---------content---------

EVETOY – HENETI

Le fonti scritte sugli antichi Veneti sono molte e ben note, distribuite in un ampio arco di secoli e riferibili ai più famosi scrittori Greci e Latini: da Omero a Virgilio, da Tito Livio a Plinio il Vecchio.
I Veneti erano originari del medio oriente, da una regione posta vicino al Mar Nero.
Omero li chiamò “Evetoy” e così i tutti Greci; i Latini li dissero “Heneti” ben sapendo, come ci tiene a precisare Plinio (N.H. 37, 43), che questo termine era la traduzione di quello Greco.
Il significato Greco della parola EVETOY è: degni di lode, o lodevoli.

Luigi “Gigio” Zanon

---------content---------

Veneto, terra di eccellenze

Più di 8 milioni e mezzo di ettolitri di vino, un vigneto di quasi 80 mila ettari, dei quali oltre 2 milioni prodotti nelle DOC e DOCG: il Veneto è una Regione vitivinicola ai primi posti in Europa per qualità e quantità di produzione.
Non solo terra da vino, il nostro territorio rappresenta un vero e proprio paradiso anche per l’agricoltura. L’enorme varietà di panorami offerti dalla natura rende il Veneto ospite dei microclimi più disparati, dal bosco prealpino alla pianura fertile, fino a scendere verso il mare.

Nel 2016 il Veneto si è confermato la prima regione per turismo in Italia, con ben 17 milioni di turisti accolti.

---------content---------

Il Veneto oggi

Successivamente, le due guerre mondiali trasformarono la terra veneta in un campo di battaglia, con la distruzione di intere città. Dopo la seconda guerra mondiale, la nuova costituzione repubblicana sancì l’allontanamento del re d’Italia e, nel 1970, si formò la Regione del Veneto come forma di autogoverno, ridotta però a dimensioni minime, privata del Friuli, della Venezia Giulia, e delle genti venete del trentino che sarebbe stato logico accorporare in una macroregione per motivi storici, di cultura uniforme e di lingua (tranne che per il Friuli).

Grazie alla loro proverbiale dedizione al lavoro e al senso di sacrificio che da sempre li caratterizza, i Veneti hanno potuto rimettere in piedi da quel momento la propria economia, tanto da creare un vero e proprio modello industriale e di sviluppo: nasceva così il “fenomeno Nordest”, da molti chiamato anche “la locomotiva d’Italia”.

venezia-piazza-san-marco-1600x947

Ma la prima fonte economica per il Veneto è senza dubbio il turismo: è la prima regione italiana per flussi turistici.
Fa gli altri primati, i veneti sono primi o ai primissimi posti per solidarietà, per donazione organi e sangue, per riciclo delle immondizie, per accoglienza verso gli stranieri.
L’agricoltura in parte ha perduto l’abbondanza del passato, ma può sempre contare sulla fertilità della pianura veneta.

Il Veneto di oggi si presenta, insomma, come una terra che nutre promesse di rinascita, confidando nella sua enorme energia creativa, nei suoi talenti e nella sua laboriosità, nella valorizzazione sempre più forte della sua cultura e nell’autodeterminazione del suo popolo.

---------content---------

Fratelli di un Veneto fuori dal Veneto

Non solo nel Brasile, ma anche in Argentina, e altrove soprattutto i Veneti, i lombardi e i friulani, i cosiddetti polentoni (si ricordi che “polenta”, nel rioplatense popolare, è passata a significare forza, coraggio) assieme ai solidi piemontesi ed agli industriosi e parsimoniosi genovesi, hanno fornito, con le luci e le ombre naturali in tutte le cose umane, un contributo di progresso al paese che li ha accolti. Essi hanno conservato nel cuore fin dall’ultimo quarto del secolo scorso il sogno ed il mito della madre patria, della madre-matrigna che li ha abbandonati per più di cent’anni. Loro hanno invece continuato a rimembrarla ed a sognarla nei filò interminabili delle stalle contadine, nell’accorata e discreta intimità familiare, nelle commosse riunioni comunitarie, nelle umili preghiere quotidiane.

