Venerdì 12 Aprile, ore 12.00 a Venezia, Palazzo Ferro Fini sede del Consiglio regionale del Veneto, verrà inaugurata una mostra dedicata alla Lingua Veneta!
Si tratta di un’esposizione composta da 24 pannelli che attraversa 3000 anni di Storia alla scoperta della Lingua dei Veneti, dal venetico delle iscrizioni su pietra, al veneto storico dei trattati e della letteratura fino agli scritti del veneto moderno, con i dizionari, le grammatiche e le app.
Una rassegna documentale mai concepita prima
Ogni tappa è spiegata in quattro lingue: Italiano, Veneto, Inglese e Portoghese brasiliano. Inoltre è possibile ascoltare l’audiolettura delle didascalie in veneto grazie ai QR code.
“Storia della Lingua dei Veneti” è un progetto dell’associazione culturale InfoMedia Veneto, con il contributo della Regione Veneto ed in partnership scientifica con Academia de ła Bona Creansa – Academia de ła Łengua Veneta.
La Mostra è visitabile a Palazzo Ferro Fini (San Marco – Venezia) dal 9 al 26 Aprile, dalle ore 9 alle 17.
A colloquio con Suzana Todorović collaboratrice dell’Unione Italiana nell’ iter per la registrazione del dialetto quale patrimonio immateriale della Slovenia
“Una bella notizia e un bellissimo traguardo per l’Unione Italiana e per tutti gli appartenenti alla CNI, per gli autoctoni istriani che adoperano nella vita di ogni giorno il dialetto Istroveneto quale lingua materna”. Non nasconde la sua soddisfazione la professoressa Suzana Todorovićda anni impegnata in ricerche sui dialetti dell’Istria slovena e accanto a Marianna Jelicich Buić collaboratrice dell’UI nell’ iter procedurale che ha portato alla registrazione dell’Istroveneto nel patrimonio culturale immateriale della Slovenia. “L’ idea della registrazione era partita qualche anno fa proprio dall’ attuale presidente dell’UI, Maurizio Tremul che mi aveva invitata ad occuparmi degli aspetti scientifici della vicenda” ricorda la Todorović stando alla quale la decisione ha un’importante valenza politica “significa che la Slovenia accetta la presenza multiculturale e plurilinguistica, la presenza di istriani di altre origini in questa zona. Ciò conferma che anche gli sloveni per fortuna hanno capito che la popolazione romanza è sempre vissuta in questi luoghi” dichiara la dialettologa che nella formulazione della richiesta si è avvalsa proprio delle ricerche da lei effettuate.
“Nella documentazione inoltrata al Museo etnografico sloveno che è competente per la designazione del patrimonio immateriale andava innanzitutto definito l’ ambito d’ uso dell’ Istroveneto ed in questo contesto mi sono avvalsa di una cartina che ho pubblicato nel 2015 e dove sostenevo che l’ Istroveneto si è sempre parlato a Capodistria, Isola, Pirano e nelle zone circostanti contestando i dialettologi sloveni secondo i quali invece nelle città costiere si è sempre parlato il dialetto “savrino” o quello “risano”. Tra la documentazione presentata a Lubiana numerosi materiali a conferma che la lingua viene parlata tutt’ oggi, elementi storici sulla classificazione del dialetto, l’elenco delle opere che descrivono la parlata, l’elenco delle associazioni che si occupano della valorizzazione dell’idioma e fino alla descrizione della cultura istroveneta.
“Un lavoro complesso e minuzioso ma ne è valsa la pena” afferma Suzana Todorović e aggiunge “Dopo quasi tre anni io quasi non ci speravo più anche perché da quanto traspare dalle ricerche dei dialettologi sloveni e dall’ultimo Atlante linguistico sloveno a Capodistria, Isola e Pirano gli istriani parlano solo sloveno il che naturalmente non corrisponde né alla verità storica né alla realtà odierna”. Per la Todorović un grande contributo alla registrazione dell’Istroveneto è stato dato indubbiamente dalle numerose ricerche scientifiche pubblicate negli ultimi anni, dai convegni e tavole rotonde volte alla valorizzazione della parlata locale. Ora un analogo procedimento sarà inoltrato anche in Croazia.
Il coordinatore per la tutela del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Slovenia, dott.ssa Tanja Roženbergar, direttrice del Museo etnografico sloveno, ha comunicato che la richiesta inoltrata dall’Unione Italiana di Capodistria per la registrazione dell’Istroveneto quale patrimonio culturale immateriale della Slovenia, risponde a tutti i criteri richiesti ed è pertanto adatto per l’iscrizione nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Slovenia. La decisione è stata accolta in data 19 marzo 2019 dalla preposta Commissione scientifica per le lingue. La procedura d’iscrizione nel Registro è in capo al Ministero per la Cultura sloveno, mentre la documentazione per la sua iscrizione è di competenza del coordinatore.
L’Unione Italiana ha posto la tutela e la registrazione del patrimonio culturale materiale, mobile e immobile e del patrimonio culturale immateriale della Comunità Nazionale Italiana in Croazia e Slovenia tra le sue priorità d’intervento: l’impegno e gli sforzi profusi in quest’ambito hanno prodotto un nuovo importante risultato. Abbiamo contattato il presidente dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, il quale ci ha spiegato come è nato il progetto e qual è il significato dell’esito ottenuto per la Comunità nazionale italiana.
Un importantissimo risultato
“Nel 2015 abbiamo fatto un’operazione del genere. L’Assemblea dell’UI aveva approvato una mozione su proposta dell’allora onorevole Roberto Battelli che diceva di impegnare l’UI a intraprendere le iniziative necessarie per la registrazione e la tutela del patrimonio culturale della CNI, sia quello materiale che quello immateriale. A seguito, abbiamo iniziato a preparare la documentazione per la registrazione dell’Istroveneto in Slovenia. In Slovenia perché è più semplice qui, dato che l’Istroveneto ha le sue varietà a Capodistria, Isola e Pirano. In Croazia invece le varietà sono molteplici – ha ricordato il presidente dell’UI –. Il 26 maggio 2016 l’Unione Italiana di Capodistria, avvalendosi della collaborazione scientifica della dott.ssa Suzana Todorovič, con il coordinamento dalla responsabile del settore Cultura della Giunta Esecutiva, Marianna Jelicich Buić, ha inoltrato la richiesta di iscrizione dell’Istroveneto nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Slovenia presso il Museo etnografico sloveno di Lubiana. Sono passati quasi tre anni e ora ci è stato detto che la nostra richiesta soddisfa tutti i criteri per poter essere iscritta nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Slovenia. Ciò significa che tale lingua verrà riconosciuta e tutelata. La decisione è stata presa dalla competente commissione scientifica del coordinatore per la tutela dei beni culturali immateriali. Il fatto che la Slovenia riconosca che ci sia un dialetto istroveneto storico, una lingua autoctona, presente e viva, è una decisione storica. È stato riconosciuto dunque il carattere culturale italiano-istroveneto di questo territorio. La decisione di considerare a tutti gli effetti l’Istroveneto quale patrimonio culturale immateriale della Slovenia, rappresenta un importantissimo risultato raggiunto nella conservazione e valorizzazione del ricco patrimonio culturale della Comunità nazionale italiana in Istria, Quarnero e Dalmazia”, ci è stato detto. Richiesta per l’Istroveneto della Croazia “L’Unione Italiana ora cercherà di completare la documentazione per la richiesta di iscrizione dell’Istroveneto nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Croazia. Continueremo con quest’opera di valorizzazione, tutela e conservazione del nostro patrimonio culturale”, ha annunciato Tremul. Infine, il presidente dell’UI ha voluto ringraziare la prof.ssa Suzana Todorovič, linguista di spicco in Slovenia, che ha preparato la parte scientifica della domanda, Marianna Jelicich Buić, la quale è stata all’epoca sua vicepresidente di Giunta che ha coordinato il progetto, e tutti i dipendenti di allora e quelli di oggi dell’Unione Italiana di Capodistria, che hanno contribuito a preparare la documentazione che ha portato di fatto a un risultato straordinario. (krb)
Intervista al professor Paolo Balboni sul concetto di bilinguismo, e su come funziona nei bambini
Un bambino che parla italiano e dialetto può considerarsi bilingue? Perché in Italia per tanto tempo questo genere di bilinguismo è stato guardato con sospetto? E ancora, l’apprendimento di una lingua può disturbare l’apprendimento dell’altra? Abbiamo posto queste e altre domande ancora al glottologo Paolo Balboni. Ecco come ci ha risposto
Un bambino bilingue è anche colui che parla italiano e dialetto oppure possiamo definire tale solo chi parla due lingue distinte come l’inglese e italiano? Dal punto di vista linguistico e cognitivo non c’è nessuna differenza tra l’uso di due forme o sistemi linguistiche, esiste invece un atteggiamento politico-sociale che riconosce una lingua più parlata come prestigiosa in paragone a un’altra minoritaria e/o meno usata. È ovvio che l’atteggiamento delle famiglie, delle scuole e della comunità nei confronti del bilinguismo spesso influenza la lingua minoritaria regionale o di immigrazione, e anche i bambini si rendono conto se una lingua viene considerata ed apprezzata oppure no. Di questo tema ce ne parla Paolo Balboni, il famoso glottodidatta e professore ordinario di Didattica delle lingue all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Attualmente Balboni è anche il dirigente di un gruppo di ricercatori che collaborano con il Centro di Ricerca sulla Didattica delle Lingue. P. Balboni ha scritto numerosi libri di didattica, e molti insegnanti di lingue si sono preparati con i suoi manuali. Balboni ha anche scritto e manuali sul bilinguismo. Due di questi sono: Dizionario di glottodidattica, ed Educazione Bilingue, entrambi pubblicati nel 1999 da Guerra Edizioni.
Negli anni Novanta, nel Trentino, la Federazione delle Scuole Materne decise di impostare un progetto di educazione bilingue italiano/ladino, affidandone la direzione scientifica al glottodidatta veneziano Paolo E. Balboni, che puntò come fine del progetto il processo e la creazione di una “personalità bilingue”; si tratta di un sistema basato su tre poli: “io di fronte a me stesso”; “io e i vari tu con cui ho relazioni personali”; “io e la comunità (sincronica e diacronica) di cui sono parte”. Oognuna di queste relazione influenza le altre due. Lo studio, pubblicato nel 1999 in un volume curato da Balboni, raccoglie nella prima parte di esso una serie di interventi che delineano la cornice concettuale dell’educazione bilingue e include i nomi di partecipanti e studiosi (fino al 2005 progettato con vita autonoma e gestito dalle persone formate negli anni Novanta), introducendo anche saggi di alcune personalità che parteciparono alla formazione degli insegnanti.
Per esempio, i primi saggi sono di Marcel Danesi e di Jim Cummins, due dei maggiori esperti mondiali di educazione bilingue. Il primo introduce il tema dell’educazione bilingue distinguendo tra miti e realtà, il secondo presenta lo stato dell’arte delle ricerche e delle teorie sull’educazione bilingue. Seguono due saggi di carattere psicolinguistico. Uno di Renzo Titone che affronta il problema dell’età dell’acquisizione di una seconda lingua, mentre Remo Job, affronta il problema secondo una prospettiva funzionale. Infine Cosimo Scaglioso, delinea le coordinate pedagogico-antropologiche dell’educazione bilingue. La seconda parte del volume offre analisi critiche di alcune situazioni bilingui in contesto europeo. Nella seconda edizione è stato aggiunto un corposo saggio in cui Carmel M. Coonan traccia un quadro dell’educazione linguistica in Europa.
Il volume presenta offre anche tutti gli strumenti operativi, dal curricolo alle schede di valutazione, e riporta i risultati del primo triennio di sperimentazione. Tra i dati più interessanti c’è la smentita di una delle regole più diffuse, “una persona una lingua” (cioè l’idea che un docente deva parlare solo una lingua): non solo questo modello non funziona operativamente (vengono presentati altri modelli organizzativi più efficaci), ma è controproducente in quanto vuole educare al bilinguismo presentando modelli di insegnanti monolingui. Rileggendo questi manuali ho deciso di fare alcune domande al Professore sul bilinguismo e queste sono le sue risposte:
Professore che cos’è il bilinguismo? Possiamo definirlo un frutto positivo dell’incrocio non solo di due lingue ma anche due culture?
“Le lingue non esistono in sé, da sole, se non come precipitato di una cultura, strumento di perpetuazione ed evoluzione di una cultura. Quindi bilinguismo significa anche biculturalismo, in un approccio comunicativo”.
L’Italia, grazie ai diversi sistemi linguistici chiamati dialetti, è un paese storicamente multilingue e una società multietnica. Possiamo definire gli italiani bilingui?
“Gli italiani che capiscono il dialetto (magari non lo parlano) sono bilingui, senza alcun dubbio”.
Perché nella maggior parte del territorio italiano il bilinguismo è circondato da credenze negative e convinzioni infondate, o visto come una cosa pericolosa per lo sviluppo mentale del bambino?
“È tutta l’Europa che lo pensa, da Napoleone in poi. Il bilinguismo italiano/dialetto è stato visto come una minaccia all’Italia Unita, è stato violentemente attaccato. Quello con le lingue straniere, sopra una certa età è percepito come inutile, non come pericoloso, perché l’Italia era provinciale. Dai 30-40 in giù, nessuno ne ha paura, molti lo cercano, alcuni se ne disinteressano perché non gli serve”.
Ci sono delle situazioni, o dei casi, in cui l’apprendimento di una lingua possa disturbare l’apprendimento di un’altra?
