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Veneto: lingua o dialetto? Una lingua è… (parte 1)

Una lingua è la sua oralità, in quanto nasce orale, si trasforma per via orale ed è dichiarata morta quando non ci sono più parlanti (madrelingua). I documenti che essa ha lasciato scritti o registrati nel tempo sono solamente le sue vestigia: ogni registrazione scritta è un’orma, una traccia del passaggio di quella lingua in quel territorio ed in quel tempo. Le difficoltà della paleolinguistica, infatti, sono paragonabili –mutatis mutandis– a quelle della paleontologia: da orme coerenti di un dinosauro possiamo ricavare alcune preziose informazioni, quali la sua struttura (bipede o quadrupede) e la sua stazza, tramite un calcolo dello sprofondamento nel terreno; così un documento può lasciarci testimonianza di un registro linguistico, o comunque notizie lessicali etc…. Trovare invece un fossile intero è paragonabile al rinvenimento di un testo metalinguistico, cioè un testo che va oltre la lingua, generalmente che “spiega” la lingua: si potrà rinvenire magari un trattato di fonetica, un dizionario di lessico e pronuncia, un manuale di grammatica, etc… Insomma, si tratta di inferire da dati non sistematici (linguistici o biologici) le caratteristiche di un sistema che non si conosce, anche con la comparazione con altri sistemi già noti (per esempio verificando la compatibilità di alcune caratteristiche del sistema incognito con le evoluzioni di esso che si trovano nei sistemi presenti, biologici o linguistici, da esso derivanti).

Ecco, dunque, l’importanza scientifica di una strumentazione grafica che sappia produrre impronte fedeli ed univoche del sistema linguistico, altrimenti una lucertola può venir scambiata per un dinosauro e viceversa (cioè si possono ingigantire o sminuire alcuni nodi problematici, della fonetica specialmente).

Venendo invece a trattare di quale sia il ruolo di una lingua “nel presente”, è appena il caso di far notare come una lingua sia in realtà il primo sistema espressivo complesso con il quale l’essere umano neonato si scontra, appena dopo le forme di gestualità e di espressione non articolata (es. pianto, singhiozzo, suzione digitale, etc…). Le capacità e le modalità espressive di ciascuno, insomma, si plasmano tramite la sua lingua madre, e con esse anche lo sviluppo di determinate abilità intellettuali e comportamentali: in parole più semplici, una lingua è di per sé una mentalità. Ciò non comporta che alcune abilità non si sviluppino o si ultrasvilppino, ma che vi sia meno o più terreno fertile in una lingua per tale abilità o mentalità. Si tratta insomma, non di implicazioni logiche o di altre leggi scientifiche esatte, bensì di fattori tendenziali, verificabili e sindacabili unicamente (ove possibile) sul dato aggregato dei parlanti.

Ma veniamo alla domanda di questo capitolo: “lingua o dialetto?”. Beh, in vero, dal punto di vista scientifico, non v’è alcuna differenza. Ogni “sistema concluso di regole grammaticali, sintattiche e morfologiche che si serve di un set lessicale e di un set fonetico” è una lingua. Semmai, sono fattori comparatistici che ci possono far parlare di “dialetto”. Un dialetto, però, non è una “lingua minore/minoritaria”. Un dialetto è, per dirlo con un termine meno esecrato e stereotipato negativamente, una variante di una lingua. Preso, dunque, un fascio (cioè un insieme) di tali suddetti “sistemi linguistici conclusi”, li si può raggruppare secondo canoni di “minor varianza”: minore sarà la varianza, maggiore sarà la vicinanza tra “sistemi linguistici”, fino alla comunione di uno zoccolo così consistente da far tranquillamente parlare di “varianti della stessa lingua”. Ovviamente, tale valutazione deve essere un “tutto sommato”, e ponderata a seconda della rilevanza dei vari fattori, che possono essere non solo grammaticali, morfologici, sintattici, lessicali e fonetici, ma anche geografici e storici: per esempio una forte immigrazione (vedi la lingua veneta negli Stati del Sud del Brasile); la soggezione alla stessa entità politica per un certo periodo (es. bresciano e bergamasco nella Serenissima); il monopolio linguistico di una lingua in un certo settore della conoscenza (es. l’inglese per l’informatica); ed altri simili fattori, raccolti e valutati con una dose di realismo e di buon senso.

Perché, qualcuno si sarà chiesto, specificare queste “quasi-ovvietà”? L’Autore ritiene che si debba mettere un po’ di ordine, non tanto ai concetti accademici, quanto alle conoscenze del cittadino medio, abbandonate a stereotipi che dire ottocenteschi è ancora poco. Vi è però un ostacolo enorme per raggiungere un generale riconoscimento del valore delle lingue locali, ancora scelleratamente definite “dialetti” in senso spregiativo, forse solo in Italia. I Veneti, così come gli altri italofoni, si sono abituati ad un errato esempio di lingua: l’italiano non solo ha una grafia ed una dizione standard, ma anche è una lingua canonizzata e smussata fin dalla creazione, in quanto è una lingua di creazione intellettuale, cioè una lingua nata scritta prima che parlata: artificiale, in una parola. […]

Insomma, il canone ideale di “lingua” non può essere l’italiano, in quanto esso è stato creato, è frutto di un atto volontaristico di pochi, ed è sincretismo intellettuale di altre lingue (principalmente toscano-fiorentino, veneto-veneziano e siciliano, anche se è tutto da vedere, ed uno studio di tenore scientifico non sembra essere mai stato approntato). In poche parole, l’italiano può essere definito, con idea moderna, un “esperanto italico”. Purtroppo, questa mentalità non viene smentita con lo studio scolastico di lingue straniere, in quanto non si dà mai notizia delle variabilità, soprattutto fonetiche e lessicali, che vivono in ogni lingua: studiando l’inglese, giusto per parlare di una lingua straniera “obbligatoria” nelle scuole italiane, allo studente viene insegnato solo l’assetto standard della lingua (nel caso dell’inglese, si insegna la parlata Londinese, cioè della capitale), senza mai nemmeno accennare discorsivamente all’esistenza profusa di varianti. Questo spesso avviene a causa dell’ignoranza del fenomeno da parte dell’insegnante stesso, ma in altri casi viene taciuto (in buona o mala fede): purtroppo, la mentalità linguistica dominante in Italia è che la varietà e la variabilità siano dei difetti, delle degenerazioni, che portino una lingua a “sporcarsi”, ad imbastardirsi. Ecco, nulla di più deviato ed irreale può dirsi di una lingua. Tale mentalità è la più distruttiva in assoluto per la scienza linguistica e per la didattica e l’assimilazione consapevole delle lingue. Questa croce è anche la causa (e l’effetto, in un circolo vizioso) di un insegnamento linguistico troppo incentrato sulla nozionistica lessicale e grammaticale (in senso lato), invece che sulla conversazione in lingua.

Che dire, insomma, del veneto? Dialetto o Lingua? Beh, evidentemente si deve parlare di Lingua Veneta, per ragioni scientifiche, per ragioni storiche, per ragioni sociali. Diamo ora le notizie fondamentali che sostengono la consistenza di tale asserzione (vd. Parte 2).

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Il presente brano è tratto, su autorizzazione dell’Autore, da “Libera Grafia Universale & Dossier sulla Lingua Veneta” (2010), di Alessandro Mocellin, Ed. Scantabauchi. Tutti i diritti restano riservati all’Autore. Qualora si intenda riprodurre altrove brani del testo qui riprodotto, contattare l’Autore scrivendo una mail a liberagrafiauniversale@gmail.com.


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