Giovanni Meo Zilio

---------content---------

Un anno pieno di stranezze…

I Veneti combattono convinti e con fierezza fra le truppe austriache a Custoza il 24 giugno 1866, vincendo contro l’esercito piemontese/italiano.
Con altrettanto valore, seppur in numero inferiore e con mezzi militari più scadenti, lottano e vincono anche contro la flotta italiana a Lissa il 20 luglio 1866. Tutti in coro esultano alla vittoria al grido “Viva San Marco!”, storico motto dei tempi della Repubblica Serenissima. Eppure, dopo appena tre mesi, vengono chiamati in tutta fretta ad esprimersi attraverso un plebiscito in merito all’unione delle terre venete con l’Italia: in tutto il Veneto solamente 69 voteranno NO…

Forse varrebbe la pena soffermarsi maggiormente su questo capitolo del nostro recente passato, dalle poche luci e molte ombre, per capire davvero cosa accadde in quell’ottobre del 1866.
Una data che cambiò il nostro destino.

---------content---------

L’epopea dell’emigrazione Veneta

01mar73Negli anni appena successivi l’annessione all’Italia arrivò un’ondata di povertà mai vista in Veneto: nuove tasse – come la tristemente famosa “tassa sul macinato” – e la leva obbligatoria, che privò le famiglie venete dell’aiuto dei giovani, stroncarono l’economia contadina veneta.

Appena dopo l’unità d’Italia iniziò uno dei più grandi esodi nel mondo: l’epopea dell’emigrazione veneta. I veneti furono costretti ad abbandonare la loro terra e le loro case, in cerca di una nuova vita, dalle foreste del Brasile alle miniere del Belgio, era l’inizio di un’emigrazione dalle dimensioni bibliche: fra 1876 e 1901, su una popolazione di circa tre milioni, dovettero emigrare oltreoceano 1.904.719 Veneti.

27f13625La prima emigrazione organizzata in partenza dal Veneto (in buona parte dalla provincia di Treviso e, in minor misura, dalla Lombardia e dal Friuli, risale al 1875. Infatti a partire da quell’anno cominciarono ad arrivare in Brasile – negli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paranà, Espirito Santo, e soprattutto nella cosiddetta “zona di colonizzazione italiana” ubicata nel Nordest del primo stato, che oggi ha per centro economico, commerciale e culturale la fiorente città di Caxias do Sul con circa 500.000 abitanti: miracolo di sviluppo e modello di “un altro veneto” trapiantato e cresciuto oltre oceano. Ad esso vanno aggiunte altre correnti emigratorie, soprattutto in Argentina e Uruguay, dove molti italiani erano già presenti da prima, e, in minor misura, in minor paesi come il Messico.

Le cause principali del fenomeno emigratorio furono, com’è noto, la miseria e l’emarginazione delle classi rurali dell’epoca, se non addirittura la fame, insieme al sogno della proprietà della terra da parte dei nostri contadini (allora veri “servi della gleba”), spesso ingannati da fallaci propagande interessate, favorite, a loro volta, dall’ignoranza commista alla speranza che è sempre l’ultima a morire. Ma va tenuto conto anche di quell’insop-primibile spirito di avventura, quell’attrazione verso il nuovo e il lontano che da sempre ha agito sull’umanità e che spesso viene trascurato dagli storici dell’emigrazione.

emigrazione-italiana-nel-900-e1440428431889La traversata atlantica in quell’epoca (nel fondo delle stive) fu da sola una epopea che ancora è presente nella memoria collettiva, tramandata in episodi struggenti nei ricordi dei vecchi e nella copiosa letteratura popolare, soprattutto veneto-brasiliana (canti, poesie, racconti), che, a partire dalle celebrazioni del centenario della prima emigrazione “in loco” (1975), è esplosa qua e là anche in forme stilisticamente pregevoli. Così pure rimane nella memoria collettiva l’epopea delle inenarrabili condizioni di arrivo e di insediamento e le lotte della prima generazione per disboscare a braccia la montagna, per difendersi dagli animali feroci, dai serpenti, dagli indios, dalle malattie, per costruire dal nulla strade e abitazioni, per affrontare continuamente la paura che diventava un’ossessione…

Questa storia di illusioni e di sofferenze, di eroismo e di umiliazioni, questa “storia interna” della nostra emigrazione, che rappresenta il rovescio della storia esterna di cui, più che altro, si sono occupati gli studiosi, è ancora tutta da approfondire.

immigrati_italiani%5b1%5dPer quanto riguarda il sud del Brasile, che può essere considerato emblematico, un primo gruppo di emigrati arrivò, dopo indicibili peripezie e sofferenze a quella che oggi si chiama Nova Milano, nei pressi di Caxias do Sul. Dal porto di Porto Alegre essi proseguivano in barconi lungo il rio Caì e poi a piedi, per chilometri e chilometri, attraverso la selva, con le poche masserizie sulle spalle, facendosi strada a forza di “machete”, fino a raggiungere i terreni loro assegnati proprio nella foresta, a nord dei territori pianeggianti e più fertili occupati dalla emigrazione tedesca 50 anni prima. Si può immaginare il costo umano di tutto ciò dopo che essi avevano tagliato i ponti dietro di sé, vendendo i loro poveri averi prima di partire dall’Italia.