“No, se non transitoriamente e occasionalmente”.
Esporre un bambino piccolo a più idiomi nello stesso periodo di tempo che conseguenze può avere sullo sviluppo cognitivo?
“Aiuta lo sviluppo cognitivo, le capacità di problem solving, lo sviluppo dell’intelligenza relazionale, fina dal primo giorno di vita si può farlo con vantaggio per il bambino; all’’inizio può generare qualche confusione, che si risolve spontaneamente o con il tempo, specialmente in una logica one parent one language”.
Il bilinguismo è sempre una ricchezza nella vita del bambino oppure ha un limite di età affinché non si crea un inciampo nello sviluppo del linguaggio e per l’evoluzione cognitiva del bambino?
“Tutte credenze infondate; le prove del contrario hanno ormai 50 anni, sono note e stranote a chi vuole; chi segue i suoi pregiudizi, non studia le prove e quindi continua a dire sciocchezze”.
Professore, nonostante gli studi scientifici sul beneficio di parlare due o più lingue permangono molte perplessità in riguardo al bilinguismo, come mai?
“Per paura; per il principio ‘la volpe e l’uva; per ignoranza e mancanza di studio; allo stesso modo per cui ci sono i movimenti anti-vaccinazioni, quelli anti-gay, gli ‘anti-‘ in servizio permanente. Non capiscono, non sanno, quindi dicono no”.
Professore, il cervello del bambino non traduce. Eppure io noto molti studenti di seconda media e terza media che traducono anche se io dico loro di non farlo. Secondo lei perché alcuni studenti sentono il bisogno di tradurre per capire?
“Sono stati così abituati dalla scuola. È possibile, se non capisco, chiedere una parola o un’espressione, ma poi non la si traduce più se la scuola non insegna a farlo”.
I genitori che parlano solo una lingua, come per esempio l’inglese negli USA, in che modo possono aiutare i figli?
“Prendendo una baby sitter o una compagna di gioco straniera due tre volte la settimana; cercando con le altre famiglie un ‘asilo’ familiare in cui, poniamo, dalle 4 alle 6 ogni giorno si gioca in 4-5 bambini con una guida straniera”.
Il sindaco di Santa Lucia di Piave (Treviso), Riccardo Szumski ha predisposto i certificati di nascita e matrimonio in dialetto veneto. Idem per le ricette ai suoi pazienti.
È il primo cittadino di Santa Lucia di Piave, un comune della provincia di Treviso di poco più di 9 mila abitanti. E il sindaco è già finito parecchie volte sulle cronache per i suoi modi bizzarri e, diciamolo, anche per il suo coraggio. Difficile nell’era del politicamente corretto, quando tutto è vietato e ciò che è permesso è quello che il politically correct impone, andare contro corrente ed essere amato dai cittadini.
Lui, 66 anni, medico di medicina generale dell’Ulss 2 della Marca Trevigiana, era già rimbalzato nelle cronache nazionali quando aveva restituito al mittente, in questo caso il Viminale, il contributo che il Governo dà ai comuni per l’accoglienza dei profughi. “I soldi per l’accoglienza? – aveva detto Szumski – teneteveli!”. E infatti, detto fatto, il giorno in cui i soldi sono stati accreditati nel conto del Comune, Szumski li ha ritrasferiti al Governo, con tanto di lettera.
Ed è anche lo stesso cittadino che per alcuni suoi comportamenti bizzarri era stato definito “sindaco non conforme”, ed era stato invitato dagli organi stessi ad adeguarsi. L’allora prefetto Laura Lega, si era scagliato contro alcune “dichiarazioni palesemente offensive nei riguardi delle istituzioni statali”, almeno così il prefetto le aveva definite. E a essere contestata anche la scelta del primo cittadino di indossare la fascia del Veneto. Ma lui è andato avanti per la sua strada. Anche nella vita professionale. Tanto da scrivere le ricette per i suoi pazienti in dialetto veneto.
“Se i pazienti mi parlano in italiano prescrivo i farmaci in italiano – dice Szumski – se parlano in dialetto li prescrivo in dialetto. Con quelli che mi parlano in lingua veneta, invece, uso la lingua veneta. Se alla signora Maria di 90 anni dico che deve prendere un farmaco a giorni alterni, mi chiede cosa significhi, se invece le dico “un dì sì e un dì no”, allora capisce. E infatti nelle ricette, ad esempio per la prescrizione di Prednisone Teva, si legge: “un al di par zincue di, dopo mesa al di par catro di, dopo te vien a controlo”, che tradotto vuol dire “una al giorno per cinque giorni, dopo mezza al giorno per quattro giorni, dopo vieni al controllo”.
E lui, nonostante il cognome del padre polacco e nonostante sia nato in Argentina dove i suoi erano emigrati, è più veneto che mai. Tanto che oltre alle ricette in dialetto, quando deve dare qualche comunicazione fuori dall’ambulatorio prepara gli avvisi bilingue: con la dicitura in italiano e in dialetto, anzi a volte solo in dialetto. “Serà par ferie dal 3 a l’8 de setenbre… se ve bisonjo andè da i altri dotori”, si legge. Che tradotto vuol dire: “chiuso per ferie dal 3 all’8 settembre, se avete bisogno andate dagli altri dottori”. O anche avvisi alquanto sarcastici: “Oggi pomeriggio studio chiuso per un obbligo burocratico dei medici di famiglia imposto dall’Ulss il lunedì pomeriggio. Che come tutti sanno è il giorno in cui avete meno bisogno del medico”.
Insomma un sindaco che non passa di certo inosservato. Ma che sa anche ben difendersi. L’Ordine dei Medici aveva rizzato le antenne per la questione delle ricette in dialetto e non aveva escluso un’indagine. Ma lui si è ben difeso:“hanno provato – dice al Giornale.it – ma la norma dispone che bisogna far capire la posologia al paziente, non scrivere in italiano. E con i pazienti al 90 per cento mi relaziono nella nostra lingua, traducendo anche le diagnosi ospedaliere. Il dialetto alcuni lo comprendono meglio”.
Tanto che ora, sono suoi i certificati di nascita e di matrimonio in dialetto. L’ultimo quello di matrimonio, pronto da martedì. Un certificato con sotto il gonfalone e lo stemma di San Marco, che porta la firma de El Mariga, ossia del sindaco e che porta la dicitura centrale: “Maridai in Veneto – sposati in Veneto”. Poi ai due lati la scritta in italiano: “Sposati in Veneto” e per non sbagliare pure quella in inglese: “Married in Veneto”. Un certificato spiega il sindaco che sarà consegnato a quelli che si sposano in Comune e se ne fanno richiesta anche a coloro che si sposano in Veneto. Idem per ogni nuovo nato, con la consegna di un apposito certificato: “Nasest in Veneto – nato in Veneto”.
“La nostra lingua – ci spiega, intendendo il veneto – è la linfa della nostra quotidianità, del nostro modo di essere, dei nostri pregi e difetti, di una lingua che corre il rischio di essere parlata ormai più in Brasile che qua. Una storia millenaria che non può essere misconosciuta come fa il sistema scolastico italico. Stiamo facendo un gemellaggio con una cittadina vicino a Valencia. Lì il valenciano lo insegnano a scuola, assieme al castigliano ufficiale ed è cosa del tutto normale. Quando dico loro che da noi nemmeno è riconosciuto il veneto come lingua sbarrano gli occhi. E parliamo della Spagna”.A marzo scorso la prefettura lo aveva definito “sindaco non conforme”, per “atteggiamenti non conformi” da sindaco, ma lui, Riccardo Szumski, se n’è fregato e ha tirato dritto.
In questo fine settimana e precisamente nei giorni 9, 10 e 11 novembre si terrà nella cittadina brasiliana di Serafina Correa, Rio Grande do Sul, il ventiduesimo incontro nazionale dei diffusori del talian ( veneto-brasiliano).
La tre giorni, che viene organizzata ancora una volta da Paolo Massolini, medico chirurgo di lontane origini vicentine, straordinario protagonista della lotta per la tutela e la valorizzazione del talian, inizierà venerdì 9 e prevede “Filò con brodo, storie,frotole e busie”, nella giornata di sabato inizieranno i lavori con diversi gruppi di studio sui rapporti con le istituzioni e con le università e sullo “stato di salute” del talian con particolare riferimento alla presenza nei mass-media mentre domenega 11 alle ore 8 “Messa in talian del prete Alberto Tremea” alla quale seguirà l’assemblea generale con la nomina del nuovo direttivo.
L’iniziativa assume quest’anno un significato del tutto particolare vista la recente elezione a Presidente del Brasile di Jair Bolsonaro, la cui famiglia partì dal Veneto alla fine dell’ottocento.
Sono passati quattro anni dal riconoscimento ufficiale da parte del governo federale brasiliano del talian come “Patrimonio Culturale Immateriale del Brasile”; prima lingua minoritaria brasiliana che ha ricevuto tale riconoscimento; il talian viene correntemente parlato da milioni di brasiliani soprattutto nei tre stati del Brasile del sud, Rio Grande so Sul, Santa Catarina e Paranà, ma anche negli stati di San Paolo e di Spirito Santo .
Ma come si può definire “el talian” ? Gli studiosi definiscono el talian (o veneto-brasiliano), l’ultima lingua neo-latina conosciuta, singolare koinè su base veneto-centrale nella quale si innestano termini brasiliani; una lingua “viva”, usata quotidianamente sul lavoro o all’università, per scrivere canzoni e poesie, in teatro, alla radio o alla TV. Ecco come la descrive Darcy Loss Luzzatto autore di un vocabolario “Brasiliano – Talian” di oltre ottocento pagine:
“I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar…. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian.”
Nel vocabolario troviamo, per esempio, un termine praticamente intraducibile in italiano, ma che i veneti conoscono benissimo “freschin”: in brasiliano diventa “odor desagradavel” e per spiegarlo meglio l’amico Darcy aggiunge un ” Che bira zela questa? La sa de freschin!” che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni…..
E’ straordinario come i discendenti di quei veneti che partirono nel lontanissimo 1875 (in seguito alle disastrose condizioni nelle quali il Veneto si era venuto a trovare dopo l’annessione all’Italia) abbiano conservato un simile patrimonio d lingua, cultura, civiltà; ed è ancora più incredibile se pensiamo che, durante la seconda guerra mondiale il “talian” venne proibito dall’allora dittatore Getullio Vargas.
Il Brasile entrò in guerra a fianco degli alleati e proibì sia l’uso del talian che del tedesco; diversi emigranti finirono in carcere e la loro non fu una sfida politica ma l’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il “talian”; ma nonostante questo la lingua dei veneti del Brasile ne è uscita più forte e più viva che mai.
Un altro pericolo per la lingua dei veneti “de là de l’oceano” è costituito da quei docenti che partono dall’Italia con l’obiettivo di portare la lingua italiana “grammaticale” come viene da loro chiamata.
Ecco quanto denunciava Padre Rovilio Costa, scomparso qualche anno fa, vero e proprio patriarca della cultura taliana in Brasile, in un messaggio chiaro e senza fronzoli, diretto a chi arriva dall’Italia e dal Veneto:
“Prima de tuto, che i italiani, sia veneti o de altre region, i vegna in Brasil rispetando la nostra cultura taliana, la nostra lengua che la ze el talian, no par imporre el so modo de veder e de far”.
Lascio la conclusione a Darcy Loss Luzzatto, a una sua poesia che dovrebbe essere diffusa nel nostro Veneto, dove scandalosamente c’è gente che si vergogna di parlare la lingua veneta, soprattutto nelle nostre scuole:
“Com’e bela ‘a nostra lengua, com’è melodiosa. E poetica. Basta parlada con orgolio e alegria, mai con paura o co la boca streta e vergognosa. E si con onor, con tanto tanto amor e simpatia”.
Le spinte indipendentiste crescono in tutta Europa perché il legame con le proprie radici è da sempre parte dell’essere umano. Mentre gli Stati nazionali arrancano, i singoli territori sfidano la globalizzazione.
Tramontato (o almeno riveduto e corretto) il mito del mondo «globale», avanza il locale. Ogni pesciolino deve essere di quel posto lì, le miss non sono più tutte in bikini uguali ma magari nei costumi locali, le sartorie riscoprono origini e sedi antiche, defilatissime dagli itinerari standard della moda. Tutto ciò che è locale ha più storia, più personalità, forza, attrazione. È però tutt’altro che solo una moda. Si tratta di un lungo percorso, cominciato un bel po’ di tempo fa, che oggi mette al primo posto le diversità e ricchezze specifiche dei territori, e la loro richiesta di autonomie per meglio valorizzarle, in tutto il mondo.
Accade così che il giovane ministro agli Affari regionali, Erika Stefani, dichiari uscendo dal giuramento davanti al presidente della Repubblica: «Il primo punto che intendo realizzare è l’autonomia, soprattutto del Veneto e della Lombardia». E dopo: «Se si affossa l’autonomia, salta il governo». Affermazioni in sintonia con la più chiara tendenza politica e culturale degli ultimi 50 anni in tutto il mondo: quella che vede nella valorizzazione dei territori locali una delle maggiori possibilità di sviluppo dei prossimi anni. Il ministro era stata del resto preceduta (prima della formazione del governo), dall’appena eletta presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati , che aveva chiesto: «Il governo che verrà ponga l’autonomia come una priorità dell’agenda politica». È questo del resto lo zeitgeist, lo «spirito del tempo», cui la nuova dirigenza politica italiana, almeno sul piano delle dichiarazioni, appare assolutamente intonata, ed è di buon augurio che a segnarne l’inizio siano state due donne.
