Né leghista né retrogrado, il dialetto vuol dire cultura

Non è provincialismo, i dialetti sono i linguaggi dell’anima, dell’amore e della contemplazione ed è un peccato perderne il patrimonio linguistico

Non stiano a scandalizzarsi, i politici, funzionari e celebranti del pensiero unico mainstream per la perturbante proposta dell’assessore alla Cultura della Regione Lombardia Cristina Cappellini, di istituire nelle scuole occasioni di approfondimento della lingua lombarda.

Soprattutto lascino perdere l’accusa di provincialismo. E ancor più quella di essere retrò e fuori dal tempo. Perché se c’è qualcosa di antiquato e ridicolmente provinciale, con l’attuale crisi degli Stati nazionali per non parlare di quelli sovranazionali (come l’Europa), sono le arie di cosmopolitismo e internazionalismo di chi è saltato in groppa alla globalizzazione proprio nel momento in cui (copyright Carlo De Benedetti) essa sembra tirare le cuoia, e scarica i suoi improvvisati cavalieri esattamente lì dov’erano prima: i territori tradizionali, le nazioni vecchie di millenni e non di poco più di un secolo, le loro lingue impastate di storia, di sofferenza, di saggezze e risate popolari.

È da più di 20 anni, infatti, che si discute, non al bar sport ma nelle più prestigiose università del mondo, di crisi degli Stati nazionali (nati nell’800 con la fine dei grandi imperi continentali), e delle loro lingue burocratiche, create dai funzionari per farsi capire dai loro nuovi cittadini, anche per farsi pagare altre tasse, inventate allora. Sul piano letterario e linguistico poi la questione era nata subito dopo la nascita dei nuovi Stati. In Italia, per esempio, con le diverse redazioni de I promessi Sposi, scritto dal Manzoni prima in una lingua ancora impastata di milanese, e poi rivisto «bagnati i panni in Arno».

Continuò così anche nel ‘900, con Carlo Emilio Gadda che sentiva il bisogno di riprendere non solo i lombardismi, ma gli ispanismi ormai penetrati nell’anima lombarda e da lì mai usciti; Pasolini che poetava in friulano, Biagio Marin in veneziano, e così via. Senza dimenticare naturalmente Belli e Trilussa, e tutti gli altri. Ci sarà pure una ragione se tre quarti della poesia italiana non è scritta «in italiano». Il fatto è che almeno tre quarti delle nostra anima non è riducibile all’orrido burocratese fiscal-televisivo cui ormai è ridotta la lingua che fu di Dante e Petrarca. Con la complicità di migliaia di professori altisonanti e di burocrati che hanno ucciso un idioma che certo era stato una delle grandi lingue europee, con la sua ricca costellazione di lingue locali.

Per fortuna, però non hanno potuto, nella loro sete di autopromozione sociale (l’italiano burocratico era considerato «fine» da chi non parlava le lingue più antiche), uccidere i linguaggi dell’anima, quelli dell’amore e della contemplazione. Quelli (anche) delle ribellioni ai birbanti di turno, austriaci, spagnoli, francesi, ma poi delle burocrazie nazionali, dei «lei non sa chi sono io», da dovunque venissero.

Mentre noi si andava scoprendo tutto questo, e i nostri grandi scrivevano poesie (e canzoni: quelle napoletane ad esempio, ovviamente più amate nel mondo di qualsiasi nostro inno), negli altri paesi «forti» europei accadeva qualcosa di molto simile. In Francia le regioni nel sud andavano riscoprendo le loro radici occitaniche, e si facevano tesi nella langue d’oc, la più antica lingua del continente. In Spagna si riscopriva il catalano, il basco (gli autonomisti hanno vinto le elezioni tre giorni fa), la cui dignità linguistica oggi non è più contestata, così come la legittimità dei movimenti che la rivendicano. Lo stesso in Inghilterra, in Cornovaglia, nel Galles, per non parlare della Scozia. E dovunque, altrove.

Allora, egregi dignitari, dov’è lo scandalo? Perché mai in Lombardia, dove in casa i nonni parlavano il lombardo e il francese (e qualche parola di tedesco), dovremmo dimenticare tutto per parlare il romanesco povero della Tv? È noto che il recupero degli aspetti forti dell’identità (come è la lingua tradizionale), tranquillizzino tutti, chi sta lì da secoli, e chi arriva adesso. È la povertà, soprattutto culturale e spirituale, che rende aggressivi. Nessuno, dunque, ci tolga le nostre parole. Anzi, ridatecele.

 

Fonte: ilgiornale.it – 29/09/2016


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