Le tracce della prima colonizzazione si possono vedere ancora oggi in molti nomi di luoghi, come la citata Nova Milano, Garibaldi, Nova Bassano, Nova Brescia, Nova Treviso, Nova Venezia, Nova Padua, Monteberico…; mentre altri come Nova Vicenza e Nova Trento hanno cambiato successivamente i loro nomi originari nei nomi brasiliani di Farroupilha e Flores da Cunha in periodi caratterizzati da xenofobia. Tale xenofobia del governo centrale arrivò al punto che, negli anni dell’ultima guerra, a quei nostri immigrati che non sapevano parlare il brasiliano, fu proibito (pena l’arresto) di parlare la loro lingua veneta, con le conseguenze morali che è facile immaginare, oltre alle difficoltà pratiche (le quali spesso sfociavano nel tragicomico!) che tutto ciò produsse fra quella povera gente emarginata a cui era tolta perfino la parola…

Si tratta comunque di un fenomeno imponente – in Brasile come in Argentina, sia per estensione, sia per popolazione (nell’ordine dei milioni di discendenti), sia per la omogeneità e vitalità – il quale per più di un secolo è stato trascurato se non ignorato dal governo italiano e dalle sue istituzioni.

(tratto da un articolo del Prof. Giovanni Meo Zilio)

Mostra a schermo intero
---------content---------

1866, l’anno che cambiò il destino dei Veneti

Nel 1866, al termine della guerra perduta con l’Austria, il Regno d’Italia riuscì comunque a farsi consegnare, grazie alla sua alleanza con la Francia, le terre venete e friulane.
Il 1866 per i Veneti è stato un anno di profondi e radicali cambiamenti sotto tutti i punti di vista: sociale, politico ed economico.

lissaA Lissa la marina austro-veneta combatté e vinse per mare contro la marina italiana/piemontese. Era il 20 luglio e la Battaglia di Lissa passò alla storia come l’ultima grande vittoria della flotta veneta (la maggior parte dei marinai infatti provenivano dalle terre dell’ex Repubblica Veneta): gli ordini venivano dati in lingua veneta e al grido “….daghe dosso, Nino, che la ciapemo” l’ammiraglio Tegetthoff ordinò a Vincenzo Vianello da Pellestrina sul finire della battaglia lo speronamento della corazzata “Re d’Italia”, che affondò di lì a pochi istanti. Di fronte a quella vittoria gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando “Viva San Marco!!”. Questo era ancora lo spirito delle genti Venete.
Al termine del conflitto, gli austriaci vollero onorare i caduti nostri con un bel monumento, proprio a Lissa, su cui fecero incidere i nomi dei marinai veneziani e dalmati caduti e questo motto: “Uomini di ferro (i marinai veneti, ndr) su navi di legno, hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro”. Quando l’Italia fascista occupò la Dalmazia, tale monumento fu asportato dalla Marina italiana e è ora conservato all’accademia militare di Livorno.
I veneti si erano già scontrati pochi mesi prima, vincendo, contro l’esercito italiano: era il 24 giugno 1866 infatti quando le truppe piemontesi, guidate dal re Vittorio Emanuele II e da Alfonso Lamarmora, dovettero soccombere a Custoza contro quelle austriache, in cui combattevano moltissimi veneti.
Nonostante queste due sconfitte, le truppe italiane di lì a poco invasero le terre venete, approfittando del fatto che gli austriaci si erano ritirati dai nostri territori dopo che i Prussiani avevano vinto a Sadowa e stavano per minacciare Vienna. Di lì a poco si organizzò in tutta fretta per lo stesso anno un plebiscito per chiedere ai veneti se erano favorevoli ad entrare a far parte dell’Italia (a quel tempo Regno).
Il plebiscito (che Montanelli non esitava a definire “una burletta”) si tenne il 21 e 22 ottobre del 1866. Pochi lo sanno, ma il 19 ottobre, quindi un paio di giorni prima delle votazioni, in una stanza dell’hotel Europa sul Canal Grande il generale Leboeuf (plenipotenziario francese e “garante” dello svolgimento della consultazione) firmò la cessione del Veneto all’Italia. Prima ancora del plebiscito le terre venete erano già state cedute ufficialmente agli italiani, il tutto in sordina e senza clamore; solo “la Gazzetta di Venezia” il giorno successivo ne aveva dato notizia, in pochissime righe: “Questa mattina in una camera dell’albergo d’Europa si è fatta la cessione del Veneto”.

