film doppiati o sottotitolati anche in lingua catalana e non solo in quella spagnola. Questa è esattamente la “normalizzazione” di una lingua: vivere in quella lingua, cioè vedere un film in cui i personaggi la parlano, andare al ristorante e leggere il menu, prendere il treno e sentire gli annunci nell’idioma proprio.
Diciamo che il catalano ormai ci è riuscito, anche se con qualche disagio da parte degli italiani, e dei turisti stranieri in generale, che a volte faticano a capire il perché di questa ulteriore complicazione della vita in Catalogna, quando nell’immaginario è chiaro che anche lì è Spagna e magari quella più ostentatamente ricca di luoghi comuni. Ciò che solo apparentemente è disagio si pone invece come motivo di ricchezza, il plurilinguismo, che dovrebbe essere elogiato da ciascuno di noi quando percorriamo quelle contrade per turismo, affari o istruzione.
Come dicevo il catalano ha ormai una sua normalità: libri, film, tv e tutto il resto. Quindi il parallelismo con il veneto, che è la lingua della nostra regione, mi sembra assolutamente incongruo.
Il rapporto che i catalani hanno con la loro lingua, almeno la relazione più recente, è assai diverso da quello che i veneti hanno con la propria. Suggerirei a questo proposito di andare a leggere i dibattiti in commissione che hanno preceduto l’approvazione delle “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” che dimostrano ancora quanti pregiudizi esistano nei confronti delle lingue “minoritarie” (o addirittura scarsa conoscenza delle questioni) in molti tra coloro che sono preposti a legiferare. L’attenzione posta dai catalani alla loro lingua come “lingua di cultura” e quindi anche “lingua alta” si è tradotta nel corso degli anni in molteplici interventi tesi a fissarne l’uso scritto ed ai quali in parte abbiamo alluso.

Oltre alle norme grafiche, in vigore dal 1913, Fabra ha elaborato grammatiche e dizionari: un lavoro i cui risultati scientifici sono ancor oggi percepibili nelle opere di una nutrita schiera di linguisti, dialettologi e storici della lingua catalani. Ricordo solo, a titolo esemplificativo, le opere di Antoni M. Badia i Margarit, Joan Veny, Joan Solà, Modest Prats, Emili Casanova e tanti altri che lavorano sul fronte della lingua, non solo in chiave “normativa” e non solo catalani, ma anche studiosi di altri paesi europei e di altre zone del dominio catalanofono.
Sono tutte piccole o grandi cose che, sommate insieme, avvicinano questo sistema linguistico a quello delle lingue “normali”, come quelle statali e ufficiali. Tutto ciò non capita per caso, ma è il frutto di una volontà che si traduce in azione.
L’altro elemento che volevo sottolineare è riferito al riconoscimento di questa lingua da parte dell’Italia nella legge del ‘99, che citavo prima. Il nostro paese, insieme alla Francia, ha sottoscritto assai tardi (2000 e 1999 rispettivamente) la “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie” preparata dal Consiglio d’Europa, documento che, rimanendo ancora privo della necessaria ratifica, da noi non è ancora entrato in vigore. La Spagna lo ha sottoscritto invece fin dal 1992, quando venne aperto alla firma, acquisendo però vigenza legale nel paese iberico solo dal 2001. In ogni caso è stata approvata da noi questa legge il cui iter parlamentare è stato seguito con interesse anche da molti catalani.
Nei giorni precedenti la sua discussione, ho ricevuto decine di e-mail con le quali mi si invitava a girare un messaggio al sito del Senato nel quale si esortava il legislatore italiano a confermare la presenza della lingua catalana tra quelle tutelate. Cosa che a un certo punto, a seguito dei dibattiti nelle commissioni, era parsa dubbia.
Ricordo, per inciso, che il veneto non appare tra le lingue oggetto di tutela. Questo, tra le molte altre cose, dimostra anche che l’idea nazionale catalana si struttura e si basa essenzialmente sulla lingua: non si perseguono da parte dei catalani fantomatiche e pericolose differenziazioni etniche o religiose da porre sul tavolo della peculiarità identitaria. È la lingua, il modo di esprimersi che rappresenta un mondo e una memoria storica e letteraria, ad essere al centro dell’attenzione.
L’idea dei catalani non è quella, come dire?, di “noi siamo i migliori della classe”. La loro è una piccola letteratura che tuttavia vanta un percorso ed una parabola equivalenti a quella della letteratura italiana o della letteratura spagnola, sia pure con qualche soluzione di continuità. È un contributo, uno dei tanti, derivati dalla frammentazione del latino nei sistemi “volgari” che sono progressivamente diventati delle lingue: i catalani oggi fanno sicuramente moltissimo affinché anche la loro, se non proprio prosperare, possa almeno vivere decorosamente.

