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Il Veneto è Lingua perché la Tassonomia Linguistica è dominio della Scienza, non un capriccio dei singoli Stati.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento del prof. Marco Tamburelli, in replica all’articolo del prof. Michele Cortelazzo inerente la Lingua Veneta, apparso su Il Mattino di Padova e altre testate.

Un articolo apparso il 24 aprile su Il Mattino di Padova dimostra come la discriminazione linguistica non solo è viva e vegeta, ma è anche bellamente razionalizzata e difesa dalle istituzioni dello Stato, università comprese. L’autore dell’articolo dimostra poi come la cosiddetta “linguistica italiana” è interamente scollegata dagli sviluppi internazionali degli ultimi cinquant’anni, cosa che già aveva dimostrato l’Accademia della Crusca (https://patrimonilinguistici.it/lettera-allaccademia-dellacrusca-1/).

Iniziamo però dalle cose positive. Nell’articolo, Michele Cortelazzo ci ricorda giustamente che i cosiddetti “dialetti” “funzionano sulla base di regole grammaticali proprie” e che “non sono varianti dell’italiano”, smentendo così ciò che purtroppo in Italia è ancora creduto da molti, per motivi non del tutto indipendenti dal lavoro della stessa linguistica italiana (vedasi i vari trattati sulla lingua italiana “e i suoi dialetti”, frase ancora in uso di recente proprio all’università di Padova: http://www.unipd.it/ilbo/content/la-lingua-salvata-dialetti-compresi ).

Nell’articolo in questione ci sono anche considerazioni tassonomiche sulla struttura delle domande in veneto per dare esempio di come il veneto è “un sistema autonomo”, che non è altro che una frase contorta per evitare di dire che il veneto è una lingua distinta dall’italiano, visto che nella linguistica internazionale due lingue sono proprio quello: due sistemi tassonomicamente distinti per fonologia, morfologia, sintassi. Nonostante ciò, l’autore decide di dare il potere di arbitro alle considerazioni sociolinguistiche, potere che la sociolinguistica non ha (e la tassonomia, la genealogia, la tipologia dove le mettiamo?). E in fine abdica alle responsabilità di linguista dando il potere assoluto di decidere la linguistica allo Stato. Badiamo bene: non il potere di decidere quali lingue uno Stato intende proteggere, ma addirittura il potere di decidere quali sono le lingue parlate al suo interno.

E così decenni di studi scientifici di tassonomia linguistica sono gettati dalla finestra, e la linguistica viene trasformata da scienza del linguaggio a serva dello Stato, lì per descrivere la verità assoluta che lo Stato ci dona.

Ma questa idea che la linguistica non ha nulla da dire su cos’è una lingua è assolutamente falsa.

E’ così falsa che non ci crede nemmeno chi la sostiene. Infatti coloro che ancora sostengono questa subordinazione tra Stato e linguistica parlano anch’essi di “lingue” quando si riferiscono alle lingue africane. O forse Michele Cortelazzo insisterebbe che non esistono le lingue africane ma solo i “dialetti” africani? Credo proprio di no. Eppure, le lingue africane non sono “strumenti posti sullo stesso piano” di altre lingue, dovuto al fatto che moltissime lingue africane sono subordinate al francese, l’inglese, e/o l’arabo. Ma sempre lingue rimangono, perché – come il veneto – sono sistemi tassonomicamente distinti per fonologia, morfologia, sintassi. Eppure “vi è una distinzione gerarchica” fra le lingue africane ed altre lingue, come per esempio tra swahili e inglese, ed una differenza di “estensione degli argomenti di cui possono trattare”, come dimostrato dal fatto che la lingua dell’università e dei tribunali in Africa è spesso l’inglese. Lo stesso si può dire mutatis mutandis delle lingue native americane.

Tuttavia, chi – nonostante i fatti oggettivamente deducibili dalla genealogia e tassonomia linguistica – insistesse che le lingue d’Africa o le lingue native americane sono “dialetti” perché socialmente subordinate ad altre lingue commetterebbe ciò che al giorno d’oggi è giustamente condannato come un atto di discriminazione linguistica. Eppure la discriminazione linguistica passa inosservata quando si tratta delle “nostre” lingue regionali. In questi casi, si accetta ancora che la “mia” lingua è lingua mentre la “tua” deve essere chiamata e trattata come “qualcos’altro”. E spesso si dimostra ciò che in Galizia viene chiamato “auto-odio linguistico”, ovvero “la lingua che mi hanno imposto a scuola è lingua, quella che parlavano i miei avi è qualcos’altro”. Anche Cortelazzo sembra essere in preda all’auto-odio linguistico, visto che molto probabilmente anch’egli è venetofono.

Notiamo poi come questo atteggiamento di discriminazione linguistica ha molto in comune con gli altri tipi di discriminazione: la mia è una religione, le tue sono superstizioni. Ed è qui il gioco di prestigio dell’imperialismo linguistico: se queste cose che vogliamo sopprimere le chiamiamo “dialetti”, “patois”, “idiomi”, “vernacoli”, e tutto quello che ci viene in mente fuorché “lingue”, allora il fatto che non hanno né riconoscimento né sostegno istituzionale può passare inosservato. Dopo tutto, i riconoscimenti istituzionali sono solo per le lingue, non per “quelle altre robe lì”. E quando vengono parlate solo in contesti ristretti ci sentiamo dire addirittura che i dialetti/patois/vernacoli sono così per loro “natura”, sono parlati in contesti ristretti perché “così è la vita”. Nascondendo però il fatto che l’uso in contesti ristretti è uno dei sintomi principali di una lingua in pericolo d’estinzione. E così l’illusione può continuare indisturbata, e il pericolo d’estinzione è mascherato da una presunta caratteristica “naturale”. Ma se le chiamiamo “lingue” allora il fumo si solleva e l’illusione svanisce, perché se le chiamiamo lingue allora poi la domanda nasce spontanea: perché queste lingue non sono protette? Perché lo Stato X protegge la lingua Y ma non la lingua Z? Cos’ha contro la lingua Z? E ciò rende la discriminazione linguistica percettibile, cosa che la Corte Costituzionale ha dimostrato ancora una volta di volere assolutamente evitare, con la benedizione della “linguistica italiana”.