---------content---------

Il Congresso di Vienna e i Veneti

Con il Congresso di Vienna nel 1815 la Veneta Repubblica fu l’unico Stato di grandi dimensioni – travolto da vent’anni di guerre – a non essere restaurato perché l’Austria se ne appropriò. La perdita dell’indipendenza segnò per i Veneti l’inizio di una discesa terribile, fatta di stenti, fame e miseria, condizione che si trascinò fino agli anni ’50, costringendo metà della popolazione ad emigrare in tutto il mondo.

---------content---------

Napoleone e la Serenissima

Quando nel 1797 Napoleone Bonaparte penetrò nel nord della penisola italiana all’inseguimento delle truppe austriache in ritirata, Venezia si mantenne neutrale. Tuttavia, capìta la debolezza del ricco, florido, ma militarmente debole ospite, egli pensò di impadronirsi delle ricchezze dei Veneti accumulate nel corso dei secoli e di fare dello stato veneziano merce di scambio con gli Austriaci. Si inventò quindi di sana pianta un “casus belli” per imporre la fine del legittimo governo veneto ed istituire uno stato fantoccio, premessa della fine della millenaria Repubblica Serenissima anche come Stato, non solo come istituzione.
Nel marzo di quell’anno il Maggior Consiglio per risparmiare la popolazione accettò le dure condizioni di Napoleone, ignorando che già in aprile a Leoben, in Stiria, la Francia aveva concordato in gran segreto con l’Austria la cessione dei territori veneti.
Sotto le pressioni ormai insostenibile dell'”Attila” Napoleone (così si autodefinì il generale Corso nei confronti della Repubblica Veneta) e per opera di giacobini e collaborazionisti francesi che incitavano la popolazione a rivoltarsi contro la Repubblica Veneta (invano, poiché le municipalità che presero il potere nelle città dell’entroterra lo fecero solo grazie alle baionette francesi e alla non resistenza delle armate venete), il Maggior Consiglio abdicò i suoi poteri con la famosa votazione del 12 maggio 1797, “el xorno tremendo”, per far posto ad un governo filo-francese, chiamato “Municipalità provvisoria“. Questa nuova forma di governo durò pochi mesi, durante i quali per ordine di Bonaparte vennero abbattute le statue con il leone alato di San Marco, storico simbolo dello Stato veneto, e si arrivò perfino a fucilare quelli che gridavano “Viva San Marco!”.
Naturalmente il territorio subì un saccheggio terribile e i veneti furono costretti a vendere persino i panni che indossavano o le fibbie d’argento delle scarpe per far fronte a una tassazione feroce da parte dei francesi.

“Il Secolo XIX ha svuotato Venezia. Le generazioni che l’hanno abitata o visitata nella seconda metà del Settecento hanno visto ciò che gli uomini non vedranno mai più: una massa, una moltiplicazione, un crescendo di splendori inimmaginabili.
Chiese, conventi, palazzi, si addensavano, si stringevano gli uni agli altri, si contendevano il sole nelle vie e nelle strette piazze della città… Dovunque, la grandiosità massiccia delle costruzioni, l’opulenza dei marmi rari, degli ori, degli argenti, la sontuosa bellezza… si univano alla leggerezza, alla proporzione, alla grazia, all’eleganza, allo slancio delle linee e degli ornamenti, ai capricci e alle invenzioni della fantasia, alla bellezza aerea che soltanto lo spirito può cogliere…”.
La Venezia sul cui suolo le truppe del generale Baraguay d’Hilliers mettevano piede (la prima armata straniera nella sua storia) il 15 Maggio 1797, tre giorni dopo l’abdicazione del Maggior Consiglio, la stessa sera in cui l’ultimo Doge lasciava silenziosamente il deserto Palazzo Ducale, era un gioiello di splendezza solare su cui calava un fatale eclisse.
Nessuna guerra l’aveva mai toccata: né gli Unni, né i Franchi di re Pipino, né i Genovesi, né gli Stati Europei confederati nella Lega di Cambrai erano mai riuscitia violare la ben custodita distesa delle lagune. Gli incendi erano stati numerosi, specie nei primi secoli, e ancora verso la fine del Cinquecento il fuoco aveva devastato il Palazzo Ducale, ma il danno che avevano potuto procurare era stato ben poca cosa, di fronte all’ininterrotto accumularsi di ricchezze che aveva fatto di Venezia, nei suoi secoli d’oro, il forziere d’Europa.

