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Invito alla mostra “Storia della Lingua dei Veneti”

Inaugurazione

Venerdì 12 Aprile, ore 12.00 a Venezia, Palazzo Ferro Fini sede del Consiglio regionale del Veneto, verrà inaugurata una mostra dedicata alla Lingua Veneta!


Si tratta di un’esposizione composta da 24 pannelli che attraversa 3000 anni di Storia alla scoperta della Lingua dei Veneti, dal venetico delle iscrizioni su pietra, al veneto storico dei trattati e della letteratura fino agli scritti del veneto moderno, con i dizionari, le grammatiche e le app.

Una rassegna documentale mai concepita prima

Ogni tappa è spiegata in quattro lingue: Italiano, Veneto, Inglese e Portoghese brasiliano. Inoltre è possibile ascoltare l’audiolettura delle didascalie in veneto grazie ai QR code.

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“Storia della Lingua dei Veneti” è un progetto dell’associazione culturale InfoMedia Veneto, con il contributo della Regione Veneto ed in partnership scientifica con Academia de ła Bona Creansa – Academia de ła Łengua Veneta.

La Mostra è visitabile a Palazzo Ferro Fini (San Marco – Venezia) dal 9 al 26 Aprile, dalle ore 9 alle 17.

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Istroveneto un bene del territorio

A colloquio con Suzana Todorović collaboratrice dell’Unione Italiana nell’ iter per la registrazione del dialetto quale patrimonio immateriale della Slovenia

“Una bella notizia e un bellissimo traguardo per l’Unione Italiana e per tutti gli appartenenti alla CNI, per gli autoctoni istriani che adoperano nella vita di ogni giorno il dialetto Istroveneto quale lingua materna”. Non nasconde la sua soddisfazione la professoressa Suzana Todorovićda anni impegnata in ricerche sui dialetti dell’Istria slovena e accanto a Marianna Jelicich Buić collaboratrice dell’UI nell’ iter procedurale che ha portato alla registrazione dell’Istroveneto nel patrimonio culturale immateriale della Slovenia.
“L’ idea della registrazione era partita qualche anno fa proprio dall’ attuale presidente dell’UI, Maurizio Tremul che mi aveva invitata ad occuparmi degli aspetti scientifici della vicenda” ricorda la Todorović stando alla quale la decisione ha un’importante valenza politica “significa che la Slovenia accetta la presenza multiculturale e plurilinguistica, la presenza di istriani di altre origini in questa zona. Ciò conferma che anche gli sloveni per fortuna hanno capito che la popolazione romanza è sempre vissuta in questi luoghi” dichiara la dialettologa che nella formulazione della richiesta si è avvalsa proprio delle ricerche da lei effettuate.

“Nella documentazione inoltrata al Museo etnografico sloveno che è competente per la designazione del patrimonio immateriale andava innanzitutto definito l’ ambito d’ uso dell’ Istroveneto ed in questo contesto mi sono avvalsa di una cartina che ho pubblicato nel 2015 e dove sostenevo che l’ Istroveneto si è sempre parlato a Capodistria, Isola, Pirano e nelle zone circostanti contestando i dialettologi sloveni secondo i quali invece nelle città costiere si è sempre parlato il dialetto “savrino” o quello “risano”.
Tra la documentazione presentata a Lubiana numerosi materiali a conferma che la lingua viene parlata tutt’ oggi, elementi storici sulla classificazione del dialetto, l’elenco delle opere che descrivono la parlata, l’elenco delle associazioni che si occupano della valorizzazione dell’idioma e fino alla descrizione della cultura istroveneta.

“Un lavoro complesso e minuzioso ma ne è valsa la pena” afferma Suzana Todorović e aggiunge “Dopo quasi tre anni io quasi non ci speravo più anche perché da quanto traspare dalle ricerche dei dialettologi sloveni e dall’ultimo Atlante linguistico sloveno a Capodistria, Isola e Pirano gli istriani parlano solo sloveno il che naturalmente non corrisponde né alla verità storica né alla realtà odierna”.
Per la Todorović un grande contributo alla registrazione dell’Istroveneto è stato dato indubbiamente dalle numerose ricerche scientifiche pubblicate negli ultimi anni, dai convegni e tavole rotonde volte alla valorizzazione della parlata locale. 
Ora un analogo procedimento sarà inoltrato anche in Croazia.

Lionela Pausin Acquavita

Fonte: https://capodistria.rtvslo.si

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L’Istroveneto diventa patrimonio culturale immateriale della Slovenia

Il coordinatore per la tutela del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Slovenia, dott.ssa Tanja Roženbergar, direttrice del Museo etnografico sloveno, ha comunicato che la richiesta inoltrata dall’Unione Italiana di Capodistria per la registrazione dell’Istroveneto quale patrimonio culturale immateriale della Slovenia, risponde a tutti i criteri richiesti ed è pertanto adatto per l’iscrizione nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Slovenia. La decisione è stata accolta in data 19 marzo 2019 dalla preposta Commissione scientifica per le lingue. La procedura d’iscrizione nel Registro è in capo al Ministero per la Cultura sloveno, mentre la documentazione per la sua iscrizione è di competenza del coordinatore.

Un’edizione degli anni passati del festival dell’Istroveneto a Buie


L’Unione Italiana ha posto la tutela e la registrazione del patrimonio culturale materiale, mobile e immobile e del patrimonio culturale immateriale della Comunità Nazionale Italiana in Croazia e Slovenia tra le sue priorità d’intervento: l’impegno e gli sforzi profusi in quest’ambito hanno prodotto un nuovo importante risultato.
Abbiamo contattato il presidente dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, il quale ci ha spiegato come è nato il progetto e qual è il significato dell’esito ottenuto per la Comunità nazionale italiana.

Un importantissimo risultato

“Nel 2015 abbiamo fatto un’operazione del genere. L’Assemblea dell’UI aveva approvato una mozione su proposta dell’allora onorevole Roberto Battelli che diceva di impegnare l’UI a intraprendere le iniziative necessarie per la registrazione e la tutela del patrimonio culturale della CNI, sia quello materiale che quello immateriale. A seguito, abbiamo iniziato a preparare la documentazione per la registrazione dell’Istroveneto in Slovenia. In Slovenia perché è più semplice qui, dato che l’Istroveneto ha le sue varietà a Capodistria, Isola e Pirano. In Croazia invece le varietà sono molteplici – ha ricordato il presidente dell’UI –.
Il 26 maggio 2016 l’Unione Italiana di Capodistria, avvalendosi della collaborazione scientifica della dott.ssa Suzana Todorovič, con il coordinamento dalla responsabile del settore Cultura della Giunta Esecutiva, Marianna Jelicich Buić, ha inoltrato la richiesta di iscrizione dell’Istroveneto nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Slovenia presso il Museo etnografico sloveno di Lubiana.
Sono passati quasi tre anni e ora ci è stato detto che la nostra richiesta soddisfa tutti i criteri per poter essere iscritta nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Slovenia. Ciò significa che tale lingua verrà riconosciuta e tutelata. La decisione è stata presa dalla competente commissione scientifica del coordinatore per la tutela dei beni culturali immateriali. Il fatto che la Slovenia riconosca che ci sia un dialetto istroveneto storico, una lingua autoctona, presente e viva, è una decisione storica.
È stato riconosciuto dunque il carattere culturale italiano-istroveneto di questo territorio. La decisione di considerare a tutti gli effetti l’Istroveneto quale patrimonio culturale immateriale della Slovenia, rappresenta un importantissimo risultato raggiunto nella conservazione e valorizzazione del ricco patrimonio culturale della Comunità nazionale italiana in Istria, Quarnero e Dalmazia”, ci è stato detto.
Richiesta per l’Istroveneto della Croazia
“L’Unione Italiana ora cercherà di completare la documentazione per la richiesta di iscrizione dell’Istroveneto nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Croazia. Continueremo con quest’opera di valorizzazione, tutela e conservazione del nostro patrimonio culturale”, ha annunciato Tremul.
Infine, il presidente dell’UI ha voluto ringraziare la prof.ssa Suzana Todorovič, linguista di spicco in Slovenia, che ha preparato la parte scientifica della domanda, Marianna Jelicich Buić, la quale è stata all’epoca sua vicepresidente di Giunta che ha coordinato il progetto, e tutti i dipendenti di allora e quelli di oggi dell’Unione Italiana di Capodistria, che hanno contribuito a preparare la documentazione che ha portato di fatto a un risultato straordinario. (krb)