Il maschile non l’ha infatti sempre pensata così. Poco più di 100 anni fa, ad esempio, allo scoppio della prima guerra mondiale, in un mondo fino allora unificato sotto i grandi imperi politici e economici dell’epoca, Sigmund Freud (fondatore della psicoanalisi) notava allibito che fino a poco prima il cittadino «di razza bianca, cui era toccata la guida del genere umano» poteva nella sua immaginazione «costruirsi una patria più vasta per la quale girare in lungo e in largo senza essere intralciato». Era l’immagine oleografica del mondo come parco dei divertimenti del cosmopolita, obiettivo di molti fra coloro che potevano immaginarselo e soprattutto permetterselo. Un ideale riproposto poi con insistenza nel secondo dopoguerra da un capitalismo nel frattempo sempre più globalizzato, presente ovunque, spesso con gli stessi attori multinazionali, gli stessi prodotti e uguale stile di vita.
Nella «società dei consumi» il sistema economico aveva fame di consumatori globali, e cercava di conquistarseli, in un modo o nell’altro. Anche per questo gli Stati Uniti, d’accordo con l’Unione Sovietica, vollero nel secondo dopoguerra che i Paesi che avevano ancora colonie (Inghilterra e Francia innanzitutto) le lasciassero: per loro erano nuovi mercati da conquistare, economicamente e politicamente. Qui però comparve un fenomeno imprevisto per quasi tutti i politici (tranne per il vecchio Winston Churchill, che alla conferenza di San Francisco del 1945 aveva avvisato i superficiali alleati). Gli Stati nazionali disegnati a tavolino dalle potenze imperiali negli ultimi 150 anni si infransero infatti rapidamente, ma sotto di essi ricomparvero poteri e credenze molto più antiche che, per ottenere l’autonomia dai popoli vicini o dalle etnie prevalenti, non esitarono a impegnare in lunghi e complicati conflitti sia le grandi potenze sia l’Onu e le organizzazioni internazionali.
Soltanto ai confini dei Paesi comunisti, sotto l’influenza dei vicini marxisti, queste rivendicazioni assunsero contenuti soprattutto economico-politici. Nel resto del mondo si trattò per lo più di un’esigenza profonda: erano popoli che volevano riprendersi le terre loro appartenute spesso secoli prima, le proprie lingue e usanze, vivere a modo proprio. Questa richiesta produsse dagli anni Sessanta in poi una media di più di 100 guerre ogni anno, la maggior parte per l’autonomia. Ricomparvero così popoli di cui gli occidentali non sapevano nulla, che si dimostrarono molto più attaccati alle loro tradizioni che ai soldi o a riconoscimenti formali.
Il fatto è che la teoria illuminista delle relazioni internazionali e l’intera politica si erano dimenticate che oltre agli interessi, i denari e le ideologie ottocentesche esistevano le tradizioni, gli antenati, i territori, forse persino l’anima. I grandi commentatori, tuttavia, non si diedero troppa pena per capirne qualcosa. Attribuirono tutto, come al solito, all’ignoranza dei popoli: arretratezza, fascismi, eccetera. Da noi – scrissero – europei (sottinteso: bianchi e civilizzati), non sarebbe accaduto.
Invece stava già accadendo. Occitania, la grande e antica regione del Sud della Francia, con la sua antica langue d’oc, Corsica, Fiandre, Catalogna, Paesi Baschi, Sud Tirolo, Veneto, Lombardia, Sardegna, Valle d’Aosta, Galles, Scozia, Cornovaglia, per non citare che i casi più noti, sono tutti territori ben definiti, con storie millenarie, lingue, tradizioni di grande densità e ricchezza che ora stanno ritrovando, con sforzo e crescente determinazione. Oggi molti di loro hanno già ottenuto livelli più o meno importanti di autonomia, ma comunque tutti (e altri in Europa e altrove) vivono un crescente sviluppo, mentre gli Stati cui appartengono sono tutti più o meno esplicitamente impegnati in un faticoso processo di revisione delle rispettive strutture, in genere sovradimensionate rispetto all’attuale funzione degli Stati nazionali. Che sono appunto dovunque stretti tra le antiche e sotterraneamente sopravvissute «nazioni organiche» in buona parte etniche, forti di identità e forme di vita condivise e tuttora in sviluppo, e nuove alleanze geopolitiche come l’accordo di Visegrad, o quello tra Stati baltici del Nord Europa, che vorrebbero rappresentanze più articolate e flessibili delle vecchie burocrazie degli Stati o dell’Europa iperburocratizzata e opaca dell’ultimo quindicennio.
Le autonomie regionali, o l’omogeneità culturale all’interno aiutano lo sviluppo di buone relazioni economiche e politiche all’esterno. Lo si vide anche in Europa, dopo l’esplosione della multiculturale e multietnica Jugoslavia tenuta insieme dall’ideologia marxista e dall’alleanza tra Iosif Stalin e il dittatore jugoslavo Tito (Josip Broz). Tutti i «nuovi» Stati divenuti membri dell’Unione europea dopo il 2004, molti dei quali (come la Slovenia) formatisi con la dissoluzione della Jugoslavia, «erano ormai “unitari”, rappresentativi di un’unica identità etnica e culturale, mentre “prima solo cinque membri dell’Ue potevano essere definiti propriamente unitari, e gli altri erano fderazioni o Stati dotati di regioni autonome”» (lo documenta Tatjana Sekulic in La questione orientale, Donzelli editore). Gli Stati unitari e le regioni autonome si dimostrano oggi più in grado di difendere gli interessi dei loro cittadini sul piano internazionale. Non si tratta di ideologie: è un fatto. Come ha scritto Gianfelice Rocca, non un visionario ma il presidente di Techint, una delle maggiori multinazionali nella siderurgia avanzata, già presidente di Assolombarda: «Nella globalizzazione sono i territori e le città a vocazione internazionale che trainano lo sviluppo». Negli Stati nazionali occorre «una diversa articolazione nei rapporti con l’Europa e con le autonomie territoriali». Tradotto: i territori devono essere più autonomi.
Anche di riprendersi e difendere le proprie tradizioni, convinzioni, lingue, vocazioni, speranze.
Il 6 giugno 2018 la Prima Commissione consigliare ha dato il via libera all’adozione di un Inno regionale per il Veneto.
Articolo tratto da Il Gazzettino del 7 giugno 2018
Su proposta del consigliere Antonio Guadagnini (Siamo Veneto), sia i consiglieri della Lega che quelli della Lista Zaia hanno infatti votato a favore: “altre Regioni, a partire da Sicilia e Sardegna, dispongono di un proprio Inno e non si capisce perché il Veneto debba farne a meno, senza contare che il Veneto è tra le prime Regioni in Italia a vantare una storia continuativa come Popolo unitario da oltre 1000 anni”.
L’Inno che potrebbe essere adottato è “Na Bandiera, na Lengua, na Storia”, un progetto nato su spinta di diverse associazioni culturali venete negli anni scorsi: la musica, riadattata dal compianto Maestro Luciano Brunelli, è tratta dalla “Juditha Triumphans” del compositore veneto Antonio Vivaldi, oratorio composto nel 1716 su richiesta della Repubblica Serenissima di San Marco, in onore della riconquista dell’isola di Corfù; il testo è in lingua veneta e riprende le diverse sfumature linguistiche parlate nell’intero territorio regionale.
“Na Bandiera, na Lengua, na Storia” – video da YouTube:
Una curiosità: “Na Bandiera, na Lengua, na Storia” era già stato proposto come Inno regionale nel 2009
Insieme ai tuoi compagni definisci un itinerario all’interno del territorio in cui vivi; poi immagina di dover raccontare questo itinerario a turisti, visitatori, o agli stessi abitanti del territorio, per permettergli di approfondire la nostra storia, arte e tradizioni e per scoprire gli angoli del Veneto che sono sconosciuti ai più.
Descrivi questo itinerario raccontandone la realtà socio-culturale, artistico o storica. Oppure metti in risalto attrazioni, manufatti prodotti locali, unicità del tuo territorio.
Perché è importante partecipare?
Perché il processo di identificazione, studio, interpretazione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale, spetta a tutti noi cittadini e perché ognuno ha il diritto di contribuire all’arricchimento del patrimonio culturale, aumentando la consapevolezza del suo valore, conservandolo e preservandolo.
Queste linee, contenute nella Convenzione di Faro, sottoscritta dal Governo Italiano il 27 febbraio 2013 coincidono pienamente con quanto già previsto dallo Statuto regionale del Veneto.
Partecipando, quindi, non solo darai risalto al tuo territorio e concorrerai a vincere dei premi, ma soprattutto contribuirai in modo fondamentale alla conservazione e all’arricchimento del nostro patrimonio culturale.
Un concorso per le scuole secondarie di secondo grado nello spirito dello Statuto del Veneto e della Convenzione di Faro che ribadisce la necessità della partecipazione democratica dei cittadini “al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione del patrimonio culturale”. Un concorso per far conoscere, apprezzare e amare il nostro Veneto grazie agli occhi, alla sensibilità e all’intelligenza dei nostri giovani che guardano al futuro dall’alto di un patrimonio storico, culturale, artistico, di tradizioni e cultura materiale di inestimabile bellezza.
Roberto Ciambetti – Presidente del Consiglio regionale del Veneto
Quali sono gli obiettivi del progetto?
Avvicinare i giovani al proprio patrimonio culturale e territoriale
Favorire lo sviluppo di attività didattiche per la conoscenza e la valorizzazione dell’identità culturale della propria comunità locale
Promuovere l’attrattività del territorio Veneto, valorizzando il patrimonio artistico e culturale anche di nuove aree a nuovi pubblici
Creare diffusione della conoscenza di avvenimenti storici, opere e personaggi importanti per il territorio Veneto.
Concorso aperto anche agli studenti di origine veneta delle scuole italiane all’estero
Per gli studenti veneti delle scuole italiane all’estero lo scopo è quello di evidenziare, mettere in risalto o spiegare l’impronta e le caratteristiche dell’eredità veneta nel paese in cui si vive, con testimonianze e memorie o esempi della cultura veneta nel territorio o nel tessuto socio-economico-culturale locale.
Il Concorso è promosso dal Consiglio d’Europa, dalla Regione del Veneto e dal Miur Veneto.
Si apre così il sito www.istroveneto.com , portale dedicato al concorso canoro organizzato ogni anno in Istria: si tratta di una iniziativa unica nel suo genere, soprattutto se consideriamo il fatto che viene organizzata ogni anno al di fuori del confini della Regione del Veneto, con lo scopo di tener vivo e valorizzato il patrimonio culturale e linguistico delle popolazioni istriane di origine veneta. L’istroveneto è infatti il nome della parlata veneta che nei secoli si è sedimentata e si è conservata nelle terre un tempo parte integrante della Repubblica Serenissima di San Marco. Basta girare per i meravigliosi paesi istriani come Rovigno, Parenzo, Umago, Grisignana, Montona – per fare solo alcuni esempi – per accorgersi di quante tracce, culturali ed architettoniche, rimandano ancor’oggi al periodo Veneziano. La dedizione spontanea alla Serenissima della maggior parte dell’Istria occidentale e meridionale iniziò nel XII secolo e Venezia conservò la sovranità su buona parte dell’Istria fino alla dissoluzione del suo Stato per opera di Napoleone nel 1797.
Oggi quella cultura dalle antiche radici torna a rivivere nel “Festival dell’Istroveneto”, evento promosso dell’Unione Italiana con il Patrocinio della Regione Veneto. Il programma per questa nuova edizione 2018 prevede molteplici iniziative, dai laboratori didattici alle mostre, dagli incontri presso le scuole del territorio a rassegne teatrali.
Clou della manifestazione è senz’altro “Dimela cantando”, Festival della canzone inedita in istroveneto: si inizierà a Muggia (Italia) giovedì 7 giugno, per passare poi a Capodistria (Slovenia) l’8 giugno; il gran finale si terrà nella città di Buie (Croazia), in Piazza San Servolo, sabato 9 dalle ore 21.
Potete trovare tutte le informazioni all’interno del sito www.istroveneto.com
Per concludere, vi segnaliamo che, alla pagina www.istroveneto.com/dimela-cantando.html , è possibile ascoltare non solo le canzoni in gara negli anni scorsi, ma anche in anteprima quelle dell’edizione 2018!
Di seguito vi riportiamo con piacere la presentazione della nuova rivista “Incora Cuà” interamente scritta in lingua veneta, che ci giunge dal Brasile, più precisamente da Bento Gonçalves nello stato del Rio Grande do Sul.
A scriverla, nella variante del veneto-brasiliano (“el Talian”) è Fernando Zanella Menegatti, discendente di emigrati Veneti. Fernando, molto attivo anche su Facebook a difesa della lingua veneta, è specialista in Studi della Grammatica Portoghese e ‘amante delle lingue’.
El “Incora Cuà” el ze ‘na revista, o un “informativo” come ciamemo in Braziłe, a Bento Gonçalves (Veneto ze ła 2ª Łengua de Bento), che’l vien co l’intension de tenjer ła cultura e ła Łengua Veneta fra i desendenti de i Veneti in Rio Grande do Sul.
Ma l’Incora Cuà no’l ze fato sol par cuesto, e sì anca par deventar pì prosimo el contato fra Veneti che i ze in Veneto, e i Veneti che i ze in sud de’l Braziłe, el paeze che’l ga ciapà ła majoransa de i Veneti in cuel tenpo de l’emigrasion.