Alvise Zorzi, Venezia scomparsa

La fine della Repubblica gloriosa sembrava impossibile a tutti. Il popolo in particolar modo dapprima impugnò le armi contro gli invasori (famoso resta l’esempio delle “Pasque Veronesi”) e poi manifestò in ogni forma il suo cordoglio: celebre è l’episodio di Perasto, cittadina sulle bocche di Cattaro, oggi nel Montenegro, che fin dai tempi antichi custodiva la bandiera dell’ammiraglia della flotta da guerra veneziana. Per secoli era rimasta in vigore l’usanza secondo cui dodici gonfalonieri perastini erano designati a difenderla, fino al prezzo della vita, come accadde a Lepanto, sul ponte della nave.

Convegno “Napoleone Bonaparte e il Veneto” – relatore: avv. Lorenzo Fogliata

Quando nell’agosto 1797 il barone Rukovina volle prendere possesso della cittadina a nome dell’imperatore d’Austria, i perastini chiesero gli onori solenni alla bandiera veneta, e la seppellirono sotto l’altare della chiesa, dopo averla baciata tutti e bagnata di lacrime. Era il 27 agosto 1797 quando il “Capitan de le Guardie” Giuseppe Viscovich seppellì sotto l’altar maggiore del Duomo la bandiera veneta, pronunciando un discorso di grande amor patrio:

lallich-il-bacio-di-perasto-450-jpgPERASTO: il saluto in lacrime alla Bandiera Veneta

27 agosto 1797

Discorso pronunciato a Perasto – oggi importante città dello Stato del Montenegro – dal “Capitan de le Guardie” Giuseppe Viscovich il 27 agosto 1797, quando dovette sepellire, assieme all’intera popolazione in lacrime, il Gonfalone di San Marco, riponendolo momentaneamente sotto l’altar maggiore della del Duomo in attesa del ritorno dell’amata Repubblica:

“In sto amaro momento, in sto ultimo sfogo de amor,
de fede al Veneto Serenisimo Dominio, al Gonfalon de la Serenisima Republica,
ne sia el conforto, o citadini, che la nostra condota pasada,
e de sti ultimi tenpi, rende non solo più giusto sto ato fatal,
ma virtuoxo, ma doveroxo par nu.
Savarà da nu i nostri fioi, e la storia de el zorno
farà saver a tuta l’Europa, che Perasto la gà degnamente sostenudo fin a l’ultimo
l’onor de el Veneto Gonfalon, onorandolo co sto ato solene,
e deponendolo bagnà de ‘l nostro universal amaro pianto.
Sfoghemose, citadini, sfoghemose pur, e co sti nostri ultimi sentimenti
sigilemo la nostra cariera corsa soto al Serenisimo Veneto Governo,
rivolgemose a sta Insegna che lo rapresenta, e su de ela sfoghemo el nostro dolor.
Par trexentosetantasete ani le nostre sostanse, el nostro sangue,
le nostre vite le xè sempre stàe par Ti, S.Marco;
e fedelisimi senpre se gavemo reputà, Ti co nu, nu co Ti,
e senpre co Ti sul mar semo stài lustri e virtuoxi.
Nisun co ti ne gà visto scanpar, nisun co Ti ne gà visto vinti e spauroxi!
E se i tenpi presenti, tanto infelisi par inprevidensa, par disension,
par arbitrii ilegali, par vizi ofendenti la natura e el gius de le xenti,
non Te gavese cavà via, par Ti in perpetuo sarave stàe le nostre sostanse,
el nostro sangue, la vita nostra.
E piutosto che védarTe vinto e desonorà da i tói, el coragio nostro,
la nostra fede se averave sepelìo soto de Ti.
Ma xa che altro no ne resta da far par Ti,
el nostro cor sia l’onoradisima tó tonba,
e el più duro e el più grando elogio le nostre làgreme.”

---------content---------

Istria e Dalmazia

La dedizione spontanea alla “Serenissima” della maggior parte dell’Istria occidentale e meridionale iniziò nel XII secolo e poteva dirsi praticamente conclusa attorno alla metà del Trecento. L’entroterra istriano centro-settentrionale fu feudo del Patriarca di Aquileia e del Conte di Gorizia (il quale era contemporaneamente vassallo del Patriarca di Aquileia e del sovrano del Sacro Romano Impero) fino al 1445.