Fonte: http://lavoce.hr

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Il glottodidatta Balboni: “Un bambino bilingue? Lo è anche con il dialetto”

Intervista al professor Paolo Balboni sul concetto di bilinguismo, e su come funziona nei bambini

Un bambino che parla italiano e dialetto può considerarsi bilingue? Perché in Italia per tanto tempo questo genere di bilinguismo è stato guardato con sospetto? E ancora, l’apprendimento di una lingua può disturbare l’apprendimento dell’altra? Abbiamo posto queste e altre domande ancora al glottologo Paolo Balboni. Ecco come ci ha risposto

Il prof. Paolo Balboni

Un bambino bilingue è anche colui che parla italiano e dialetto oppure possiamo definire tale solo chi parla due lingue distinte come l’inglese e italiano? Dal punto di vista linguistico e cognitivo non c’è nessuna differenza tra l’uso di due forme o sistemi linguistiche, esiste invece un atteggiamento politico-sociale che riconosce una lingua più parlata come prestigiosa in paragone a un’altra minoritaria e/o meno usata. È ovvio che l’atteggiamento delle famiglie, delle scuole e della comunità nei confronti del bilinguismo spesso influenza la lingua minoritaria regionale o di immigrazione, e anche i bambini si rendono conto se una lingua viene considerata ed apprezzata oppure no. Di questo tema ce ne parla Paolo Balboni, il famoso glottodidatta e professore ordinario di Didattica delle lingue all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Attualmente Balboni è anche il dirigente di un gruppo di ricercatori che collaborano con il Centro di Ricerca sulla Didattica delle Lingue. P. Balboni ha scritto numerosi libri di didattica, e molti insegnanti di lingue si sono preparati con i suoi manuali. Balboni ha anche scritto e manuali sul bilinguismo. Due di questi sono: Dizionario di glottodidattica, ed Educazione Bilingue, entrambi pubblicati nel 1999 da Guerra Edizioni.

Negli anni Novanta, nel Trentino, la Federazione delle Scuole Materne decise di impostare un progetto di educazione bilingue italiano/ladino, affidandone la direzione scientifica al glottodidatta veneziano Paolo E. Balboni, che puntò come fine del progetto il processo e la creazione di una “personalità bilingue”; si tratta di un sistema basato su tre poli: “io di fronte a me stesso”; “io e i vari tu con cui ho relazioni personali”; “io e la comunità (sincronica e diacronica) di cui sono parte”. Oognuna di queste relazione influenza le altre due. Lo studio, pubblicato nel 1999 in un volume curato da Balboni, raccoglie nella prima parte di esso una serie di interventi che delineano la cornice concettuale dell’educazione bilingue e include i nomi di partecipanti e studiosi (fino al 2005 progettato con vita autonoma e gestito dalle persone formate negli anni Novanta), introducendo anche saggi di alcune personalità che parteciparono alla formazione degli insegnanti.

Per esempio, i primi saggi sono di Marcel Danesi e di Jim Cummins, due dei maggiori esperti mondiali di educazione bilingue. Il primo introduce il tema dell’educazione bilingue distinguendo tra miti e realtà, il secondo presenta lo stato dell’arte delle ricerche e delle teorie sull’educazione bilingue. Seguono due saggi di carattere psicolinguistico. Uno di Renzo Titone che affronta il problema dell’età dell’acquisizione di una seconda lingua, mentre Remo Job, affronta il problema secondo una prospettiva funzionale. Infine Cosimo Scaglioso, delinea le coordinate pedagogico-antropologiche dell’educazione bilingue. La seconda parte del volume offre analisi critiche di alcune situazioni bilingui in contesto europeo. Nella seconda edizione è stato aggiunto un corposo saggio in cui Carmel M. Coonan traccia un quadro dell’educazione linguistica in Europa.

Il volume presenta offre anche tutti gli strumenti operativi, dal curricolo alle schede di valutazione, e riporta i risultati del primo triennio di sperimentazione. Tra i dati più interessanti c’è la smentita di una delle regole più diffuse, “una persona una lingua” (cioè l’idea che un docente deva parlare solo una lingua): non solo questo modello non funziona operativamente (vengono presentati altri modelli organizzativi più efficaci), ma è controproducente in quanto vuole educare al bilinguismo presentando modelli di insegnanti monolingui. Rileggendo questi manuali ho deciso di fare alcune domande al Professore sul bilinguismo e queste sono le sue risposte:

Professore che cos’è il bilinguismo? Possiamo definirlo un frutto positivo dell’incrocio non solo di due lingue ma anche due culture?
“Le lingue non esistono in sé, da sole, se non come precipitato di una cultura, strumento di perpetuazione ed evoluzione di una cultura. Quindi bilinguismo significa anche biculturalismo, in un approccio comunicativo”.

L’Italia, grazie ai diversi sistemi linguistici chiamati dialetti, è un paese storicamente multilingue e una società multietnica. Possiamo definire gli italiani bilingui?
“Gli italiani che capiscono il dialetto (magari non lo parlano) sono bilingui, senza alcun dubbio”.

Perché nella maggior parte del territorio italiano il bilinguismo è circondato da credenze negative e convinzioni infondate, o visto come una cosa pericolosa per lo sviluppo mentale del bambino?
“È tutta l’Europa che lo pensa, da Napoleone in poi. Il bilinguismo italiano/dialetto è stato visto come una minaccia all’Italia Unita, è stato violentemente attaccato. Quello con le lingue straniere, sopra una certa età è percepito come inutile, non come pericoloso, perché l’Italia era provinciale. Dai 30-40 in giù, nessuno ne ha paura, molti lo cercano, alcuni se ne disinteressano perché non gli serve”.

Ci sono delle situazioni, o dei casi, in cui l’apprendimento di una lingua possa disturbare l’apprendimento di un’altra?
“No, se non transitoriamente e occasionalmente”.