Cusì, l’Incora Cuà el ze ndove i desendenti i pol catar fora interviste co i Veneti diretamente de’l Veneto e in Łengua Veneta, e anca informasion che te dize de ła storia de’l nostro pòpoło, e marcataménte cueła storia de l’antiguità, de ła formasion de i Veneti. Parché, pur masa, i Veneti de’l Braziłe i ze un tanto łontan de ła storia Veneta. I biznoni e i noni che i ze venjesto cuà, łori i ga asà una Itałia che scuazi ła ga fato un spatrio zeneral de’l pòpoło Veneto, ałora, ze comun che no i vołéa pì tornar e njanca parlar de cuel posto.
In dì de ancó, i desendenti, łori i sape masa sora l’imigrasion “itałiana” in Braziłe, ma njente de cueło che ga susedesto prima, njanca de ła Serenissima, e manco incora de ła gran storia de i Veneti Antighi. Parò, ła Łengua Veneta, che cuà ła ze ‘na variante ciamà “Tałian”, e ła cultura veneta popołar, ła ze incora viva (anca i zòvane, cuełi pì zòvane de mi — go 29 ani, i fa mescołansa fra portogheze).
Una łengua che nesun ła scriva e nesun ła łèze presto ła deventa ‘na łengua morta, e cuà el Veneto el senpre ze stà ‘na łengua oral, e co che un o altro ła scrivea, i fea ‘na mescołansa fra ła grafìa itałiana co ła grafìa portogheza. L’Incora Cuà dòpara ła grafìa de l’Academia de ła Bona Creansa. Ghe ze cuełi che piaze, e ghe ze cuełi che ła despiaze, ma l’inportante ze che ła Łengua Veneta bezonja ‘na grafìa standard, come tute łe łengua inte’l mondo, e una grafìa che no sia ‘na copia de l’itałiano o de’l portogheze, e che anca cusì podemo tenjer tute łe varianse de Łengua Veneta.
Co l’inisiativa che ghemo fato, altri paezi cuà che ghe ze el Veneto come 2º łengua ofisial, i ga intrà in contato co noaltri co ła voja de sparpanjar l’Incora Cuà anca rento de’l so teritorio. E no podarìa asar da dirve che l’Incora Cuà anca el ga verto łe porte de łe scołe. Go parlà co’l poder munisipal a Bento, e penso che presto insenjaremo ła Łengua Veneta insieme co tuta ła Storia Veneta a i desendenti rento de łe scołe.
Credo che l’è inportante far cuesta conecsion e union fra tute i Veneti, parché semo in sècol XXI, e femo parte de un mondo globałizà, che oviamente el ze drio strucar tute łe culture e łengue, par far marcataménte l’ingleze e ła cultura mericana el riferimento global, cueło che segondo mi ze un zbałio.
In tutte le scuole di ogni ordine e grado del Veneto si studierà la storia dell’emigrazione veneta dall’Ottocento al secondo Dopoguerra.
Ritengo giusto che i giovani conoscano l’entità, le cause e ciò che hanno vissuto i nostri emigranti: è una pagina di storia spesso ignorata, che invece ha generato grandi cambiamenti sociali, culturali e anche politici nelle nostre terre e nei paesi di destinazione dei veneti.
C’è un altro Veneto al di là del mare, tra Americhe e Australia, fatto da 5 milioni di emigranti e loro discendenti, tanti quanti i residenti nella nostra regione. Molti di loro hanno conservato lingua, cultura, tradizioni e un forte legame con la terra d’origine. Promuovere la conoscenza e lo studio del fenomeno migratorio e delle sue ricadute è un atto di omaggio al coraggio e all’intraprendenza di chi è partito e un modo per tenere vivi i legami con chi si sente ancora veneto, anche se ormai ha messo radici in altri paesi e altre culture!
Racolta de proverbi veneti col so bel comento, anca quelo in dialeto s-ceto
Di Renato Trevisan “el Maestro” – edizioni Scantabauchi – luglio 2018
[…] La pubblicazione di quest’opera di Renato Trevisan appare come una iniziativa di carattere storico, che restituisce alla “sapienza del passato” il giusto valore civile, sottraendola all’ostilità scompaginante della modernità. Di pensiero e di linguaggio.
L’idea stessa di dare una spiegazione in chiave moderna a proverbi vecchi di secoli appare non come un capriccio letterario, ma come necessità di rivelare l’atemporalità delle “pillole di saggezza popolare” e l’attualità del loro messaggio.
E’ dell’ XI secolo un primo insediamento monastico proprio sul panoramico colle che sovrasta Nervesa (della Battaglia, nome attribuito dopo le cruente battaglie del Piave della prima guerra mondiale).
Grazie alle ricche dotazioni di Rambaldo III, signore e conte di Treviso, l’insediamento originario accresce d’importanza e diviene sede di un importante cenobio di monaci Benedettini-Cassinesi ed assoggettato all’ordine direttamente controllato dal papato.
Con i potentissimi Conti di Collalto, le cui proprietà si estendevano per gran parte dell’alta provincia di Treviso e su tutto il Montello, il monastero diviene una importantissima Abbazia meta di pellegrinaggi e “ritiri” per i potenti personaggi locali oltre che luogo di fede per le genti del Montello e della pianura d’innanzi.
La guerra Guelfo-Ghibellina del 1229 non trascurò nemmeno questa oasi di fede, anzi fu pretesto per distruzioni e saccheggi, e vide tra i protagonisti Azzo d’Este ed Ezzelino III da Romano che a quel tempo stava per imporsi come il più importante personaggio dell’orizzonte veneto e cardine della svolta filosofico-politica tra profondo medioevo e prime luci rinascimentali.
Una seconda distruzione avvenne durante la guerra tra le truppe imperiali Ungare e le armate della signoria Trevigiana nel 1358. Come sempre gli instancabili monaci non si persero d’animo e ristrutturarono ed abbellirono prontamente l’abbazia.
Quindi il lungo periodo di pace proprio mentre si rafforzava prepotentemente il “dominio di terra” della Serenissima (Venezia).
Ospiti illustri si ritirarono tra le austere mura monastiche, tra essi Monsignor Della Casa, noto per aver scritto il primo libro sul galateo, le buone maniere e la buona educazione.
Fu quello del 1509 l’anno più critico per la Serenissima, una grande crociata, la Lega di Cambrai, capeggiata da Massimiliano d’Austria, devastò il Veneto e s’infranse sulle possenti difese erette a Padova e a Treviso. Venezia fu ad un soffio per essere conquistata e distrutta.
Anche a seguito di questi avvenimenti, nel 1521 si ebbe una gravissima crisi istituzionale tra repubblica ed istituzioni religiose.
L’abbazia venne soppressa e sciolto il monastero, gli edifici furono ridotti a semplice luogo di culto.
Fu l’inizio del decadimento e dell’inevitabile rovina.
Nei primi anni del 1800 il colpo di grazia dovuto all’invasione napoleonica e al successivo palleggiare tra governo austriaco e Regno Italico.
Tutti i diritti religiosi e le proprietè ecclesiastiche vennero confiscate e spoliate, gli ormai vetusti muri di quella che fu una splendida abbazia vennero abbandonati all’incuria e alla rovina.
Infine le grandi battaglie della I guerra mondiale, tra il Piave ed il Montello (l’ossario del Montello si trova a poche centinaia di metri), ridussero quel che restava ad un fatiscente e struggente ammasso di rovine, buono come cava di materiale da costruzione.
E’ un prezioso volume quello che vi segnaliamo, frutto della ricerca di Ettore Beggiato sulla Repubblica settinsulare che volle continuare indipendente, dopo l'”assassinio” di Venezia inerme nel 1797, continuando con le leggi e lo spirito di tolleranza e libertà vera che San Marco le aveva garantito per secoli.
“Per Braduel erano la flotta immobile di Venezia”: parliamo delle sette isole ioniche (Corfù, Passo, Cefalonia, Itaca, Santa Maura, Zante e Cerigo) che, dopo secoli di comune appartenenza alla Serenissima e dopo la breve occupazione francese, decidono di continuare la loro esperienza unitaria costituendo nel 1800 la Repubblica Settinsulare (o Eptaneso) con capitale Corfù.
La bandiera del nuovo Stato? Ma il Leone di San Marco naturalmente! Con il libro chiuso e le sette frecce a rappresentare le sette isole.
Alla breve stagione di indipendenza subentrò un regime di protettorato, della Francia e dell’Inghilterra fino a che le isole non si riunificarono alla madrepatria greca nel 1863; da quel momento tanta memoria storica andò perduta. Ma l’attaccamento degli isolani si era manifestato profondo, a disastro avvenuto con la Municipalità insediatasi nella Capitale veneta, quando ad esempio nella processione del Corpus Domini il Governatore Widman, magistrato veneto, passò sotto una pioggia di fiori: ogni sorta di garofani, di fiori, di confezioni, gli venivano tirati dalle finestre sul suo capo, sulla sua porpora e sulla strada su cui passava, e nel mezzo della calca espesso usciva il grido: “evviva Widman!”. Nessuno pensava che quello sarebbe stato l’ultimo saluto reso alla Repubblica serenissima.
Del resto, scrive Beggiato, poco prima il Widman stesso aveva chiesto risorse per far fronte a provvedimenti urgenti, che servivano a rendere difendibile l’arcipelago, le cui fortezze erano ormai in condizioni pietose, e anche lì, come era accaduto nella Terraferma veneta, fu una gara per raccogliere decine di migliaia di ducati o per sottoscrivere prestiti.
Tale amore filiale, che prima si espresse nello spirito della costituzione (tolleranza religiosa, parità tra cattolicesimo e chiesa ortodossa ad esempio) e nel tentativo di ricreare una repubblica aristocratica, si manifestò anche poi anche con la scelta del vessillo che l’Inghilterra volle rispettare fino al 1865, inglobandolo nella Union Jack.
Il libro lo troverete sia in libreria che in internet edito da Editrice Veneta con la presentazione di Ulderico Bernardi, o rivolgendovi a sito www.ettorebeggiato.org, e-mail beggiato@hotmail.com
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’intervento del prof. Marco Tamburelli, in replica all’articolo del prof. Michele Cortelazzo inerente la Lingua Veneta, apparso su Il Mattino di Padova e altre testate.
Un articolo apparso il 24 aprile su Il Mattino di Padova dimostra come la discriminazione linguistica non solo è viva e vegeta, ma è anche bellamente razionalizzata e difesa dalle istituzioni dello Stato, università comprese. L’autore dell’articolo dimostra poi come la cosiddetta “linguistica italiana” è interamente scollegata dagli sviluppi internazionali degli ultimi cinquant’anni, cosa che già aveva dimostrato l’Accademia della Crusca (https://patrimonilinguistici.it/lettera-allaccademia-dellacrusca-1/).
Iniziamo però dalle cose positive. Nell’articolo, Michele Cortelazzo ci ricorda giustamente che i cosiddetti “dialetti” “funzionano sulla base di regole grammaticali proprie” e che “non sono varianti dell’italiano”, smentendo così ciò che purtroppo in Italia è ancora creduto da molti, per motivi non del tutto indipendenti dal lavoro della stessa linguistica italiana (vedasi i vari trattati sulla lingua italiana “e i suoi dialetti”, frase ancora in uso di recente proprio all’università di Padova: http://www.unipd.it/ilbo/content/la-lingua-salvata-dialetti-compresi ).
Nell’articolo in questione ci sono anche considerazioni tassonomiche sulla struttura delle domande in veneto per dare esempio di come il veneto è “un sistema autonomo”, che non è altro che una frase contorta per evitare di dire che il veneto è una lingua distinta dall’italiano, visto che nella linguistica internazionale due lingue sono proprio quello: due sistemi tassonomicamente distinti per fonologia, morfologia, sintassi. Nonostante ciò, l’autore decide di dare il potere di arbitro alle considerazioni sociolinguistiche, potere che la sociolinguistica non ha (e la tassonomia, la genealogia, la tipologia dove le mettiamo?). E in fine abdica alle responsabilità di linguista dando il potere assoluto di decidere la linguistica allo Stato. Badiamo bene: non il potere di decidere quali lingue uno Stato intende proteggere, ma addirittura il potere di decidere quali sono le lingue parlate al suo interno.
E così decenni di studi scientifici di tassonomia linguistica sono gettati dalla finestra, e la linguistica viene trasformata da scienza del linguaggio a serva dello Stato, lì per descrivere la verità assoluta che lo Stato ci dona.
Ma questa idea che la linguistica non ha nulla da dire su cos’è una lingua è assolutamente falsa.
E’ così falsa che non ci crede nemmeno chi la sostiene. Infatti coloro che ancora sostengono questa subordinazione tra Stato e linguistica parlano anch’essi di “lingue” quando si riferiscono alle lingue africane. O forse Michele Cortelazzo insisterebbe che non esistono le lingue africane ma solo i “dialetti” africani? Credo proprio di no. Eppure, le lingue africane non sono “strumenti posti sullo stesso piano” di altre lingue, dovuto al fatto che moltissime lingue africane sono subordinate al francese, l’inglese, e/o l’arabo. Ma sempre lingue rimangono, perché – come il veneto – sono sistemi tassonomicamente distinti per fonologia, morfologia, sintassi. Eppure “vi è una distinzione gerarchica” fra le lingue africane ed altre lingue, come per esempio tra swahili e inglese, ed una differenza di “estensione degli argomenti di cui possono trattare”, come dimostrato dal fatto che la lingua dell’università e dei tribunali in Africa è spesso l’inglese. Lo stesso si può dire mutatis mutandis delle lingue native americane.