Arriviamo dunque al raffronto con le altre realtà regionali della Spagna, vedendone anche la oggettiva diversità. Noi abbiamo un caso che è diventato di dominio pubblico anche in Italia, soprattutto dopo il recente attentato dell’11 marzo del 2004 alla stazione di Madrid, quando si è pensato (o fatto pensare) per un momento che fosse stata l’ETA ad aver messo quelle vili e funeste bombe. L’ETA è certamente una delle espressioni del nazionalismo basco.
I baschi hanno una propria lingua, di origine non indoeuropea, molto complessa, agglutinante, che gode di una tutela pari almeno a quella del catalano, ma che costituisce solo parzialmente l’indentità basca. Questa lingua non dispone di una tradizione scritta rilevante (salvo in tempi più recenti) e solo da poco c’è stata una normalizzazione concordata in seno all’“Euskaltzaindia” (l’accademia della lingua basca).
Questo cosa ha significato? Che il basco è ovviamente molto meno parlato e molto meno utilizzato rispetto al catalano nell’ambito di sua competenza territoriale, anche se ciò non significa che non sia in fase ascendente. Il basco è poi originalmente più legato ad ambiti rurali che urbani. In questo caso dunque l’elemento identitario è assai più complesso e sovente molto più radicalizzato, qualche volta “separativo”: se non fosse così l’ETA sarebbe già sparita da tempo.

L’altro caso linguistico simile per numero di parlanti, anche se in quantità leggermente superiore rispetto al Paese Basco, è quello della Galizia, regione situata nel nord ovest della penisola iberica. La sua è una lingua pure dotata di svariate norme di tutela e vanta quasi tre milioni di parlanti: è quindi una potenza linguistica di tutto rispetto che vanta una diffusione capillare tra la popolazione. Dal punto di vista editoriale, abbiamo accennato prima agli oltre 7.000 titoli che si sono pubblicati in lingua catalana. È un dato di tutto rispetto che la rende editorialmente molto importante. A Barcellona ci sono solo poche librerie che vendono unicamente libri in catalano, nelle restanti si vendono prevalentemente libri in spagnolo. Esse sono il segno anche di una presenza qualitativa che offre cioè la percezione di una lingua non esclusivamente parlata da persone di modesta formazione culturale, come per molti aspetti era stato anche il catalano nel corso di buona parte del XIX secolo.
Ormai si pubblicano in catalano testi di filosofia, saggi, manuali scientifici di fisica e di matematica ecc., come nelle altre lingue “normali”. Esso diventa dunque strumento e veicolo di diffusione di alta cultura, che è quella che poi dà autorevolezza e rende anche socialmente prestigioso parlare questo idioma, che non costituisce più qualcosa da nascondere, come i veneti hanno fatto per molto tempo col proprio, in ambito pubblico e ufficiale.
Questo è un dato importante sul quale i catalani hanno giocato e continuano a giocare molte carte, aiutando le edizioni in lingua catalana e addirittura le traduzioni dalla lingua catalana in altre lingue, tanto da trasformarla, secondo i dati dell’UNESCO, nella ventunesima lingua in cui più si traduce e la ventitreesima più tradotta.
Questo è un dato importante: se pensiamo alle migliaia di lingue che si parlano nel mondo, ci dà un’indicazione sulla sua forza e sul consenso che la sostiene, elementi che, malgrado le molteplici difficoltà, tendono a crescere.

FONTE: il presente testo è tratto dal libro “CATALOGNA – Storia di una Nazione senza Stato” di Gianni Sartori, prodotto dall’Associazione Veneto Nostro – Raixe Venete.


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