Esporre un bambino piccolo a più idiomi nello stesso periodo di tempo che conseguenze può avere sullo sviluppo cognitivo?
“Aiuta lo sviluppo cognitivo, le capacità di problem solving, lo sviluppo dell’intelligenza relazionale, fina dal primo giorno di vita si può farlo con vantaggio per il bambino; all’’inizio può generare qualche confusione, che si risolve spontaneamente o con il tempo, specialmente in una logica one parent one language”.

Il bilinguismo è sempre una ricchezza nella vita del bambino oppure ha un limite di età affinché non si crea un inciampo nello sviluppo del linguaggio e per l’evoluzione cognitiva del bambino?
“Tutte credenze infondate; le prove del contrario hanno ormai 50 anni, sono note e stranote a chi vuole; chi segue i suoi pregiudizi, non studia le prove e quindi continua a dire sciocchezze”.

Professore, nonostante gli studi scientifici sul beneficio di parlare due o più lingue permangono molte perplessità in riguardo al bilinguismo, come mai?
“Per paura; per il principio ‘la volpe e l’uva; per ignoranza e mancanza di studio; allo stesso modo per cui ci sono i movimenti anti-vaccinazioni, quelli anti-gay, gli ‘anti-‘ in servizio permanente. Non capiscono, non sanno, quindi dicono no”.

Professore, il cervello del bambino non traduce. Eppure io noto molti studenti di seconda media e terza media che traducono anche se io dico loro di non farlo. Secondo lei perché alcuni studenti sentono il bisogno di tradurre per capire?
“Sono stati così abituati dalla scuola. È possibile, se non capisco, chiedere una parola o un’espressione, ma poi non la si traduce più se la scuola non insegna a farlo”.

I genitori che parlano solo una lingua, come per esempio l’inglese negli USA, in che modo possono aiutare i figli?
“Prendendo una baby sitter o una compagna di gioco straniera due tre volte la settimana; cercando con le altre famiglie un ‘asilo’ familiare in cui, poniamo, dalle 4 alle 6 ogni giorno si gioca in 4-5 bambini con una guida straniera”.

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Ricette e certificati in dialetto: così il sindaco difende il Veneto

Il sindaco di Santa Lucia di Piave (Treviso), Riccardo Szumski ha predisposto i certificati di nascita e matrimonio in dialetto veneto. Idem per le ricette ai suoi pazienti.

È il primo cittadino di Santa Lucia di Piave, un comune della provincia di Treviso di poco più di 9 mila abitanti. E il sindaco è già finito parecchie volte sulle cronache per i suoi modi bizzarri e, diciamolo, anche per il suo coraggio. Difficile nell’era del politicamente corretto, quando tutto è vietato e ciò che è permesso è quello che il politically correct impone, andare contro corrente ed essere amato dai cittadini.

Lui, 66 anni, medico di medicina generale dell’Ulss 2 della Marca Trevigiana, era già rimbalzato nelle cronache nazionali quando aveva restituito al mittente, in questo caso il Viminale, il contributo che il Governo dà ai comuni per l’accoglienza dei profughi. “I soldi per l’accoglienza? – aveva detto Szumski – teneteveli!”. E infatti, detto fatto, il giorno in cui i soldi sono stati accreditati nel conto del Comune, Szumski li ha ritrasferiti al Governo, con tanto di lettera.

Ed è anche lo stesso cittadino che per alcuni suoi comportamenti bizzarri era stato definito “sindaco non conforme”, ed era stato invitato dagli organi stessi ad adeguarsi. L’allora prefetto Laura Lega, si era scagliato contro alcune “dichiarazioni palesemente offensive nei riguardi delle istituzioni statali”, almeno così il prefetto le aveva definite. E a essere contestata anche la scelta del primo cittadino di indossare la fascia del Veneto. Ma lui è andato avanti per la sua strada. Anche nella vita professionale. Tanto da scrivere le ricette per i suoi pazienti in dialetto veneto.

“Se i pazienti mi parlano in italiano prescrivo i farmaci in italiano – dice Szumski – se parlano in dialetto li prescrivo in dialetto. Con quelli che mi parlano in lingua veneta, invece, uso la lingua veneta. Se alla signora Maria di 90 anni dico che deve prendere un farmaco a giorni alterni, mi chiede cosa significhi, se invece le dico “un dì sì e un dì no”, allora capisce. E infatti nelle ricette, ad esempio per la prescrizione di Prednisone Teva, si legge: “un al di par zincue di, dopo mesa al di par catro di, dopo te vien a controlo”, che tradotto vuol dire “una al giorno per cinque giorni, dopo mezza al giorno per quattro giorni, dopo vieni al controllo”.

E lui, nonostante il cognome del padre polacco e nonostante sia nato in Argentina dove i suoi erano emigrati, è più veneto che mai. Tanto che oltre alle ricette in dialetto, quando deve dare qualche comunicazione fuori dall’ambulatorio prepara gli avvisi bilingue: con la dicitura in italiano e in dialetto, anzi a volte solo in dialetto. “Serà par ferie dal 3 a l’8 de setenbre… se ve bisonjo andè da i altri dotori”, si legge. Che tradotto vuol dire: “chiuso per ferie dal 3 all’8 settembre, se avete bisogno andate dagli altri dottori”. O anche avvisi alquanto sarcastici: “Oggi pomeriggio studio chiuso per un obbligo burocratico dei medici di famiglia imposto dall’Ulss il lunedì pomeriggio. Che come tutti sanno è il giorno in cui avete meno bisogno del medico”.

Insomma un sindaco che non passa di certo inosservato. Ma che sa anche ben difendersi. L’Ordine dei Medici aveva rizzato le antenne per la questione delle ricette in dialetto e non aveva escluso un’indagine. Ma lui si è ben difeso:“hanno provato – dice al Giornale.it – ma la norma dispone che bisogna far capire la posologia al paziente, non scrivere in italiano. E con i pazienti al 90 per cento mi relaziono nella nostra lingua, traducendo anche le diagnosi ospedaliere. Il dialetto alcuni lo comprendono meglio”.

Tanto che ora, sono suoi i certificati di nascita e di matrimonio in dialetto. L’ultimo quello di matrimonio, pronto da martedì. Un certificato con sotto il gonfalone e lo stemma di San Marco, che porta la firma de El Mariga, ossia del sindaco e che porta la dicitura centrale: “Maridai in Veneto – sposati in Veneto”. Poi ai due lati la scritta in italiano: “Sposati in Veneto” e per non sbagliare pure quella in inglese: “Married in Veneto”. Un certificato spiega il sindaco che sarà consegnato a quelli che si sposano in Comune e se ne fanno richiesta anche a coloro che si sposano in Veneto. Idem per ogni nuovo nato, con la consegna di un apposito certificato: “Nasest in Veneto – nato in Veneto”.

“La nostra lingua – ci spiega, intendendo il veneto – è la linfa della nostra quotidianità, del nostro modo di essere, dei nostri pregi e difetti, di una lingua che corre il rischio di essere parlata ormai più in Brasile che qua. Una storia millenaria che non può essere misconosciuta come fa il sistema scolastico italico. Stiamo facendo un gemellaggio con una cittadina vicino a Valencia. Lì il valenciano lo insegnano a scuola, assieme al castigliano ufficiale ed è cosa del tutto normale. Quando dico loro che da noi nemmeno è riconosciuto il veneto come lingua sbarrano gli occhi. E parliamo della Spagna”.A marzo scorso la prefettura lo aveva definito “sindaco non conforme”, per “atteggiamenti non conformi” da sindaco, ma lui, Riccardo Szumski, se n’è fregato e ha tirato dritto.