Tuttavia, chi – nonostante i fatti oggettivamente deducibili dalla genealogia e tassonomia linguistica – insistesse che le lingue d’Africa o le lingue native americane sono “dialetti” perché socialmente subordinate ad altre lingue commetterebbe ciò che al giorno d’oggi è giustamente condannato come un atto di discriminazione linguistica. Eppure la discriminazione linguistica passa inosservata quando si tratta delle “nostre” lingue regionali. In questi casi, si accetta ancora che la “mia” lingua è lingua mentre la “tua” deve essere chiamata e trattata come “qualcos’altro”. E spesso si dimostra ciò che in Galizia viene chiamato “auto-odio linguistico”, ovvero “la lingua che mi hanno imposto a scuola è lingua, quella che parlavano i miei avi è qualcos’altro”. Anche Cortelazzo sembra essere in preda all’auto-odio linguistico, visto che molto probabilmente anch’egli è venetofono.
Notiamo poi come questo atteggiamento di discriminazione linguistica ha molto in comune con gli altri tipi di discriminazione: la mia è una religione, le tue sono superstizioni. Ed è qui il gioco di prestigio dell’imperialismo linguistico: se queste cose che vogliamo sopprimere le chiamiamo “dialetti”, “patois”, “idiomi”, “vernacoli”, e tutto quello che ci viene in mente fuorché “lingue”, allora il fatto che non hanno né riconoscimento né sostegno istituzionale può passare inosservato. Dopo tutto, i riconoscimenti istituzionali sono solo per le lingue, non per “quelle altre robe lì”. E quando vengono parlate solo in contesti ristretti ci sentiamo dire addirittura che i dialetti/patois/vernacoli sono così per loro “natura”, sono parlati in contesti ristretti perché “così è la vita”. Nascondendo però il fatto che l’uso in contesti ristretti è uno dei sintomi principali di una lingua in pericolo d’estinzione. E così l’illusione può continuare indisturbata, e il pericolo d’estinzione è mascherato da una presunta caratteristica “naturale”. Ma se le chiamiamo “lingue” allora il fumo si solleva e l’illusione svanisce, perché se le chiamiamo lingue allora poi la domanda nasce spontanea: perché queste lingue non sono protette? Perché lo Stato X protegge la lingua Y ma non la lingua Z? Cos’ha contro la lingua Z? E ciò rende la discriminazione linguistica percettibile, cosa che la Corte Costituzionale ha dimostrato ancora una volta di volere assolutamente evitare, con la benedizione della “linguistica italiana”.
Ma non finisce qui. Per razionalizzare il gioco di prestigio ci si inventano storie secondo le quali il veneto o il piemontese sono “dialetti” perché parlati in aree ristrette, insinuando che i chilometri quadrati sono una caratteristica per decidere se una cosa è lingua, quando al massimo possono aiutare a decidere se si tratta di lingua regionale piuttosto che di lingua nazionale, come ricorda anche la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Oppure si usa il trucco degli ambiti ristretti, aggiungendo così la beffa oltre il danno: si cita un sintomo della loro salute precaria (la diminuzione dei contesti d’uso) come ragione per mantenerle in salute precaria.
Questo dei contesti ristretti è un trucco che viene usato spesso da chi vuole negare l’emancipazione a un gruppo o a una lingua: vietare il suo inserimento in certi contesti o ambiti perché non è presente in quei contesti o ambiti. In sociologia questo trucco è conosciuto come la “profezia che si autoavvera”. Uno degli esempi più conosciuti è quello che fu usato per vietare il voto alle donne: le donne non possono votare perché è oggettivamente dimostrabile che sanno poco di politica. Era vero, in media sapevano poco di politica: generalmente non se ne interessavano perché erano scoraggiate a farlo, e in più non ne avevano motivo perché comunque non potevano votare. Et voilà, il gioco dell’egemonia culturale è fatto: non puoi essere domani perché non sei oggi.
Questa egemonia culturale è spregevole sia quando si tratta di diritti di voto che quando si tratta di diritti linguistici. Ma delegare allo Stato i poteri di linguista assoluto non è solo – come abbiamo visto – sia fonte di discriminazione linguistica che rifiuto della scienza, è anche un atteggiamento in diretta opposizione alle direttive Unesco. Infatti il compito dell’Unesco è anche di assicurarsi che gli Stati si prendano cura dei patrimoni dell’umanità. Le organizzazioni internazionali servono anche a questo: a riconoscere ciò che è un bene collettivo dell’umanità, e come tale non proprietà del singolo Stato perché il suo destino non influisce solo sul singolo Stato ma, appunto, su tutta l’umanità. Ed è facile capire perché queste organizzazioni internazionali sono importanti: uno Stato di religione X ha sul suo territorio luoghi di culto di religione Y che sono di grande importanza per la storia dell’umanità ma che lo Stato X vede come una minaccia. E’ saggio lasciar decidere allo Stato X cosa fare di questi luoghi? La risposta della comunità internazionale è ”assolutamente no”, perché questo Stato potrebbe distruggere o altrimenti lasciar crollare edifici che sono patrimonio di tutti, non solo dello Stato in questione. Il ruolo Unesco è anche quello di incoraggiare adeguate contromisure conservative laddove lo Stato in questione è incapace di farlo o è negligente. Possiamo quindi dedurre che il compito di decidere cos’è una lingua non può essere lasciato solamente ai singoli Stati perché, soprattutto nel caso delle lingue e delle culture, questi hanno la tendenza a lasciarle morire laddove tali lingue non sono in sintonia con le narrative nazionaliste. Insomma, fare dello Stato il sommo linguista è come chiedere al lupo di fare il pecoraio.
Ed è anche per questo che è nato l’Atlante Unesco delle lingue in pericolo, con lo scopo di combattere queste tendenze dei singoli Stati, sull’impronta del Lista dei Patrimoni dell’Umanità. E quindi non possiamo lasciare il destino delle lingue regionali in mano a Stati la cui politica linguistica è spesso stata la causa principale della deriva di queste lingue, distruggendole attivamente o altrimenti lasciandole “crollare”, tecnica conosciuta in linguistica come “negligenza benevola”, dove il “benevolo” è principalmente una cortina di fumo.
Ed è per questi motivi che la decisione di ciò che è lingua non solo non può, ma non deve essere lasciata allo Stato. E i linguisti internazionali questo lo sanno bene. Come ha affermato il responsabile europeo dell’Atlante Unesco: “Nonostante vi siano certamente casi limite, anche in Europa, di solito è abbastanza facile dire quali isoglosse corrispondono a confini tra lingue e quali no”.
Queste separate da isoglosse, ovvero da caratteristiche puramente linguistiche, sono le lingue del mondo, veneto e piemontese inclusi. Queste sono i patrimoni dell’umanità, che poi alcuni Stati decidono di salvare e altri decidono di lasciar morire. E quando uno Stato decide di lasciar morire una lingua inizia sempre e prevedibilmente col trovargli un nome che non sia “lingua”, in modo da abbassarne il prestigio e scoraggiarne l’uso. E’ questa la grande beffa di termini come “dialetto” o “patois”, o “vernacolo”, nati appositamente per nascondere la discriminazione linguistica che, come fa notare Philippe Blanchet, è l’unica forma di discriminazione apertamente accettata dalle istituzioni occidentali. Nel caso delle “nostre” lingue questa discriminazione è addirittura sostenuta e difesa dagli accademici.
Marco Tamburelli
Professore Associato di Bilinguismo
Università di Bangor, Galles (GB)
Il 25 aprile a Venezia è una giornata particolarissima: è il giorno di San Marco e il giorno del “bocolo”, cioè il bocciolo di rosa che ogni uomo dona, sulla scorta di una suggestiva e romantica leggenda, nella giornata del patrono cittadino, alla propria amata quasi a rinnovare il pegno d’amore.
E’ la giornata in cui si celebra la conclusione della Seconda Guerra Mondiale e viene spontaneo suggerire una passeggiata che dalla Basilica di San Marco, lungo Riva Sette Martiri, porti al monumento alla Partigiana di Augusto Murer, con il basamento di Carlo Scarpa, ai Giardini della Biennale. Neanche una mezzora, in uno dei panorami più belli e noti al mondo, ma in verità un viaggio nella memoria, nella nostra identità, un percorso per riflettere.
Per quest’anno il Lezionario romano prevede per le Messe la lettura proprio del Vangelo di Marco, forse il primo ad essere stato scritto: Marco, l’evangelista morto il 25 aprile probabilmente ad Alessandria d’Egitto, centro dottrinale del primo cristianesimo e città a cui Venezia fu intimamente legata sin dalla sua fondazione. Da Alessandria, narra la leggenda, Bon da Malomocco e Rustico da Torcello trafugarono le spoglie dell’evangelista che vennero ospitate a Venezia in una nuova chiesa, l’attuale Basilica di San Marco, eretta come cappella palatina, cioè la chiesa del Doge e non sede del Patriarca la cui cattedra stava a San Pietro, a ribadire quel singolare rapporto laico che univa lo stato veneziano al proprio patrono, che della città, e del Veneto, diventerà simbolo universale e custode.
Il possesso da parte della Repubblica Serenissima della reliquia marciana garantiva alla città uno status particolare, una certa libertà, rispetto al dominio papale: Venezia città libera, libera nel segno di san Marco. E libera la città lo fu per secoli.
Continuiamo la nostra passeggiata, Riva Sette Martiri e non possiamo dimenticare che a Verona tra il 25 e 26 aprile 1945 vengono distrutti i ponti sull’Adige, il 28 aprile si combatte ancora a Vicenza, Padova e anche a Venezia: piazzale Roma, alla Marittima e a Sant’Elena gli scontri sono duri. Gli occupanti tedeschi lasciano la città dopo aver consegnato le mappe delle mine posizionate in laguna ma il generale Clark da Roma fa subito chiarezza: “Invio ai cittadini di Venezia le mie congratulazioni per l’insurrezione, coronata da pieno successo. Possiamo dichiarare, per la verità, che la vostra città è stata liberata dall’interno” . Venezia libera, liberata dai veneziani.
Ma la libertà è stata pagata a caro prezzo in tutto il Veneto tra le macerie non solo fisiche di un conflitto che lascia profonde ferite a cui se ne aggiungeranno in breve altre: dall’Istria e dalla Dalmazia, già giungono segnali drammatici.
E’ un Veneto dove già in quei mesi si avvertono bene i segnali di quella che sarà la guerra fredda: “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente…” denuncerà nell’estate del ’46 Winston Churchill, ma da noi quella cortina è già da tempo realtà e durissimo scontro politico.
E’ un Veneto di prima linea, di frontiera, povero, segnato da un impianto rurale arretrato, ma anche il primo a dar rifugio, casa e libertà ai profughi istro-dalmati, il primo a garantire da Pellestrina il viaggio via nave verso Israele e la libertà agli ebrei dell’est Europa sfuggiti alla Shoah. Un Veneto che si tira su le maniche. E’ un Veneto che inequivocabilmente sceglie la libertà ponendo le basi di quel modello economico che di lì nel volgere di pochi decenni trasformerà la regione facendola diventare uno dei motori dell’economia europea. 25 aprile, nel segno di San Marco, abbiamo scelto la libertà.
Roberto Ciambetti Presidente del Consiglio Regionale del Veneto
Il veneto ha esercitato un influsso sul greco moderno. Ma come mai? La risposta va cercata in un periodo compreso tra il Duecento e il Settecento, nei secoli di maggiore espansione (ma anche di stagnazione) della Repubblica di Venezia, la quale esercitò il suo potere anche su parti del mondo grecofono.
La dominazione veneziana in Grecia e a Cipro
Il veneto è sicuramente una delle lingue regionali italiane ad avere avuto larga diffusione al di fuori dei suoi confini originari. Se escludiamo le colonie venete in Brasile e in Messico (Chipilo) – formatesi a seguito dell’emigrazione avvenuta tra il XIX° e il XX° secolo – , ciò lo si deve soprattutto al secolare potere della Repubblica di Venezia, la quale ha dominato per secoli sull’Adriatico e sull’Italia nord-orientale. E questa diffusione è avvenuta nonostante per gran parte del tempo la Serenissima usò come lingua ufficiale prima il latino e poi l’italiano (anche se non mancarono documenti in veneto o in italiano venetizzante).
Tra i domini veneziani nell’Adriatico e nel Mediterraneo orientale si annoverano diversi territori che oggi fanno parte della Repubblica Ellenica (nonché l’intera Cipro), come possiamo vedere in questa immagine che mostra l’insieme dello Stato da Mar, ovvero il complesso dei territori d’oltremare della Serenissima (affiancati dagli anni in cui i veneziani hanno dominato).
Il periodo di dominazione veneta nella storiografia greca è noto come (Β)ενετοκρατία (Venetocratìa – Enetocratìa) – letteralmente “[il periodo del] governo veneziano”, la quale si inserisce nel più grande contesto della Φραγκοκρατία (Frangocratìa), detta anche Λατινοκρατία (Latinocratìa), ovvero le varie dominazioni di dinastie e signorie occidentali di religione cattolica in Grecia e a Cipro – , modellato sull’esempio di Τουρκοκρατία (Turcocratìa), termine che invece indica la dominazione ottomana.
Come ogni dominazione, anche quella veneziana ebbe i suoi pro e i suoi contro.