Successivamente anche i territori del Patriarca di Aquileia (parte settentrionale dell’Istria interna) entrarono a far parte dello Stato Veneto.

La massima estensione della sovranità veneziana sulla penisola istriana fu raggiunta in seguito all’esito del lodo arbitrale di Trento del 1535, quando Venezia ottenne anche una parte del territorio della villa di Zamasco nei pressi di Montona. Da quel momento, Venezia conservò la sovranità su buona parte dell’Istria fino alla dissoluzione del suo Stato per opera di Napoleone nel 1797.

---------content---------

Dal ‘300 al ‘600

Alla fine del Trecento l’Istria e la Dalmazia divennero possedimenti stabili. Nel frattempo si aprì una serie di guerre in terraferma che videro la Serenissima prevalere sulle signorie locali, sbaragliando i Carraresi di Padova, gli Scaligeri di Verona, il Patriarca filo-imperiale di Aquileia e persino i potenti Visconti di Milano. Il valore sul campo non fu mai disgiunto da una scrupolosa azione diplomatica e da una calcolata e prudente conduzione politica da parte di organi di governo che al mondo di allora, apparivano il frutto di una perfetta ingegneria istituzionale.

Nel Quattrocento Venezia ha ormai formato il suo Stato, che comprende uno Stato di Terra e uno Stato da Mar estendendo i confini ad est ed ad ovest entro i limiti dell’antica Decima Regio. Lo Stato di Terra andava dall’Adda a ovest all’Istria ad est; Stato da Mar arrivava invece ad occupare tutta la costa dalmata più qualche isola della Grecia. Questo è forse il periodo più splendido e florido per la Serenissima: immense ricchezze si accumulano a Venezia, e ne beneficia tutto lo Stato perché ogni città può esportare in tutto il Mediterraneo e l’Europa del Nord i suoi lavorati e semilavorati.
Il governo veneto è amatissimo da tutti i suoi concittadini e si forma ormai un sentimento nazionale veneto (ma dovremmo dire si riforma) il cui simbolo è il Leone marciano, adottato già nel trecento sulle bandiere.

All’inizio del Cinquecento la Repubblica rischiò di sparire, stretta com’era da potenze ostili nella penisola italiana (che temevano la sua espansione continua) e in Europa. Intere nazioni coordinate dal Papato si allearono contro Venezia, formando la lega di Cambray: fu la prova più terribile per la Serenissima, ma i governati veneti ebbero modo di capire di aver fondato un vero Stato, coeso e unito alla capitale, nonostante le grandi autonomie garantite. Tutto il popolo della terraferma partecipò alla lotta contro l’invasore.
Il Macchiavelli, che si trovava a Vicenza come osservatore, tra l’esercito di Massimiliano d’Asburgo che massacrava “i resistenti” che si opponevano con roncole e forconi ai suoi soldati, vedendo contadini e popolani preferire la morte piuttosto che rinnegare San Marco (mi son marchesco e marchesco vojo morir: gridò orgoglioso un povero villano prima di salire sulla forca) scrisse che Venezia poteva vivere tranquilla e sicura, avendo simili sudditi fedeli. La crisi poi si risolse, sia grazie ai mutamenti di schieramento tra gli avversari, sia grazie al lavoro diplomatico della Repubblica. I territori invasi, praticamente l’intero Stato veneto da Terra, furono liberati.

Con il Seicento però l’attività mercantile cominciò a segnare il passo, per l’invadenza dei turchi che ostacolavano i traffici con l’Oriente e per l’apertura di nuove rotte per le Americhe. Pur minore rispetto ai secoli d’oro, l’attività marittima si mantenne comunque lucrosa e la flotta militare anche nel ‘700 restò tra le più potenti d’Europa. Il patriziato veneziano dimostrò un’incredibile versatilità come imprenditore in terraferma: fu incrementato lo sviluppo agricolo in campagna e il manifatturiero nella Pedemontana.
Iniziò così l’epoca delle Ville Venete.
Il Veneto divenne una delle aree più produttive d’Europa.

---------content---------

Scrisse Petrarca su Venezia, capitale della Repubblica Veneta

in una lettera del 1321 ad un amico Bolognese:
“quale Città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita: Città ricca d’oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond’è cinta, dalla prudente sapienza dè figli suoi munita e fatta sicura”.