Ma non finisce qui. Per razionalizzare il gioco di prestigio ci si inventano storie secondo le quali il veneto o il piemontese sono “dialetti” perché parlati in aree ristrette, insinuando che i chilometri quadrati sono una caratteristica per decidere se una cosa è lingua, quando al massimo possono aiutare a decidere se si tratta di lingua regionale piuttosto che di lingua nazionale, come ricorda anche la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Oppure si usa il trucco degli ambiti ristretti, aggiungendo così la beffa oltre il danno: si cita un sintomo della loro salute precaria (la diminuzione dei contesti d’uso) come ragione per mantenerle in salute precaria.

Questo dei contesti ristretti è un trucco che viene usato spesso da chi vuole negare l’emancipazione a un gruppo o a una lingua: vietare il suo inserimento in certi contesti o ambiti perché non è presente in quei contesti o ambiti. In sociologia questo trucco è conosciuto come la “profezia che si autoavvera”. Uno degli esempi più conosciuti è quello che fu usato per vietare il voto alle donne: le donne non possono votare perché è oggettivamente dimostrabile che sanno poco di politica. Era vero, in media sapevano poco di politica: generalmente non se ne interessavano perché erano scoraggiate a farlo, e in più non ne avevano motivo perché comunque non potevano votare. Et voilà, il gioco dell’egemonia culturale è fatto: non puoi essere domani perché non sei oggi.

Questa egemonia culturale è spregevole sia quando si tratta di diritti di voto che quando si tratta di diritti linguistici. Ma delegare allo Stato i poteri di linguista assoluto non è solo – come abbiamo visto – sia fonte di discriminazione linguistica che rifiuto della scienza, è anche un atteggiamento in diretta opposizione alle direttive Unesco. Infatti il compito dell’Unesco è anche di assicurarsi che gli Stati si prendano cura dei patrimoni dell’umanità. Le organizzazioni internazionali servono anche a questo: a riconoscere ciò che è un bene collettivo dell’umanità, e come tale non proprietà del singolo Stato perché il suo destino non influisce solo sul singolo Stato ma, appunto, su tutta l’umanità. Ed è facile capire perché queste organizzazioni internazionali sono importanti: uno Stato di religione X ha sul suo territorio luoghi di culto di religione Y che sono di grande importanza per la storia dell’umanità ma che lo Stato X vede come una minaccia. E’ saggio lasciar decidere allo Stato X cosa fare di questi luoghi? La risposta della comunità internazionale è ”assolutamente no”, perché questo Stato potrebbe distruggere o altrimenti lasciar crollare edifici che sono patrimonio di tutti, non solo dello Stato in questione. Il ruolo Unesco è anche quello di incoraggiare adeguate contromisure conservative laddove lo Stato in questione è incapace di farlo o è negligente. Possiamo quindi dedurre che il compito di decidere cos’è una lingua non può essere lasciato solamente ai singoli Stati perché, soprattutto nel caso delle lingue e delle culture, questi hanno la tendenza a lasciarle morire laddove tali lingue non sono in sintonia con le narrative nazionaliste. Insomma, fare dello Stato il sommo linguista è come chiedere al lupo di fare il pecoraio.

Ed è anche per questo che è nato l’Atlante Unesco delle lingue in pericolo, con lo scopo di combattere queste tendenze dei singoli Stati, sull’impronta del Lista dei Patrimoni dell’Umanità. E quindi non possiamo lasciare il destino delle lingue regionali in mano a Stati la cui politica linguistica è spesso stata la causa principale della deriva di queste lingue, distruggendole attivamente o altrimenti lasciandole “crollare”, tecnica conosciuta in linguistica come “negligenza benevola”, dove il “benevolo” è principalmente una cortina di fumo.

Ed è per questi motivi che la decisione di ciò che è lingua non solo non può, ma non deve essere lasciata allo Stato. E i linguisti internazionali questo lo sanno bene. Come ha affermato il responsabile europeo dell’Atlante Unesco: “Nonostante vi siano certamente casi limite, anche in Europa, di solito è abbastanza facile dire quali isoglosse corrispondono a confini tra lingue e quali no”.
Queste separate da isoglosse, ovvero da caratteristiche puramente linguistiche, sono le lingue del mondo, veneto e piemontese inclusi. Queste sono i patrimoni dell’umanità, che poi alcuni Stati decidono di salvare e altri decidono di lasciar morire. E quando uno Stato decide di lasciar morire una lingua inizia sempre e prevedibilmente col trovargli un nome che non sia “lingua”, in modo da abbassarne il prestigio e scoraggiarne l’uso.
E’ questa la grande beffa di termini come “dialetto” o “patois”, o “vernacolo”, nati appositamente per nascondere la discriminazione linguistica che, come fa notare Philippe Blanchet, è l’unica forma di discriminazione apertamente accettata dalle istituzioni occidentali. Nel caso delle “nostre” lingue questa discriminazione è addirittura sostenuta e difesa dagli accademici.

Marco Tamburelli
Professore Associato di Bilinguismo
Università di Bangor, Galles (GB)

Fonte: ACADEMIA DE ŁA ŁENGUA VENETA


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