Va oltre il presente articolo parlarne estesamente, ma comunque una cosa va precisata: oggi – data la contrapposizione tra cristianesimo e islam, data la generale visione negativa che in Grecia si ha del periodo ottomano, e dati i buoni rapporti diplomatici tra Italia e Grecia – , un po’ dimentichi del secolare odio che i greci nutrivano verso i latini (cioè i cattolici), la dominazione veneziana viene vista sotto una luce favorevole, ma in realtà anche i veneziani si comportarono spesso in maniera non troppo limpida, dato che ad esempio Creta – dominio veneziano dal 1211 al 1669 – si rese protagonista di numerose rivolte contro la Repubblica (ispirate da nobili ma su base popolare, la più importante delle quali fu quella del 1363-1366), mentre a Cipro, durante la conquista ottomana dell’isola nel 1570-1571, i veneziani fecero una crudele spedizione punitiva contro un villaggio che aveva accolto festante l’arrivo turco, uccidendone tutti gli abitanti e radendolo al suolo.
Influsso linguistico
L’influsso del veneto sui dialetti neogreci delle aree che hanno conosciuto la dominazione della Serenissima varia in base al dialetto (ed è spesso legato al lessico della nautica), ma in molti casi è stato fortissimo: basti pensare ad esempio che nel 1938 il linguista e filologo Henry R. Kahane (1907-1992) raccolse, nei dialetti delle Isole Ionie (che hanno fatto parte di Venezia sino alla caduta della Repubblica nel 1797), circa 5000 tra italianismi e venetismi. E’ stata da parte sua una stima parziale, visto che poi l’indagine linguistica dovette essere interrotta a causa dello scoppio della guerra. Questi termini, comunque, sono oggi in gran parte obsoleti.
Molti venetismi – o parole greche che presentano influenze venete – di sicura (o molto probabile) provenienza sono entrati nello stesso neogreco standard. Tra quelli ancora presenti possiamo ricordare:
αβαράρω (avaràro) = varare (naut.) (cfr. ven. avarar); βελούδο (velùdho) = velluto (cfr. ven. veludo, termine che già era entrato in età bizantina); καδένα (cadhèna) = catena (naut.); catena dell’orologio (cfr. ven. cadena); καμινάδα (caminàdha) = canna fumaria (cfr. ven. caminada); καρέκλα (carècla) = sedia (cfr. veneto carèga, a loro volta dal greco antico καθέδρα); κατσαρόλα (catsaròla) = casseruola (cfr. ven. cazzaròla); κονσεγιέρης (consejèris) = consigliere (cfr. ven. consegier); λαμαρίνα (lamarìna) = lamiera; latta (cfr. ven. lamarin); λα(γ)ούτο (lagùto – laùto) = liuto (cfr. ven. laùto); μαϊνάρω (mainàro) = ammainare (naut.) (cfr. ven. mainar); μαραγκός (marangòs) = falegname (cfr. ven. marangon); (μ)περγαντί (bergandì – pergandì) = brigantino (cfr. ven. bergantin); μπάρμπας (bàrbas) = zio (solo nella lingua popolare); appellativo dato a persone anziane (cfr. ven. bàrba [zio]); παστιτσάδα (pastitsàdha) = pasticcio (cfr. ven. pastizzada); περούκα (perùca) = parrucca (cfr. ven. peruca); πομάδα (pomàdha) = pomata (cfr. ven. pomada).
Inoltre, da segnalare l’origine veneta del suffisso neogreco -άδα (-àdha; cfr. ven. -àda), corrispondente all’italiano -ata: ad es. πορτοκαλάδα, aranciata (portocalàdha).
Bibliografia
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Una fra le tante accuse che non molti anni or sono si facevano alle parlate dialettali da parte della cultura ufficiale era quella che il dialetto, e nel nostro caso il dialetto veneto, essendo essenzialmente lingua parlata più che scritta, mancava soprattutto di una chiara e definitiva codificazione grammaticale, con regole precise cui riferirsi senza tema di sbagliare.
A parte il fatto che non si può ignorare che è l’uso che fa la grammatica e non viceversa, l’osservazione aveva un suo chiaro intento svalutativo, mirando più che altro allo scopo di privilegiare la lingua nazionale, cioè l’ italiano, declassando il dialetto a lingua di seconda serie, poco articolata, povera di lessico, carente di sintassi, ristretta a ben circoscritte aree rurali o, al massimo, a poche zone depresse di sottocultura cittadina.
Il rinnovato interesse per la storia, le tradizioni, la vita semplice e spontanea del nostro passato più o meno recente ha portato finalmente l’attenzione dei linguisti sul fenomeno dei linguaggi popolari, suscitando tutta una serie di ricerche locali, indagini, nuovi studi anche a carattere specialistico o universitario. Assistiamo così da una ventina d’anni e più a questa parte ad una impegnata ed incisiva opera di recupero del dialetto, riconosciuto come una realtà socio-culturale ancora straordinariamente diffusa tra le nostre popolazioni in maggioranza parlanti il dialetto come prima lingua, una realtà che è tuttavia viva e operante a tutti i livelli, nonostante le passate campagne denigratorie e i continui insediamenti di nuclei familiari provenienti da altre regioni linguistiche. Ne è ulteriore conferma il fatto che fra dialettofoni, a sfatare una volta per tutte le dicerie che il dialetto restringe le possibilità di una articolata e moderna comunicazione verbale e scritta, si parla indifferentemente e tranquillamente di tutto, di politica e di religione, di arte e di scienze, di sport e di lavoro, di argomenti privati e pubblici, di avvenimenti della cronaca sia locale che nazionale e mondiale. Il che dimostra che il dialetto è una lingua come tutte le altre, completa e sufficiente.
Oggi, del resto, si riconosce senza difficoltà che la stessa lingua italiana altro non è che un dialetto neolatino (toscano-fiorentino) assurto a lingua nazionale per ragioni geografiche, storiche, politiche ed artistiche particolari. Come non pensare che diverse vicende avrebbero favorito magari altri dialetti, come ad esempio il siciliano, il napoletano e, perché no, il nostro veneto?
Queste osservazioni non mirano a levare meriti all’italiano che è, e resta, la lingua nazionale e veicolare di base per tutti gli abitanti della nostra penisola, ma intendono soltanto far notare che anche i linguaggi cosiddetti “minori”, i “dialetti”, hanno una loro precisa collocazione storica, una loro dignità e validità intrinseca, pur restando diffusi in aree circoscritte e più limitate.
Se è giusto e indispensabile parlare italiano ad esempio tra un “emittente” veneto e un “ricevente” abruzzese, non essendoci altro modo per “trasmettere” e “ricevere” messaggi in uno stesso “codice”, come direbbe, col suo linguaggio specialistico, un moderno manuale di linguistica; se è auspicabile, e magari cortese, esprimersi in francese con un francese e in inglese con un inglese, conoscendo bene ovviamente le loro lingue, perché dovrebbe essere disdicevole e “volgare” parlare tranquillamente nel proprio dialetto per quelli che questo linguaggio hanno imparato a usare fin dalla nascita? È più naturale che due veneti amino dialogare in dialetto veneto, come due cinesi, pur trovandosi in Italia e nel Veneto, preferiranno parlarsi in cinese!
Lasciamo da parte, per carità, le questioni ideologiche e di campanile e facciamone semplicemente una questione di convenienza, di praticità, di competenza e, perché no, di libertà culturale e di democrazia espressiva. Ridotto il problema in questi termini, non ha più senso continuare a discutere sulle distinzioni tra “lingue” e “dialetti” e confrontare l’italiano col veneto per assegnare all’uno o all’altro la palma di chissà quale vittoria.
Terminata la trattazione sull’Etrusco ed accantonato a data da destinarsi il “progetto Miceneo” (che, comunque, abbiamo deciso di riservare a it.cultura.classica, ove crediamo possa essere maggiormente “di casa”), proseguiamo con le lingue dell’Italia antica. Ci spostiamo stavolta piu’ a nord per occuparci degli antichi Veneti, della loro civilta’ e della loro lingua, collazionando un po’ di materiale reperito qua e la’; mi sia permesso di dedicare questo lavoro a tutti i frequentatori del NG provenienti dal Veneto o comunque di origine veneta.
1.1 / Chi erano i Veneti?
L’ “ethnicum” dei Veneti (<enetoí>, <ouénetoi>, ) è presente nella tradizione allo scopo di individuare popolazioni stanziate in svariate aree del mondo antico, dall’Asia Minore (i Veneti “troiani”), alla penisola balcanica (gli Eneti illirici), dall’Europa settentrionale e centrale (, , , distinti dai Sarmati; in Bretagna), alla regione laziale (i sono ricordati da Plinio come uno dei popoli laziali scomparsi ai suoi tempi). Come e’ possibile osservare, tale “ethnicum” è presente in aree diverse e lontane le une dalle altre; e la cosa ha una sua precisa ragione di essere.
La questione dell’amplissima diffusione del termine “Veneti” è stata affrontata dagli studiosi solo su base linguistica, mancando l’apporto della documentazione storico-archeologica: Giacomo Devoto, ad esempio, osservava che l’etnico <*wenet-> “non può identificarsi che con la base dei “conquistatori, organizzatori, realizzatori” e che “dovunque si trova attestata la parola “Veneti”, ivi si sono affermati rappresentanti di una organizzazione di tradizione linguistica indoeuropea, meritevole di essere definita e riconosciuta in confronto delle altre come quella sostanzialmente dei vittoriosi”.
A. L. Prosdocimi, nel tentativo di definire che cosa rappresenti l’etichetta “Veneti,” precisa che il termine è sinonimo di Indoeuropei e che, nella fattispecie, “i Veneti del Veneto rappresentano un filone di Indoeuropei il cui etnico era appunto o era avviato a divenirlo”. Mentre gli altri Veneti menzionati dalle fonti letterarie non risultano ancorati a nessuna realtà storico-culturale, solamente per i Veneti dell’Adriatico si è andata creando una sorta di mitistoria, cui corrisponde una ricchissima documentazione archeologica, supportata dalla conoscenza seppur parziale della lingua e della scrittura.
2. Le origini dei Veneti
Gli autori antichi concordano nell’attestare una provenienza orientale dei Veneti. L’origine orientale, o più specificamente troiana dei Veneti prende le mosse da un passo dell’Iliade (Il. II, 851-852), in cui il poeta ricorda, tra gli alleati dei Troiani, un gruppo di Paflagoni, guidati da Pilemene, dal forte cuore, che vengono dagli Eneti, il paese detto “delle mule selvagge”:
Paphlagonôn d’hégeito Pylaimenéos lásion kêr ex Enetôn, hóthen hemionôn génos agroteráon
“Guidava i Paflagoni Pilemene, cuore maschio, dalla regione degli Eneti, dov’è la razza delle mule selvagge”
Qualunque sia la corretta interpretazione del termine (o nome di popolo, o nome di città), è indubbio che a questo luogo omerico faccia riferimento tutta la tradizione classica, greca e latina, che fa provenire i Veneti dall’Asia Minore, nella fattispecie dalla Paflagonia, regione che si snoda lungo le sponde meridionali del Mar Nero. In tale direzione si susseguono le notizie negli autori antichi, dai greci Euripide e Teopompo, ai latini Catone e Cornelio Nepote, informazioni che trovano una codificazione in età augustea (27 a. C.-14 d. C.).
2.1 I Veneti nella tradizione letteraria latina
Tito Livio e Virgilio, “voci ufficiali” del nuovo regime instaurato da Ottaviano Augusto, ricollegano i Veneti ad Antenore, eroe scampato alla distruzione di Troia e mitico fondatore di Padova. Tito Livio racconta che morto Pilemene a Troia, gli Eneti, già cacciati dalla Paflagonia, senza una patria e una guida, si rivolsero ad Antenore (Liv. I, 2-3): “con un gruppo di Eneti, … Antenore pervenne nella parte più interna dell’Adriatico, e cacciati gli Euganei, che abitavano fra il mare e le Alpi, gli Eneti e i Troiani occuparono quelle terre… L’intera gente prese il nome di Veneti”. Nell’Eneide virgiliana (Virg. Aeneidos. I, 242-249), Venere, angosciata per il lungo peregrinare del figlio Enea, contrappone a quest’ultimo la felice sorte di Antenore che, sfuggito dalle mani degli Achei, si addentrò nei golfi dell’Illiria, si spinse nel regno dei Liburni e, superata la fonte del Timavo, fondò in quelle terre la città di Padova e stabilì la sede dei Troiani. L’affiancare Antenore, nel suo viaggio verso Occidente, ad Enea , illustre esule troiano e leggendario fondatore di Roma, tradisce l’intento propagandistico di voler legittimare anche su base, per così dire, mitistorica, quella secolare “amicitia” fra i due popoli, Veneti e Romani, documentata dalle fonti antiche quantomeno a partire dalla guerra gallica del 225-222 a. C., in cui, secondo Polibio, i Veneti avrebbero scelto di stare dalla parte dei Romani (Pol. II, 23, 2-3: “Veneti e Cenomani, cui i Romani avevano inviato un’ambasceria, preferirono allearsi con quest’ultimi; perciò i re dei Celti furono costretti a lasciare una parte delle loro forze a difendere il paese dalla minaccia costituita da costoro”; lo stesso Polibio (II, 18, 2-3) ricorda il precedente aiuto fornito dai Veneti ai Romani in occasione del sacco di Roma del 390 a. C.: [i Celti…] “presero la stessa Roma, tranne il Campidoglio… avendo i Veneti invaso il loro territorio, conclusero un trattato con i Romani, restituirono loro la città e ritornarono in patria”. Tale notizia è stata interpretata da alcuni studiosi come una proiezione nel passato dell’allenza veneto-romana del 225 a. C.