---------content---------

La Serenissima Repubblica Veneta

La Serenissima Repubblica Veneta costituì un modello di Stato parlamentare e federale unico al mondo, a cui si ispirarono fra gli altri anche i padri fondatori degli Stati Uniti d’America.
Quella Veneta fu la più longeva Repubblica al mondo, durò più di 1.100 anni.

I popoli ad essa annessi lo fecero di loro spontanea volontà. Il termine di “Dominante” che spettava alla capitale è senz’altro fuorviante, se preso nell’accezione moderna, poiché in realtà tra i popoli (diversissimi tra loro) governati e Venezia ci fu soprattutto un vincolo di affetto filiale, nel loro sentimento, e paterno, nel sentimento di chi li governava.
Col tempo la Repubblica pose le proprie basi sulle sponde dell’Istria e della Dalmazia e si rivolse poi all’entroterra, consapevole di rioccupare territori che erano veneti già da millenni. Treviso, ad esempio, fu la primogenita del futuro “Stato de tera” e si “dedicò” alla Repubblica Veneta – cioè chiese ed ottenne di esserne annessa – nel dicembre del 1338.
Venezia assunse questo nome solo nel III secolo e sorse come centro intorno al V secolo con il nome di “Rivo Alto” (Rialto), formando successivamente una federazione con altre città venete della costa adriatica, da Grado a Chioggia. Questa unione politica nel 697 divenne uno Stato unitario con l’elezione popolare – fatto alquanto unico e raro in un mondo in cui imperavano re, sovrani e despoti – di un unico capo, il Doge (duca).
Il Doge era quindi l’espressione dell’arengo, o consiglio dei capifamiglia, tradizione, quella dell’assemblea, che si tramandava dai tempi dei Veneti antichi.

Documento in lingua veneta che spiega in maniera chiara e schematica la struttura delle cariche politiche della Repubblica Veneta, la Serenissima – fornito dall’Ass.ne Europa Veneta:
Mostra a schermo intero

La Serenissima, quando da “Dogado” (circoscritto alla Laguna) diventò un vero e proprio Stato, si strutturò come Stato federale.
Ogni città annessa, fosse veneta o meno, era considerata e chiamata “nazione” (la nazione bergamasca, la nazione bresciana ecc.).
Lo splendore della Repubblica fu costruito sulle enormi ricchezze derivanti dal commercio, favorito al massimo in maniera che fosse la principale fonte d’entrata dello Stato, il quale manteneva assai leggera la pressione fiscale sui sudditi. Era promosso e protetto lo sviluppo di ogni forma di Arte e corporazione, ossia le categorie economiche, e all’aprirsi della bella stagione si formavano due enormi convogli marittimi, uno diretto verso l’Asia, l’altro verso l’Oceano Atlantico.
Il proverbiale attaccamento dei cittadini (ma allora si chiamavano sudditi, come oggi gli inglesi) allo Stato Veneto fu la vera forza della nazione; davanti al bisogno della patria tutte le comunità, i popoli e le classi sociali si mobilitavano, greci albanesi slavi che vivevano dentro i suoi confini erano considerati “nazionali” a tutti gli effetti, e così chiamati nei documenti; ognuno aveva diritto a parlare la propria lingua, a reggersi con le proprie leggi, a seguire i propri costumi. Valori e conquiste che sono stati molto spesso cancellati dagli stati cosiddetti moderni, che si spartirono i territori veneti alla caduta della Serenissima.
Per quattro lunghi secoli la Serenissima costituì una diga possente contro la travolgente ondata ottomana che, forte di immense armate, ambiva al controllo del Mediterraneo. Ma Venezia la fermò. Tutti hanno sentito parlare di Lepanto (7 ottobre 1571) la cui vittoria si deve in gran parte all’apporto veneto e alla vittoriosa strategia di Sebastiano Venier, Capitano da Mar della Repubblica Veneta.

Presentiamo di seguito la tesi di laurea di Stefano Danieli

“LA REPUBBLICA DI VENEZIA – tra politica, religione e battaglie (XV-XVI secolo)”

Nel XIV secolo la Repubblica di Venezia si afferma nello scenario italiano e mondiale,
consolidando il suo dominio in numerosi porti ed isole del Mediterraneo orientale,
creandosi così una forte economia. Allo stesso tempo allargò i suoi confini anche verso
l’entroterra veneto, grazie a patti di dedizione e vittorie militari. Venezia a fine 1400 è
al massimo della sua espansione territoriale.
La ricchezza della Serenissima era incalcolabile, tanto da far invidia alle maggiori
potenze europee.