Fonte: ilGiornale, 28 novembre 2018

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Brasile, convegno dei diffusori del talian (veneto-brasiliano)

In questo fine settimana e precisamente nei giorni 9, 10 e 11 novembre si terrà nella cittadina brasiliana di Serafina Correa, Rio Grande do Sul, il ventiduesimo incontro nazionale dei diffusori del talian ( veneto-brasiliano).

La tre giorni, che viene organizzata ancora una volta da Paolo Massolini, medico chirurgo di lontane origini vicentine, straordinario protagonista della lotta per la tutela e la valorizzazione del talian, inizierà venerdì 9 e prevede “Filò con brodo, storie,frotole e busie”, nella giornata di sabato inizieranno i lavori con diversi gruppi di studio sui rapporti con le istituzioni e con le università e sullo “stato di salute” del talian con particolare riferimento alla presenza nei mass-media mentre domenega 11 alle ore 8 “Messa in talian del prete Alberto Tremea” alla quale seguirà l’assemblea generale con la nomina del nuovo direttivo.

L’iniziativa assume quest’anno un significato del tutto particolare vista la recente elezione a Presidente del Brasile di Jair Bolsonaro, la cui famiglia partì dal Veneto alla fine dell’ottocento.

Sono passati quattro anni dal riconoscimento ufficiale da parte del governo federale brasiliano del talian come “Patrimonio Culturale Immateriale del Brasile”; prima lingua minoritaria brasiliana che ha ricevuto tale riconoscimento; il talian viene correntemente parlato da milioni di brasiliani soprattutto nei tre stati del Brasile del sud, Rio Grande so Sul, Santa Catarina e Paranà, ma anche negli stati di San Paolo e di Spirito Santo .

Ma come si può definire “el talian” ? Gli studiosi definiscono el talian (o veneto-brasiliano), l’ultima lingua neo-latina conosciuta, singolare koinè su base veneto-centrale nella quale si innestano termini brasiliani; una lingua “viva”, usata quotidianamente sul lavoro o all’università, per scrivere canzoni e poesie, in teatro, alla radio o alla TV. Ecco come la descrive Darcy Loss Luzzatto autore di un vocabolario “Brasiliano – Talian” di oltre ottocento pagine:

“I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar…. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian.”

Nel vocabolario troviamo, per esempio, un termine praticamente intraducibile in italiano, ma che i veneti conoscono benissimo “freschin”: in brasiliano diventa “odor desagradavel” e per spiegarlo meglio l’amico Darcy aggiunge un ” Che bira zela questa? La sa de freschin!” che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni…..

E’ straordinario come i discendenti di quei veneti che partirono nel lontanissimo 1875 (in seguito alle disastrose condizioni nelle quali il Veneto si era venuto a trovare dopo l’annessione all’Italia) abbiano conservato un simile patrimonio d lingua, cultura, civiltà; ed è ancora più incredibile se pensiamo che, durante la seconda guerra mondiale il “talian” venne proibito dall’allora dittatore Getullio Vargas.

Il Brasile entrò in guerra a fianco degli alleati e proibì sia l’uso del talian che del tedesco; diversi emigranti finirono in carcere e la loro non fu una sfida politica ma l’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il “talian”; ma nonostante questo la lingua dei veneti del Brasile ne è uscita più forte e più viva che mai.

Un altro pericolo per la lingua dei veneti “de là de l’oceano” è costituito da quei docenti che partono dall’Italia con l’obiettivo di portare la lingua italiana “grammaticale” come viene da loro chiamata.

Ecco quanto denunciava Padre Rovilio Costa, scomparso qualche anno fa, vero e proprio patriarca della cultura taliana in Brasile, in un messaggio chiaro e senza fronzoli, diretto a chi arriva dall’Italia e dal Veneto:

“Prima de tuto, che i italiani, sia veneti o de altre region, i vegna in Brasil rispetando la nostra cultura taliana, la nostra lengua che la ze el talian, no par imporre el so modo de veder e de far”.

Lascio la conclusione a Darcy Loss Luzzatto, a una sua poesia che dovrebbe essere diffusa nel nostro Veneto, dove scandalosamente c’è gente che si vergogna di parlare la lingua veneta, soprattutto nelle nostre scuole:

“Com’e bela ‘a nostra lengua, com’è melodiosa. E poetica. Basta parlada con orgolio e alegria, mai con paura o co la boca streta e vergognosa. E si con onor, con tanto tanto amor e simpatia”.

Ettore Beggiato

Cittadino onorario

Serafina Correa (Rio Grande do Sul)

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LA CRISI DELL’OCCIDENTE SI SUPERA A PARTIRE DALLE IDENTITA’ LOCALI NEGATE

Le spinte indipendentiste crescono in tutta Europa perché il legame con le proprie radici è da sempre parte dell’essere umano. Mentre gli Stati nazionali arrancano, i singoli territori sfidano la globalizzazione.

Tramontato (o almeno riveduto e corretto) il mito del mondo «globale», avanza il locale. Ogni pesciolino deve essere di quel posto lì, le miss non sono più tutte in bikini uguali ma magari nei costumi locali, le sartorie riscoprono origini e sedi antiche, defilatissime dagli itinerari standard della moda. Tutto ciò che è locale ha più storia, più personalità, forza, attrazione. È però tutt’altro che solo una moda. Si tratta di un lungo percorso, cominciato un bel po’ di tempo fa, che oggi mette al primo posto le diversità e ricchezze specifiche dei territori, e la loro richiesta di autonomie per meglio valorizzarle, in tutto il mondo.

Accade così che il giovane ministro agli Affari regionali, Erika Stefani, dichiari uscendo dal giuramento davanti al presidente della Repubblica: «Il primo punto che intendo realizzare è l’autonomia, soprattutto del Veneto e della Lombardia». E dopo: «Se si affossa l’autonomia, salta il governo». Affermazioni in sintonia con la più chiara tendenza politica e culturale degli ultimi 50 anni in tutto il mondo: quella che vede nella valorizzazione dei territori locali una delle maggiori possibilità di sviluppo dei prossimi anni. Il ministro era stata del resto preceduta (prima della formazione del governo), dall’appena eletta presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati , che aveva chiesto: «Il governo che verrà ponga l’autonomia come una priorità dell’agenda politica». È questo del resto lo zeitgeist, lo «spirito del tempo», cui la nuova dirigenza politica italiana, almeno sul piano delle dichiarazioni, appare assolutamente intonata, ed è di buon augurio che a segnarne l’inizio siano state due donne.