Plinio il Vecchio, che scrive nel primo secolo d. C., si richiama a Catone, autore vissuto tra III e II secolo a. C., per qualificare i Veneti di “stirpe troiana” (Plin. Nat. Hist. III, 130: ). Risulta significativo che Plinio citi Catone, un autore alquanto antico, piuttosto che Virgilio o Livio, letterati vissuti nel I secolo a. C., che, nel clima di esaltazione politica e di propaganda della grandezza di Roma, promossa dall’imperatore Augusto, fanno provenire i Veneti dalla Paflagonia dopo la distruzione di Troia: in tale scelta si potrebbe ravvisare la volontà di Plinio di dare maggiore spessore storico alla sua definizione, ignorando volutamente la propaganda corrente a lui ben nota. Sebbene in un passato nemmeno tanto lontano la tendenza della critica fosse quella di cancellare secoli di tradizioni connesse all’origine dei popoli italici, tacciandole frutto di favole e di leggende, allo stato attuale della ricerca si assiste ad un interessante recupero delle tradizioni antiche e della mitologia. Nella fattispecie, la ricca documentazione archeologica pertinente alla civiltà dei Veneti, letta e valutata nell’ambito di quella vasta e fitta rete di scambi che contraddistingue le vicende del Mediterraneo dagli inizi del mondo greco, conferisce valore al mito.
Il Veneto, fin dagli albori della sua storia, si è sempre rivelato una terra di passaggio, di scambi (si pensi al commercio dell’ambra, dei metalli, delsale, del vino, della ceramica di provenienza attica), di accoglienza, e di commistione di civiltà, fra l’Egeo e l’Europa centrale, fra il mondo dei Greci e la civiltà etrusca, fra i Celti ed i Romani.
3. La civiltà Atestina, la cultura paleoveneta, i Veneti
3.1 I reperti della “civiltà Atestina”
Nel 1876, presso la stazione ferroviaria dell’odierna cittadina di Este, nel corso di lavori agricoli emersero due tombe di cremati, dotate di un ricchissimo corredo di vasi fittili e bronzei (fra i materiali vanno senz’altro segnalati due splendidi vasi di bronzo decorati con animali fantastici e figure umane). L’allora Conservatore del piccolo Museo estense, Alessandro Prosdocimi, diede il via ad una serie di campagne di scavo che, fra il 1876 e il 1882, portarono alla luce centinaia di sepolture: i ricchissimi materiali rinvenuti in quei contesti sepolcrali costituiscono ancor’oggi la maggior parte del patrimonio archeologico della protostoria Atestina. Nel 1882 lo stesso Prosdocimi pubblicò nelle Notizie degli Scavi un ampio articolo in cui, dopo sei anni di incessanti indagini di scavo e clamorose scoperte, tracciò il quadro di una nuova civiltà: la civiltà Veneta preromana poteva dirsi uscita dal mondo dell’intuizione e dell’erudizione leggendaria, per entrare a pieno titolo nella vasta problematica della protostoria italiana ed europea.
A partire dai primi anni del Novecento, grazie a nuove scoperte, gli studiosi appurarono che la cosiddetta civiltà Atestina, definità così da Prosdocimi dal nome antico di Este (lat. ), non era limitata al centro estense, bensì risultava attestata in un ambito geografico particolarmente vasto, esteso a occidente fino al lago di Garda e al fiume Mincio, a mezzogiorno fino al fiume Po, a settentrione fino al crinale alpino e ad oriente fino al Livenza e al Tagliamento e anche oltre, fino alla necropoli di S. Lucia di Tolmino, scoperta alla fine dell’800 dal noto Carlo Marchesetti.
A questa cultura, contraddistinta da caratteri peculiari, venne attribuito il nome di paleoveneta, meno restrittivo di Atestina, e al popolo la denominazione di Paleoveneti, per non creare equivoci con i Veneti moderni. Tuttavia, allo stato attuale della ricerca, sembra più corretto recuperare la storicità del nome “Veneti”, ben documentato nelle fonti letterarie.
3.2 Il “topos” dei cavalli veneti
Il poeta greco Alcmane, vissuto alla metà del VII secolo a. C., ricorda “un cavallo vigoroso corsiero […] enetico” e dei “puledri enetidi […] dalla Enetide, regione dell’Adriatico” (Alcman. fr. 1, 46-51; 172 = Voltan 4-5). Alcmane, che si ricollega ad Omero quando definisce la terra di origine degli Eneti “il paese delle mule selvagge”, è il primo autore a menzionare quello che diventerà il “topos” dei cavalli veneti e che avrà un largo seguito presso i successivi autori greci e latini.
Il frequente ricorrere nelle fonti antiche di questo tema sottintende un’attività economica, quella dell’allevamento equino, particolarmente apprezzata dai contemporanei; attività che da semplice fonte economica primaria divenne, nel corso del tempo, fonte competitiva di ricchezza nell’ambito degli scambi e delle relazioni commerciali fra Europa e Italia. Per citare un esempio, in seguito alla conclusione delle guerre istriche, il “regulus” dei Galli transalpini Cincibilo, assieme a Carni, Giapidi ed Istri, inviò, nel 171 a. C, un’ambasceria a Roma per lamentarsi del console Caio Cassio Longino, che aveva intrapreso, di sua iniziativa, una spedizione per raggiungere la Macedonia via terra, e che, dopo aver ottenuto la loro collaborazione (probabilmente in base ai patti esistenti), li aveva trattati come nemici (“pro hostibus”), saccheggiando i loro territori.
Anche in questa occasione, il Senato deprecò il comportamento del console, che fu richiamato a Roma, e inviò ambasciatori al di là delle Alpi con doni per i “reguli”, in modo da ristabilire le buone relazioni. In occasione della medesima ambasceria a Roma, i notabili gallici chiesero il permesso ai Romani di acquistare dai Veneti fino ad un massimo di dieci cavalli di razza a testa e di esportarli nel Norico (corrispondente grosso modo all’odierna Austria).
4. Il panorama archeologico e le indicazioni culturali
4.1. Introduzione
Fin dai primi anni del Novecento, importanti scoperte archeologiche, unite a rinvenimenti occasionali, contribuirono a delineare la fisionomia del Veneto protostorico: la realtà preromana di Padova, che solo in questi ultimi decenni è stata realmente compresa; la necropoli di Montebelluna, terzo polo geografico dei Veneti ; le tombe di Mel, lungo la valle del Piave; il luogo di culto di Lagole di Calalzo (che ha rivelato una documentazione linguistica analoga a quella rinvenuta alla fine dell’800 oltralpe, a Gurina, al di là del passo di Monte Croce Carnico, nella valle della Gail); il Veneto orientale con i centri di Altino, Oderzo, Concordia, fino ai territori compresi fra il Tagliamento e l’Isonzo.
4.2. Prima Età del ferro (VIII-VI secolo a.C.)
A partire dall’VIII secolo a. C. compaiono i caratteri di una poleografia organizzata, con centri di pianura di primaria importanza, posti al controllo dei principali fiumi del territorio (dall’Adige al Tagliamento), uniti a centri comprimari o minori, situati presso i medesimi corsi d’acqua. Un aspetto da segnalare è lo stretto rapporto delle città venete con l’acqua, ben rilevato dalle fonti antiche. Strabone qualifica i centri veneti come “città simili ad isole”, circondate dall’acqua e poste su importanti vie di transito. Anche le necropoli, situate esternamente ai centri urbani, risultano essere spesso dislocate in aree attigue all’acqua: anzi talvolta sono proprio i corsi d’acqua a marcare il confine fra la città dei vivi e quella dei morti, corsi d’acqua che devono essere attraversati nell’ultimo viaggio dal mondo terreno all’aldilà.
Nell’VIII secolo a. C., quando al popolamento sparso e diffuso tipico del IX secolo subentra la nascita di nuovi centri, che sorgono in aree nuove o con uno spostamento areale rispetto ai precedenti, i poli del nuovo sistema sono i centri di Este e Padova (Veneto euganeo); la loro centralità nell’ambito del panorama italico ed europeo sembra aver determinato la crisi del Veneto orientale, che risulta invece caratterizzato, nel passaggio fra la fine del bronzo-inizio ferro, da una generalizzata continuità di occupazione e da una decisa vitalità, quale area di raccordo fra il comparto circumadriatico e la fascia alpina e transalpina. Dalla metà dell’VIII secolo inizia a manifestarsi un’articolazione in classi, distinte in base al rango e al ruolo: i corredi funerari risultano contraddistinti da una diversa qualità e quantità dei materiali. Nel VI secolo a. C. si registrano delle trasformazioni nel quadro degli insediamenti, che sfociano in una fase decisamente urbana. Nascono nuovi poli d’attrazione, quali Vicenza, a cui si connette il ripopolamento delle colline circostanti, Altino, Adria.
4.3. Seconda Eta’ del ferro (V-II secolo a.C.)
Nella seconda età del ferro, se da un lato si realizza la massima espansione territoriale dei Veneti, dall’altro comincia a verificarsi una certa dissoluzione legata alla pressione esercitata da altre realtà etnico-culturali, quali gli Etuschi padani, i Celti, i Reti. Indizi primari del passaggio alla fase urbana sono la trasformazione dell’edilizia domestica (le capanne vengono sostituite da strutture in muratura), il cambiamento del rituale funerario (si accentua il rituale del simposio-banchetto, mutuato dall’ambito greco-etrusco), l’attestazione di luoghi di culto (eco della religiosità pubblica della civiltà etrusca fra VII-VI secolo a. C.), spesso ubicati presso corsi d’acqua e-o direttrici commerciali, la nascita del concetto di confine, la diffusione della scrittura. Alle importazioni ceramiche (ceramica attica e-o etrusco-padana; precoci materiali di matrice celtica o cetizzante, quali fibule di tipo tardohalstattiano centroccidentale e ganci traforati) si affianca una produzione locale di imitazione (ad esempio la ceramica fine da mensa in argilla semidepurata e grigia).
4.4. L’arte delle “situle”
Le “situle” sono vasi di bronzo a forma di secchio, attestati anche nel mondo orientale e centroeuropeo, che i Veneti producono largamente e sono soliti decorare con motivi geometrici e figurati. La provenienza di questi manufatti è prevalentemente funeraria, in quanto essi venivano usati come recipienti per contenere i resti della cremazione dei defunti. Questi vasi bronzei venivano lavorati con la tecnica dello sbalzo, o a stampo o a incisioni: nella fase più antica la decorazione fu esclusivamente geometrica, successivamente figurata (ad esempio nella nota situla Benvenuti, rinvenuta nella necropoli nord ad Este e datata alla fine del VII secolo a. C., sono rappresentati uomini intenti in varie attività della vita quotidiana, animali reali, esseri fantastici, fiori e virgulti).
4.5 Gli ex voto
Gli ex voto, connessi ai luoghi di culto, possono rivelare dei caratteri comuni, ma possono anche manifestare delle diversità, delle specifiche diversità da centro a centro. Nella fattispecie gli ex voto (prevalentemente di bronzo) e alcune caratterische cultuali evidenziano una netta dicotomia fra l’area sud-occidentale (che gravita sul territorio di pertinenza atestina) e l’area nord-orientale (di pertinenza patavina).
Caratteristica dell’area di gravitazione altinate è la presenza di una forte componente femminile, contraddistinta, ad esempio, dalla divinità Pora-Reitia, dalle immagini e dalle dediche femminili, dai doni legati alla filatura-tessitura e dai riti di passaggio che coinvolgono le giovani fanciulle (ad esempio quello della scrittura). Tipica dell’area soggetta all’influenza patavina è l’assenza di immagini femminili e la preminenza di dediche e offerte maschili. Di raccordo appare l’area altinate-trevigiana.
4.6 Il costume dei Veneti dalla documentazione figurata
E’ soprattutto dalla documentazione iconografica di natura cultuale (bronzetti e oggetti ex voto), attestata a partire dal V secolo a. C., che si ricavano informazioni utili circa il costume degli antichi Veneti. Complessivamente si può affermare che il costume veneto doveva differenziarsi, oltre che nei colori e nei modelli degli abiti, anche nelle guarnizioni, nel numero e nel tipo dei monili e nella foggia della cintura. Il costume non mutava solamente in base al tipo di occasione pubblica in cui veniva indossato, ma anche secondo lo status sociale che era in grado di qualificare. Al riguardo è stata formulata l’ipotesi che l’atto del vestirsi doveva essere non una semplice scelta privata, bensì doveva corrispondere ad un sistema di comunicazione sociale.
5. Lingua e scrittura. Fonti epigrafiche.
5.1. La lingua Venetica
L’identità etnico-culturale dei Veneti è contraddistinta, oltre che dalle espressioni di cultura materiale, anche da una lingua comune, definita “Venetico” (qui la denominazione di “Veneto” avrebbe effettivamente potuto ingenerare confusione con gli odierni dialetti Veneti).
Il venetico risulta attestato nel Veneto centrale e meridionale (Este, Padova, Vicenza, Adria); nell’area dolomitica cadorina (Lagole di Calalzo, Belluno); nella valle della Gail (Würmlach, Gurina); nel Veneto orientale (Montebelluna, Altino, Oderzo); man mano che ci si muove verso Est, le testimonianze, seppur presenti, si fanno sporadiche (allo stato attuale della ricerca nell’area friulana si contano circa una ventina di iscrizioni).