Mostra a schermo intero
---------content--------- ---------content---------

La “romanizzazione”

I Veneti ottennero la cittadinanza Romana nel 49 a.C., ma mantennero intatta la loro autonomia.
Tutto il Veneto fino alle Alpi, il Friuli (Forum Julii), l’Istria e parte della Lombardia costituirono la Decima Regio – Venetiae et Istriae – dell’ordinamento amministrativo Augusteo.
Con l’avvento del Cristianesimo, anche i popoli Veneti abbracciarono la religione di Cristo.
Fiorente di ricche città (Treviso, Concordia, Padova, Verona, Belluno, Oderzo, Vicenza, Rovigo, ecc.), il territorio soffrì moltissimo delle invasioni Barbariche: molte delle sue popolazioni si trasferirono lungo la zona della fascia costiera, dove, unitamente agli abitanti che già stanziavano nelle Lagune, fecero sorgere la attuale Venezia.

Luigi “Gigio” Zanon

---------content---------

“Decima Regio – Venetia et Histria“

Attorno al II secolo a.C. iniziò la cosiddetta fase della “romanizzazione”: i veneti non furono mai conquistati dai romani ma ne divennero alleati, accettando di diventare parte integrante del mondo romano. Essendo alleati e non dei vinti, come era d’uso, essi poterono mantenere le loro tradizioni, leggi e costumi anche se tra il secondo e terzo secolo dopo Cristo si perse l’uso della lingua venetica. Il latino che si incominciò a parlare mantenne però la cadenza e certe caratteristiche della lingua antica: ne abbiamo prova perché a Tito Livio, storico padovano, si rimproverava l’uso di un latino non puro.

Sotto l’imperatore Augusto le terre venete divennero la “Decima Regio – Venetia et Histria“, parte integrante dell’Impero Romano, che riconosceva quindi a questa zona un unico connotato culturale.

La caduta dell’impero romano mise il seme della nascita di Venezia, che portò avanti l’ eredità dei padri antichi, nella legge (vedi il “diritto veneto”, che era peculiare e diverso dal “diritto romano”, essendo diverse le fonti e le origini) e nelle tradizioni, dando vita nel contempo ad una nuova civiltà veneta, ammirata e rispettata in tutto il mondo.
I Veneti profughi dall’entroterra fondarono la capitale in laguna. Venezia, la “città dei Veneti“, per un breve periodo iniziale subì l’influenza bizantina, anche se con tutta l’autonomia che le derivava dai suoi nascenti commerci e dalla sua nascente flotta, destinata un giorno a dominare l’intero Mediterraneo.

Mostra a schermo intero
---------content---------

Intro

L’identità veneta affonda le sue radici in epoche antichissime, anteriori alle conquiste romane: la civiltà dei Veneti Antichi (o Venetkens), che durò più di 1.000 anni.
Gli antichi veneti avevano sviluppato una loro lingua – il venetico – e passarono alla storia come fra i più grandi allevatori di cavalli del tempo e grandi commercianti di ambra.
Il popolo veneto è uno dei pochi della penisola italiana a vantare un continuum dagli albori della storia, se non della preistoria. Si ha notizia dei primi Veneti insediati nel nord est della penisola, ma in un areale molto più vasto dell’attuale, fin da IX secolo a.C. stando ai rinvenimenti archeologici, dalle situle – vasi funerari in bronzo – ai reperti venetici trovati anche in Slovenia, Istria, nell’attuale Austria – Corinzia, fino ad Adria.
Le teorie sulle loro origini sono contrastanti, ma si inizia ad accettare l’idea (vedi Pallottino, Devoto e altri studiosi) che essi provenissero dal mar Baltico, o comunque dal centro Europa, e che siano giunti nella penisola commerciando l’ambra di quelle zone.
Secondo una nuova interpretazione e traduzione, lo studioso sloveno Matej Bor collocherebbe la lingua degli antichi veneti nell’area protoslava, cosa per la verità non accettata dagli studiosi italiani, che collocano la formazione del venetico in Italia, ritenendolo affine al latino (anche se all’epoca del venetico il latino era ancora in formazione).
Il principale nucleo urbano degli antichi veneti fu senz’altro Este, ove è presente oggi un interessante museo con moltissimi reperti dell’epoca. Altro grande centro della civiltà paleoveneta fu Padova, fondata secondo la tradizione nell’anno 1183 a.C., ben prima di molti altri insediamenti storicamente importanti come la città di Roma, fondata nel 753 a.C..

Approfondimenti:

Alla scoperta dei PALEOVENETI – gli antichi nostri progenitori

Mostra a schermo intero