Il maschile non l’ha infatti sempre pensata così. Poco più di 100 anni fa, ad esempio, allo scoppio della prima guerra mondiale, in un mondo fino allora unificato sotto i grandi imperi politici e economici dell’epoca, Sigmund Freud (fondatore della psicoanalisi) notava allibito che fino a poco prima il cittadino «di razza bianca, cui era toccata la guida del genere umano» poteva nella sua immaginazione «costruirsi una patria più vasta per la quale girare in lungo e in largo senza essere intralciato». Era l’immagine oleografica del mondo come parco dei divertimenti del cosmopolita, obiettivo di molti fra coloro che potevano immaginarselo e soprattutto permetterselo. Un ideale riproposto poi con insistenza nel secondo dopoguerra da un capitalismo nel frattempo sempre più globalizzato, presente ovunque, spesso con gli stessi attori multinazionali, gli stessi prodotti e uguale stile di vita.

Nella «società dei consumi» il sistema economico aveva fame di consumatori globali, e cercava di conquistarseli, in un modo o nell’altro. Anche per questo gli Stati Uniti, d’accordo con l’Unione Sovietica, vollero nel secondo dopoguerra che i Paesi che avevano ancora colonie (Inghilterra e Francia innanzitutto) le lasciassero: per loro erano nuovi mercati da conquistare, economicamente e politicamente. Qui però comparve un fenomeno imprevisto per quasi tutti i politici (tranne per il vecchio Winston Churchill, che alla conferenza di San Francisco del 1945 aveva avvisato i superficiali alleati). Gli Stati nazionali disegnati a tavolino dalle potenze imperiali negli ultimi 150 anni si infransero infatti rapidamente, ma sotto di essi ricomparvero poteri e credenze molto più antiche che, per ottenere l’autonomia dai popoli vicini o dalle etnie prevalenti, non esitarono a impegnare in lunghi e complicati conflitti sia le grandi potenze sia l’Onu e le organizzazioni internazionali.

Soltanto ai confini dei Paesi comunisti, sotto l’influenza dei vicini marxisti, queste rivendicazioni assunsero contenuti soprattutto economico-politici. Nel resto del mondo si trattò per lo più di un’esigenza profonda: erano popoli che volevano riprendersi le terre loro appartenute spesso secoli prima, le proprie lingue e usanze, vivere a modo proprio. Questa richiesta produsse dagli anni Sessanta in poi una media di più di 100 guerre ogni anno, la maggior parte per l’autonomia. Ricomparvero così popoli di cui gli occidentali non sapevano nulla, che si dimostrarono molto più attaccati alle loro tradizioni che ai soldi o a riconoscimenti formali.

Il fatto è che la teoria illuminista delle relazioni internazionali e l’intera politica si erano dimenticate che oltre agli interessi, i denari e le ideologie ottocentesche esistevano le tradizioni, gli antenati, i territori, forse persino l’anima. I grandi commentatori, tuttavia, non si diedero troppa pena per capirne qualcosa. Attribuirono tutto, come al solito, all’ignoranza dei popoli: arretratezza, fascismi, eccetera. Da noi – scrissero – europei (sottinteso: bianchi e civilizzati), non sarebbe accaduto.

Invece stava già accadendo. Occitania, la grande e antica regione del Sud della Francia, con la sua antica langue d’oc, Corsica, Fiandre, Catalogna, Paesi Baschi, Sud Tirolo, Veneto, Lombardia, Sardegna, Valle d’Aosta, Galles, Scozia, Cornovaglia, per non citare che i casi più noti, sono tutti territori ben definiti, con storie millenarie, lingue, tradizioni di grande densità e ricchezza che ora stanno ritrovando, con sforzo e crescente determinazione. Oggi molti di loro hanno già ottenuto livelli più o meno importanti di autonomia, ma comunque tutti (e altri in Europa e altrove) vivono un crescente sviluppo, mentre gli Stati cui appartengono sono tutti più o meno esplicitamente impegnati in un faticoso processo di revisione delle rispettive strutture, in genere sovradimensionate rispetto all’attuale funzione degli Stati nazionali. Che sono appunto dovunque stretti tra le antiche e sotterraneamente sopravvissute «nazioni organiche» in buona parte etniche, forti di identità e forme di vita condivise e tuttora in sviluppo, e nuove alleanze geopolitiche come l’accordo di Visegrad, o quello tra Stati baltici del Nord Europa, che vorrebbero rappresentanze più articolate e flessibili delle vecchie burocrazie degli Stati o dell’Europa iperburocratizzata e opaca dell’ultimo quindicennio.

Le autonomie regionali, o l’omogeneità culturale all’interno aiutano lo sviluppo di buone relazioni economiche e politiche all’esterno. Lo si vide anche in Europa, dopo l’esplosione della multiculturale e multietnica Jugoslavia tenuta insieme dall’ideologia marxista e dall’alleanza tra Iosif Stalin e il dittatore jugoslavo Tito (Josip Broz). Tutti i «nuovi» Stati divenuti membri dell’Unione europea dopo il 2004, molti dei quali (come la Slovenia) formatisi con la dissoluzione della Jugoslavia, «erano ormai “unitari”, rappresentativi di un’unica identità etnica e culturale, mentre “prima solo cinque membri dell’Ue potevano essere definiti propriamente unitari, e gli altri erano fderazioni o Stati dotati di regioni autonome”» (lo documenta Tatjana Sekulic in La questione orientale, Donzelli editore). Gli Stati unitari e le regioni autonome si dimostrano oggi più in grado di difendere gli interessi dei loro cittadini sul piano internazionale. Non si tratta di ideologie: è un fatto. Come ha scritto Gianfelice Rocca, non un visionario ma il presidente di Techint, una delle maggiori multinazionali nella siderurgia avanzata, già presidente di Assolombarda: «Nella globalizzazione sono i territori e le città a vocazione internazionale che trainano lo sviluppo». Negli Stati nazionali occorre «una diversa articolazione nei rapporti con l’Europa e con le autonomie territoriali». Tradotto: i territori devono essere più autonomi.

Anche di riprendersi e difendere le proprie tradizioni, convinzioni, lingue, vocazioni, speranze.

Fonte: quotidiano LaVerita’
10/06/2019

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La Regione del Veneto avrà un suo Inno, probabilmente in lingua veneta

Il 6 giugno 2018 la Prima Commissione consigliare ha dato il via libera all’adozione di un Inno regionale per il Veneto.


Articolo tratto da Il Gazzettino del 7 giugno 2018

Su proposta del consigliere Antonio Guadagnini (Siamo Veneto), sia i consiglieri della Lega che quelli della Lista Zaia hanno infatti votato a favore: “altre Regioni, a partire da Sicilia e Sardegna, dispongono di un proprio Inno e non si capisce perché il Veneto debba farne a meno, senza contare che il Veneto è tra le prime Regioni in Italia a vantare una storia continuativa come Popolo unitario da oltre 1000 anni”.

L’Inno che potrebbe essere adottato è “Na Bandiera, na Lengua, na Storia”, un progetto nato su spinta di diverse associazioni culturali venete negli anni scorsi: la musica, riadattata dal compianto Maestro Luciano Brunelli, è tratta dalla “Juditha Triumphans” del compositore veneto Antonio Vivaldi, oratorio composto nel 1716 su richiesta della Repubblica Serenissima di San Marco, in onore della riconquista dell’isola di Corfù; il testo è in lingua veneta e riprende le diverse sfumature linguistiche parlate nell’intero territorio regionale.

“Na Bandiera, na Lengua, na Storia” – video da YouTube:

Una curiosità: “Na Bandiera, na Lengua, na Storia” era già stato proposto come Inno regionale nel 2009

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[SPECIALE] Il 22 marzo 1848 rinasce la Repubblica di San Marco!

“Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo poiché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli… Viva la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco!”

Daniele Manin


Manin alla presenza del popolo proclama la “Repubblica di San Marco”

Forse non tutti sanno che la Repubblica Veneta, dopo esser caduta nel 1797 per mano di Napoleone Bonaparte (“sarò un Attila per Venezia”), rinacque una seconda volta: era il 22 marzo 1848.

Come cita Wikipedia, “la Repubblica di San Marco fu uno Stato costituito a Venezia il 22 marzo del 1848 a seguito dell’insurrezione della città, che aveva avuto inizio il 17 marzo dello stesso anno, contro il governo austriaco. Ideatore della rivolta e figura chiave della Repubblica fu l’avvocato veneziano di origine ebraica Daniele Manin”.

Daniele Manin (1804-1857) avvocato e rivoluzionario

Assunse su di sé la responsabilità della guida della neonata Repubblica di San Marco, il 22 marzo 1848, e con un manipolo di altri intellettuali resse le difficilissime redini di un governo provvisorio e tenne testa a un impero, quello asburgico, con un esercito fatto di volontari veneziani e veneti, di dalmati, svizzeri, soldati pontifici e napoletani. Diciassette mesi che gli sconvolsero per sempre l’esistenza. Eppure Daniele Manin, nella sua vita, avrebbe probabilmente voluto solo fare l’avvocato e occuparsi dei suoi studi umanistici e di trattati legali.

Talento precocissimo, si iscrisse quattordicenne alla facoltà di Giurisprudenza a Padova e in tre anni, nel 1821, conseguì la laurea in legge, dovendo poi attendere l’età adeguata per avere l’abilitazione a esercitare la professione. Nell’attesa, non si perse certo d’animo: formatosi coi classici della letteratura e della filosofia nella vasta biblioteca della casa paterna in campo Sant’Agostin (dove era nato il 13 maggio 1804) Manin conosceva – oltre all’italiano – il francese, il tedesco, l’inglese, l’ebraico, il greco e il latino. La famiglia – lui era il terzogenito di Pietro Antonio e Anna Maria Bellotto – era di origine ebraica: il cognome originario, Fonseca (sebbene alcuni storici ritengano che fosse invece Medina) fu mutato in Manin in seguito a una conversione avvenuta al tempo dell’ultimo doge della Serenissima.

Viva San Marco, Viva la Repubblica
Ancora oggi in piazza San Marco, sul colonnato delle Procuratie Nuove, si possono scorgere le scritte originali relative ai moti rivoluzionari del 1848: “Viva San Marco, Viva la Repubblica”.
Com’era d’uso al tempo, i convertiti presero il nome del principe (sotto l’egida del loro padrino, in questo caso proprio un fratello del doge Ludovico Manin), ed è curioso che la “vergogna” maturata da un Manin con la capitolazione dello stato veneziano nel 1797 sia stata in qualche modo riscattata da una persona con lo stesso cognome, derivato direttamente dal primo. Grazie alle sue pubblicazioni, a diciannove anni fu eletto socio corrispondente dell’Ateneo Veneto, “pensatorio” cittadino che rivestì un ruolo determinante nella preparazione ai Moti Risorgimentali. Nel 1824 sposò Teresa Perissinotti, di famiglia aristocratica, che gli diede la figlia Emilia e il figlio Giorgio: quest’ultimo, dopo aver combattuto – sedicenne – nel 1848, partecipò alla spedizione dei Mille e fu ferito a Calatafimi. Rinchiuso il 18 gennaio 1848 con Niccolò Tommaseo nelle Prigioni Nuove divenute carcere politico, Daniele Manin fu liberato a furor di popolo il 17 marzo successivo, per proclamare la rinata Repubblica (ovviamente nella sua versione moderna) cinque giorni dopo: “Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo – disse quel giorno in Piazza San Marco – poiché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli… Viva la repubblica! Viva la libertà! Viva san Marco!”.

Eletto presidente, durante il lungo assedio diede prova d’intelligenza, coraggio e fermezza, anche dopo la decisione del 2 aprile 1849 di resistere “ad ogni costo” con l’assunzione per lui di “poteri illimitati”. Le cose non andarono come molti veneziani avevano sperato: costretto all’esilio dal ritorno degli austriaci, Manin visse a Parigi dando lezioni di lingua italiana, perdendo quasi subito la moglie Teresa e dì lì a poco la figlia, gravemente malata di epilessia.

Non rinunciò però al suo sogno di uno stato italiano: nel corso del 1852 incontrò il conte di Cavour, al quale lasciò intendere di poter abdicare alla sua posizione repubblicana in cambio di un impegno più marcato dei Savoia nella causa dell’Unità e dell’indipendenza italiana. Nel contempo si dissociò apertamente dalla “teoria del pugnale” mazziniana, ovvero la dottrina dell’assassinio politico, e prese le distanze anche dal federalismo antiunitario. Morì a Parigi il 22 settembre 1857, e le sue spoglie tornarono a Venezia – con quelle di moglie e figlia – il 22 marzo 1868. Dapprima il sarcofago fu ospitato tra le volte di San Marco; ma di fronte alle rimostranze degli ambienti clericali e dell’Accademia di belle arti, la giunta comunale fece costruire un mausoleo sul lato settentrionale della basilica, dove nel 1913 fu sepolto anche Giorgio.

di Alberto Toso Fei
fonte: il Gazzettino del 19/03/2018


Vi presentiamo di seguito alcuni testi in versione integrale e digitalizzata, i cui originali sono conservati presso la Biblioteca del Consiglio Regionale del Veneto:

DANIELE MANIN E VENEZIA (1804-1853)

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VENEZIA NEGLI ANNI 1848-1849

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LA REPUBBLICA VENETA DEL 102 GIORNI

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FATTI DI VENEZIA DEGLI ANNI 1848-1849

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MEMORIALE VENETO STORICO-POLITICO 1848-1849

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Torna a rivivere la splendida Bandiera Contarina

Il vessillo sventolava sulla galea di Domenico II Contarini (1585-1675) centesimoquarto Doge della Repubblica Marciana dal 1659 al 1675, il quale riposa nella tomba di famiglia, a Venezia, nella chiesa di San Beneto (San Benedetto da Norcia)

È stata presentata in Consiglio regionale la “Bandiera Contarina“, riproduzione del vessillo marciano del Doge Domenico II Contarini, il cui originale è esposto nella sala delle bandiere nel Museo Correr a Venezia.

L’evento è stato introdotto dal Presidente del Consiglio regionale, Roberto Ciambetti, dall’assessore alla Cultura e Identità Veneta, Cristiano Corazzari, e dai consiglieri regionali Luciano Sandonà e Alessandro Montagnoli. «Nelle rievocazioni storiche in Veneto vediamo vessilli improbabili o ricostruzioni disparate della bandiera marciana», ha spiegato Palmerino Zoccatelli, presidente del comitato “Veneto indipendente”, promotore dell’iniziativa. «Rifacendoci invece alla bandiera storica di Domenico Contarini abbiamo voluto mettere a disposizione di tutti gli appassionati un vessillo autentico, particolarissimo per altro nella foggia e nell’apparato iconografico particolarmente ricco. È il più bel vessillo veneziano giunto fino a noi».

La bandiera “Contarina” è ricca di elementi e si distingue in maniera netta dalla bandiera tradizionale nota ai più, riportando chiari richiami alla mitologia veneziana, sin dalla citazione dell’arcangelo Gabriele e l’Annunciazione, i legami alla pietà popolare e alla fede religiosa della Serenissima, con le effigi dei Santi Domenico e Francesco, quest’ultimo tra i protettori della città lagunare, Sant’Antonio da Padova e l’evangelista Marco, nonché la Madonna del Rosario. La bandiera è accompagnata da un opuscolo che ne spiega la storia e fornisce chiavi di lettura e interpretazione della simbologia voluta dal Contarini. Il primo ad avere l’idea di riprodurre il vessillo dogale è stato Albano Tassani e la sua ricostruzione «ha richiesto anni di lavoro e uno studio approfondito con Olivierio Murro che ha provveduto a integrare e migliorare la parti lacunose del gonfalone originale».

Il disegnatore Oliviero Murru ha provveduto ad integrare e migliorare le parti lacunose del gonfalone o quelle divenute difficilmente leggibili a causa dell’usura del tessuto, ripristinando l’originario splendore dei colori, alterati o ossidati dal tempo (si pensi, a puro titolo di esempio, alla bianca Colomba dello Spirito Santo imbrunitasi fino a diventare nera nel drappo originale).

Il gonfalone originale, di recente restaurato, è attualmente conservato ed esposto al Civico Museo Correr di Venezia, dove abbraccia un’intera parete. In seta rossa, il drappo misura m. 6,50 in lunghezza; m. 3,20 in altezza; mentre ciascuna delle sei code è lunga m. 2,50.

Ecco di seguito un breve estratto dall’opuscolo che accompagna il progetto di rifacimento della “Bandiera Contarina” (leggibile integralmente in fondo alla pagina):

Il Leone marciano effigiato nel gonfalone Contarini è destrogiro, ovvero è rivolto a destra, in direzione del pennone navale o dell’asta che sorreggeva la bandiera (come più frequentemente avveniva) e col muso girato verso l’osservatore. Tre quarti dei Leoni marciani andanti muovono solitamente verso sinistra, sono cioè sinistrogiri. Perciò questo Leone andante o passante, costituisce anche in questo una rarità. La fiera presenta la coda ritta a forma di S, dunque come il Leone in maestà, a sottolineare la sacralità dell’emblema e la personificazione in esso della Serenissima Repubblica. Il Leone simboleggia infatti l’Evangelista San Marco e intende con ciò indicare che il vero capo dello Stato Veneto è San Marco, del quale e del Cristo, il Doge è soltanto il rappresentante terreno. Si ribadisce così la concezione classico-cristiana della derivazione da Dio della Regalità e di ogni legittima Autorità: “Non est potestas, nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt”, “Non v’è autorità (legittima) se non da Dio; e quelle che esistono, sono stabilite da Dio” (San Paolo, Lettera ai Romani 13, 1). I Re e le magistrature sono perciò soltanto i ministri e i luogotenenti terreni di Dio. Proprio a cagione di questa sacralità patria e religiosa, il Leone marciano è alato; il suo capo è attorniato da un nimbo o aureola d’oro, prerogativa questa dei Santi, simboleggiando San Marco, principale Patrono della Dominante. È raffigurato d’oro su campo rosso, seminato di fiammelle (e non di stelle) esse pure dorate, fiammelle che sono diretta emanazione della Colomba dello Spirito Santo, raffigurata al centro della bordura superiore della bandiera. Rosso e oro sono per eccellenza i colori della Regalità: si rammenti l’oro recato dai Re Magi (insieme all’incenso e alla mirra) a Gesù Cristo Bambino a Betlemme, nella festa dell’Epifania; e si ricordi altresì la tunica scarlatta e la corona di spine del Redentore durante la sua Passione. Il Leone fu assunto a sacro simbolo di San Marco, perché il suo Vangelo inizia con la predicazione di San Giovanni Battista nel deserto e con la sua chiamata alla conversione e alla penitenza, in preparazione della venuta del Cristo; il ruggito del Battista era simile, appunto, a quello di un Leone, Re del deserto. Leone che nella Sacra Scrittura è figura di Gesù Cristo, di cui il Battista è, appunto, il Precursore. Siamo in presenza di una bandiera di pace e di rappresentanza, come si evince sia dall’assenza di un Leone portaspada (ensifero) o portacroce, ch’erano tipici delle bandiere da combattimento; sia dalle fauci chiuse o semiaperte, senza intenti bellici o minacciosi.
La criniera è fiammiforme, secondo moduli ancora tardogotici, nonostante il contesto e l’ornato barocco dei fregi e dei ricami dorati, che impreziosiscono il vessillo; gli organi della riproduzione sono pudicamente non in vista (solo in Terraferma compaiono, di quando in quando, leoni sessuati, ma in questi casi il loro significato è più politico che religioso). Sotto la zampa anteriore sinistra il Leone regge un libro aperto, di colore argento e bordato d’oro, allusione sia al Vangelo di San Marco, sia all’apparizione dell’Angelo all’Evangelista, cui si rivolse con le celebri parole: Pax tibi, Marce, Evangelista mevs (Sia pace a Te, Marco, mio Evangelista). Secondo la Tradizione, infatti, un Angelo apparve a San Marco dopo che l’Evangelista aveva fatto naufragio nel Golfo di Venezia, da lui percorso in ragione del suo apostolato, pronunziando al suo indirizzo queste parole latine, finite poi sul vessillo e che costituivano anche la predizione che lì, a Venezia, un giorno avrebbero riposato le sue spoglie (“hic requiescet corpus tuum”, concludeva l’Angelo) come poi avvenne. Nell’828 infatti il corpo del Santo, sottratto alle profanazioni dei maomettani, che nel frattempo avevano occupato l’Egitto, veniva avventurosamente sottratto agl’infedeli e traslato via nave da Alessandria a Venezia, non senza prodigiosi eventi, dai marinai Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Le ali del Leone sono appunto quelle dell’Angelo, nell’episodio testé rievocato.

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Ulteriori informazioni contattando il numero 347/3603084 o scrivendo a pasqueveronesi@libero.it

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Da oggi la Lingua Veneta entra a scuola!

La lingua veneta arriva all’istituto Fogazzaro di Trissino (VI).

111 studenti delle medie sono infatti da oggi coinvolti nel progetto “Percorsi di lingua veneta”, per un totale di 7 lezioni. Alessandro Mocellin, direttore del dipartimento linguistico “Academia de la lingua veneta” e autore del testo pubblicato a Francoforte insieme a Horst Klein e Tilbert Stegmann, guiderà le cinque classi coinvolte nel percorso.
Ciascuna lezione durerà un’ora: «il progetto è partito grazie all’Amministrazione che ne ha riconosciuto l’importanza fin dall’inizio, credendoci e sostenendolo – spiega Mocellin -. Si partirà dallo studio generale delle origini e della diffusione lingua veneta per addentrarsi nell’esame dei suoni e nei confronti con l’italiano, il francese e il tedesco. I ragazzi scopriranno come la struttura della lingua veneta sia simile al francese per l’inversione del soggetto e del verbo nelle domande e nei verbi frasali, o come i suoni possano essere assimilati allo spagnolo. Per la prima volta potranno capire che quella lingua, che dall’ultima rilevazione Istat del 2007 è parlata al nord da 4 milioni di persone, è ricca di parole come ciao, gazzetta, arsenale che hanno assunto una risonanza internazionale». Durante l’ultimo incontro gli studenti si misureranno in traduzioni di testi come la “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948.

L’idea è partita dall’assessore all’identità veneta Gianpietro Ramina ed è stata prontamente accolta dalla scuola. «Si tratta di un progetto importante che ha l’obiettivo di far conoscere o ricordare la nostra storia – spiega il sindaco Davide Faccio -. La risposta che abbiamo ottenuto, partendo da un’iniziale adesione di due classi fino ad arrivare al coinvolgerne cinque, attesta che anche i cittadini ritengono il percorso intrapreso degno di nota. L’istituto, inserendo il programma nel Pof, ha riconosciuto il valore culturale della nostra tradizione linguistica».

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La Regione presenta: “I Dogi nei ritratti parlanti di Palazzo Ducale a Venezia”

Il 16 gennaio è stata presentata a palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale del Veneto, la pubblicazione “I Dogi nei ritratti parlanti di Palazzo Ducale a Venezia’ (Cierre Edizioni), a cura di Paolo Mastandrea e Sebastiano Pedrocco.

Di seguito potete trovare il video di presentazione:

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venetidelpacifico.org, sito web dedicato alle storie dei veneti di Perù e Cile

“Veneti del Pacifico” è una piattaforma fatta di storie. Storie di persone che credono nella loro cultura e nelle loro tradizioni. Persone legate in modo indissolubile alla loro terra di origine, il Veneto. E se le “radici profonde non gelano”, vogliamo mantenerle vive, sentirle vicine e cercare di capire un po’ di più il loro mondo. Un mondo fatto di ricordi, di canti, di tradizioni e di condivisione.

In preparazione delle cerimonie per i 500 anni dalla prima circumnavigazione del globo alla quale Antonio Pigafetta prese parte insieme a Magellano tra il 1519 ed il 1522, I Veneti del Pacifico (Perù e Cile) vogliono omaggiare con questo sito i primi e veri scopritori dei loro paesi.

Il sito www.venetidelpacifico.org (online dal 30 ottobre 2017) è stato ideato e realizzato dall’Associazione Veneti nel Mondo con il contributo dell’Assessorato ai Flussi Migratori della Regione del Veneto e la collaborazione dell’Associazione Veneti nel Mondo Perù, dell’Associazione Veneta del Cile e dell’Associaizone Imprenditori Veneti del Cile.

Visita il nuovo sito all’indirizzo: www.venetidelpacifico.org

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I saluti del Presidente Roberto Ciambetti

roberto-ciambettiBenvenuti in questo sito,

una finestra aperta sulla storia, la cultura, la tradizioni e la realtà veneta.

Una storia plurimillenaria che non si identifica solo ed esclusivamente nella pur straordinaria e bellissima parabola della Repubblica di Venezia ma che spazia dal Paleolitico ai giorni nostri, dalla Grotta di Fumane con le frequentazioni dell’uomo di Neandhertal sino alle imprese a tecnologia avanzata che caratterizzano il tessuto socio-economico contemporaneo: non è di certo una bizzarria se il racconto di questa epopea avvenga anche in Veneto, una lingua che mantiene una straordinaria vitalità e che è specchio e prodotto di un mondo aperto al mondo, una società capace di andare oltre le frontiere degli stati e le barriere, che non s’afferma o s’impone con le armi ma stabilisce legami culturali, economici , sociali in una sorta di simbiosi e di reciproco arricchimento e non è un caso se nella nostra lingua non esista la parola “straniero”, etimologicamente legata all’estraneo concetto che sottintende freddezza e sospetto, bensì il foresto, cioè colui che viene da fuori e che qui è pur sempre bene accolto se viene in pace e con fare onesto: milioni di persone giungono ogni anno nelle nostre città e contrade e vengono qui attratte dalla nostra arte, cultura, dall’enogastronomia, dalle città d’arte alle spiagge, dalle bellissime Dolomiti al Lago di Garda e dalle Terme, sino ai patrimoni ambientali intatti della montagna e del Delta del Po.

Benvenuti in questa pagine, con la speranza che per chi è già stato in Veneto di ritrovare lo spirito della nostra gente, per chi non c’è mai stato scoprire la voglia di venire a trovarci e per i Veneti tutti, a cui questo lavoro in continua evoluzione principalmente è dedicato, ritrovare l’orgoglio di una nazione antica protagonista della storia e della realtà contemporanea.

Servo vostro,

Roberto Ciambetti
Presidente del Consiglio Regionale del Veneto

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Lingua, grafia e toponomastica veneta

Regione Veneto – Si è riunita oggi per la prima volta a Venezia, nella sede della Giunta veneta a Palazzo Balbi, la Commissione di esperti prevista dalla Legge regionale in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio linguistico veneto. Compongono la Commissione, presieduta dall’assessore regionale all’identità veneta, Daniele Stival, il sociologo Sabino Acquaviva, i docenti dell’Università di Ca’Foscari Rodolfo Del Monte e Ludovico Pizzati, il linguista Michele Brunelli, lo studioso di lingua veneta Gianfranco Cavallin e il presidente dell’associazione Veneto Nostro Davide Guiotto. Alla seduta d’esordio ha presenziato anche l’assessore al bilancio, Roberto Ciambetti.

Compito della Commissione è quello di fornire un supporto alla Giunta regionale nella realizzazione di iniziative che favoriscano la conoscenza e la diffusione della lingua veneta, garantendo in particolare una corretta definizione della grafia, della toponomastica e di ogni altro aspetto linguistico.
“Il nostro obiettivo – ha sottolineato l’assessore Stival aprendo i lavori – è quello di valorizzare la lingua come vera ricchezza del popolo veneto, come componente irrinunciabile della nostra identità culturale, sociale, storica e civile. Lo stesso presidente Zaia ha più volte evidenziato che la tutela di questo patrimonio rappresenta una questione centrale per lo sviluppo dell’autonomia regionale”.
“Oggi inauguriamo una nuova stagione operativa – ha ribadito l’assessore Ciambetti – attuando compiutamente quanto previsto dalla legge regionale alla quale abbiamo a suo tempo lavorato con impegno e convinzione. Affidiamo un incarico importante ai componenti di questa Commissione, esperti di riconosciuta competenza professionale e culturale nel campo linguistico, sia in ambito accademico, sia in quello della ricerca”.
Gli assessori hanno evidenziato l’importanza che la Commissione si confronti nelle sue attività con le diverse realtà associative e culturali regionali, al fine di condividere il più largamente possibile le iniziative e i progetti finalizzati alla diffusione della lingua veneta, coinvolgendo in questo anche le comunità dei Veneti nel Mondo.

Fonte: VicenzaPiù

07/05/2010