5.1.1 La classificazione linguistica del Venetico e la scrittura
Se il riconoscimento del venetico come una lingua appartenente al ceppo indoeuropeo è stato un dato acquisito fin dagli inizi degli studi linguistici, meno univoca è stata la classificazione di questa lingua: da ultimo, in base alle recenti acquisizioni, è stata riconosciuta una rilevante affinità del venetico con il latino. La documentazione della lingua venetica si deve esclusivamente alle iscrizioni (allo stato attuale delle conoscenze si possiedono oltre 400 testi). Esse sono redatte in un alfabeto di chiara derivazione etrusca, adattato alle esigenze fonologiche della lingua venetica: l’acquisizione dell’alfabeto etrusco è avvenuta in due fasi, una più antica (inizi del VI secolo a. C.) di matrice settentrionale (Chiusi), e una più recente (di poco posteriore) di matrice meridionale (Veio). Una caratteristica della scrittura venetica è l’uso della puntuazione, cioé di punti che, secondo regole complesse, precedono e seguono le lettere, quando queste si trovano in posizioni particolari. La puntuazione ha una funzione connessa all’insegnamento della scrittura, che pare basato sulla sillaba (proprio dalla città di Este provengono le testimonianze più complete di tutta l’Italia antica per quanto riguarda l’insegnamento della scrittura). La constatazione che le iscrizioni più antiche sono prive di puntuazione (la più antica iscrizione finora nota, databile al VI secolo a. C., il cosiddetto “Kantharos di Lozzo”, attesta una prima fase di scrittura senza puntuazione), e rivelano delle differenze nell’uso e nella forma di alcune lettere confermerebbe la tesi che i Veneti mutuarono per almeno due volte l’alfabeto dagli Etruschi, in tempi diversi e da aree geografiche diverse (Chiusi e Cerveteri o Veio). Altri aspetti notevoli sono la scrittura procedente da destra verso sinistra e le parole scritte tutte di seguito (“scriptio continua”), senza essere divise (la puntuazione, come si è accennato, non aveva una funzione divisoria).
5.1.2. Natura delle iscrizioni in Venetico
Circa l’ambito cronologico, le iscrizioni vanno dal VI secolo a. C. al periodo della romanizzazione. Per quanto riguarda i contenuti, si tratta -come e’ lecito attendersi- quasi esclusivamente di iscrizioni funerarie o votive, ad eccezione di alcune iscrizioni confinarie e pubbliche. I testi sono brevi e ripetitivi, in quanto redatti secondo stereotipi relativi a ciascuna classe testuale; a tale riguardo si veda cio’ che abbiamo detto nella trattazione sull’Etrusco. Ciò inevitabilmente condiziona la conoscenza del venetico: lessico e morfologia si conoscono in misura ristretta, mentre è noto un ampio repertorio onomastico, da cui si desumono interessanti informazioni di natura sociale ed istituzionale.
5.1.3 Onomastica
Di analoga derivazione etrusca è anche la formula onomastica binomia: essa in genere è caratterizzata da un nome individuale e un appositivo derivato dal nome del padre, con suffisso <-io> o <-ko>; per le donne il patronimico può essere sostituito dal gamonimico proveniente dal nome del marito con suffisso <-na>. Non mancano le attestazioni di una formula onomastica trinomia, che nel caso delle donne è stata spiegata con la presenza sia del patronimico che del gamonimico. Rimangono tuttoggi al vaglio degli studiosi alcuni aspetti del sistema onomastico venetico, soprattutto per quanto riguarda le implicazioni di natura giuridico-sociale.
6. Testi di iscrizioni in Venetico
6.1. Introduzione
Presentiamo qui i testi di alcune iscrizioni in lingua Venetica, da Este e dalla zona del Cadore. I testi sono riportati senza puntazione e con le parole separate; ad ogni testo segue una traduzione letterale italiana ed un breve commento linguistico per le parole piu’ importanti.
6.2. Iscrizioni Atestine
a) il “Kantharos di Lozzo”
Alkom nometlon S’ikos Enogenes vilkenis horvionte donasan “Sikos e Enogenes donarono devotamente alle divinita’ (questo) cantaro [….]”
Emergono gia’ da questa prima iscrizioni i caratteri perfettamente indoeuropei del Venetico: il nominativo singolare maschile in < -s> e l’accusativo singolare in < -m/-n>, la presenza delle declinazioni con vocale tematica (< Sik-o-s>, , < alk-o-m>, < nometl-o-n >, il dativo plurale in < -is > (< vilken-is >). Evidente il parallelismo con il latino. Attestato il verbo del “donare”, il piu’ frequente nelle iscrizioni venetiche; a differenza del latino, pero’, il Venetico presenta regolarmente forme di perfetto (aoristo?) sigmatico caratterizzato dal morfema < -s- > anche nella prima coniugazione: < donasan > (lat. < donaverunt >, ma cfr. i perfetti sigmatici come < scrip-s-i >, < *dic-s-i>: ). Qui il Venetico presenta una decisa isoglossa con gli aoristi sigmatici greci del tipo < é-ly-s-a >.
b) “ovoide” di calcare
ego Vhontei Ersinioi vineti karos vivoi oli alekve murtuvoi atisteit “io (fui) caro al veneto Vonts Ersinios da vivo ed a lui stetti davanti […] da morto”
Da notare la perfetta identita’ del pronome personale < ego > con l’analoga forma latina; il Venetico, pero’, presenta l’ampliamento in gutturale sonora anche negli altri casi della declinazione: acc. < mego > “me, mi”, confrontabile direttamente con il greco < emé-ge > (nom. < égoge >) e soprattutto con il germanico <*mik >, tedesco mod. . Da questa iscrizioni appaiono testimoniate numerose forme di dativo, sia dei temi vocalici (< Ersini-o-i >, < viv-o-i >, < murtuv-o-i >), sia consonantici (< Vhont-ei >; tutte forme perfettamente corrispondenti a quelle latine arcaiche (per < Ersinioi > si potrebbe citare il celebre < Numasioi > della “Fibula prenestina”, se non fosse per il non trascurabile particolare che la fibula e’ quasi sicuramente un falso; per < Vhontei > si confronti una forma come < regei >, attestata piu’ volte). L’interessantissimo < oli > “a lui, gli” e’ il dativo singolare del pronome corrispondente al latino < ille >, arcaico < olle >. L’iscrizione ci attesta anche il nome etnico dei Veneti; da notare anche la forma verbale < atisteit >, corrispondente in tutto e per tutto al latino < adstiti > (< *ad-steti >).
c) Situla bronzea sepolcrale
ego Nerkai Trostiiai “io (sono di) Nerka Trostia”
Attestazione di genitivo singolare femminile di temi in -a-: < Nerk-a-i Trostii-a-i >, ancora una volta perfettamente corrispondente a quello latino arcaico in < -ai > ( < rex Albai Longai > ancora in Virgilio, come voluto arcaismo), poi passato al classico < -ae >.
6.3 Iscrizioni cadorine
Da Lagole di Calalzo: iscrizioni votive a Trumusiate Sainate su manici di simpulo e altri oggetti
a) Surus Resunkos donasto Trumusiatin “Suros Resunkos donò a Trumusiate” b) Votos Naisonkos donasto Tribusiatin “Votos Naisonkos donò a Trumusiate”
Due iscrizioni stereotipate analoghe che ci attestano la terza persona singolare del perfetto (aoristo?) munita del morfema sigmatico gia’ visto in < donasan > e della desinenza < -to >, probabilmente di origine e valore di medio (cfr. le forme medie greche come aor. < etheásato >, impf. < enomízeto >). Il dativo singolare e’ munito di una < -n> di funzione non chiara (forse simile al “ny efelcistico” greco?).
c) Oppos Aplisikos doto donom Trumusiiatei “Oppos Aplisikos diede (come) dono a Trumusiate” d) Klutavikos doto donom S’ainatei “Klutavikos diede (come) dono a Sainate”
Formule del tutto analoghe alle precedenti, ma attestanti il perfetto (aoristo?) atematico del verbo del “dare”: < do-to>. Il latino, come e’ noto, presenta qui un perfetto con raddoppiamento ( ), mentre il greco < dídomi > ha forme di aoristo atematico solo nelle persone plurali ( < é-do-men >, < é-do-te >); nelle persone singolari, invece, e’ presente un’ampliamento in < -k- > ( <é-do-k-a > ecc.) di origine sicuramente molto antica e gia’ attestato nel miceneo ( < do-ke > ).
A parte la forma di perfetto atematico < doto > gia’ vista nelle iscrizioni precedenti, qui e’ interessante la forma del pronome personale di 1a persona, < eik >, che appare con un dittongo e priva della < -o > finale. Si tratta di un’iscrizione piu’ recente, che ci attesta una forma molto vicina al germanico < *ik >, ted. moderno < ich >, olandese < ik >. Si noti il nome della divinità, < Loudera >, dal palese significato di “Libera” e molto vicina a quella che deve essere stata la forma originaria indoeuropea LEUDHEROS / LOUDHEROS (latino < liber >, greco < e-léutheros >).
7. Precoci rapporti fra Veneti e Celti
Proprio dall’onomastica Venetica emergono indizi non solo dei precoci rapporti fra i due popoli, ma anche dell’inserimento dei Celti nell’ambito della società veneta. Da segnalare una serie di ciottoloni iscritti, rinvenuti a Padova, i quali hanno consentito di ricostruire una sorta di prosopografia che ci illumina sulle modalità dell’integrazione. Altro caso interessante è quello di Este, dove dai documenti epigrafici risultano attestati dei sistemi onomastici di donne venete con gamonimico (nome del marito) celtico, e di donne celte con gamonimico veneto; si ebbero dunque frequenti matrimoni misti. L’elemento celtico risulta particolarmente documentato in località quali Oderzo, Altino e la valle del Piave.
8. Il passaggio dei Veneti alla romanità
8.1 Aspetti storico-archeologici
I Veneti, i cui contatti con i Romani risultano documentati quantomeno a partire dalla fine del terzo secolo, furono sempre in buoni rapporti con Roma, e questo risulta in modo esplicito dalle fonti letterarie che li citano come alleati dell’Urbe nei più importanti eventi bellici del tempo (ricordiamo che Polibio fa entrare i Veneti nella storia di Roma in occasione del “tumultus Gallicus” del 390 a. C.: i Galli Senoni, guidati da Brenno, avrebbero desistito dall’assedio dell’Urbe in quanto minacciati dai Veneti nelle loro sedi padane). Nel catalogo polibiano dei “milites” messi a disposizione dei Romani dagli alleati alla vigilia della guerra gallica del 225-222 a. C., i Veneti compaiono con un contingente di circa 10.000 uomini. Durante la “Bellum Hannibalicum” (218-201 a. C.), Asconio Pediano, un veneto dell’aristocrazia di Patavium (Padova), si distinse nelle operazioni condotte da Marco Claudio Marcello sotto le mura di Nola, durante l’assedio cartaginese della città. Nella guerra sociale (o “bellum Sabellicum”), i Veneti rimasero a fianco dei Romani, come risulta da alcune interessanti testimonianze epigrafiche.
Una doppia serie di ghiande missili, con iscrizione, rispettivamente, venetica e romana (<opitergin(orum)>, degli Opitergini) fu scagliata da un reparto di frombolieri () provenienti da Oderzo (, toponimo formato chiaramente con la diffusissima radice celtica del “mercato”, <*terg->, presente anche in ) durante l’assedio di Asculum (Ascoli Piceno). Un altro genere di proiettile, una sorta di campana di piombo con due iscrizioni venetiche, fu lanciata da un , probabilmente di Ateste (Este), contro qualche reparto di insorti presso Montemanicola (L’Aquila), nel territorio degli antichi Vestini.
Quando Roma, dunque, diede il via al processo di espansione nella valle Padana, nell’ultimo venticinquennio del III secolo a. C., i Veneti, accomunati dalla comune politica antigallica, non ostacolorano tale avanzata, e, in seguito alla riconquista della Cisalpina dopo il passaggio di Annibale, non subirono confische o fondazioni di colonie, ad eccezione di un settore collocato ai loro confini orientali, che, dopo aver subito nel 186 a. C. un’occupazione da parte di 12.000 Galli Transalpini, ed essere divenuto , fu, dopo la loro espulsione, ridotto ad e destinato all’impianto della colonia di diritto latino di Aquileia (181 a. C.).
La fondazione di Aquileia, la presenza di Marco Emilio Lepido a Padova per dirimere dei conflitti interni, i cippi confinari fra Este-Padova e tra Este-Vicenza, che documentano un concetto prettamente romano di controllo del territorio, la costruzione nel 148 a. C. della via Postumia , la grande arteria padana che metteva in collegamento Genova ad Aquileia, sancirono via via la fine dell’autonomia e dell’indipendenza dei Veneti, pur nel nome dell’amicizia con il popolo romano (come risulta ad esempio attestato dalla stele di Ostiala Gallenia, moglie veneta di un romano). La realizzazione di un’importante rete viaria facilitò la creazione di intensi rapporti fra l’Italia centrale e le regioni a nord del Po, la cui ricchezza e fertilità, ben decandate da autori antichi quali Catone e Polibio, attrassero cittadini romani e alleati latini e italici.
Questa immigrazione spontanea favorì in modo lento e graduale l’acculturazione romana. Tale fenomeno procedette in modo pacifico e “indolore” tanto che pian piano i Veneti abbandonarono le loro tradizioni politiche, economiche, artistiche e religiose in favore della cultura romana. Un notevole impulso al processo di romanizzazione venne dal provvedimento attribuito a Pompeo Strabone, noto come (legge Pompea sui Transpadani), con cui gli abitanti dei territori a nord del Po ricevettero lo , ossia il diritto latino. Un ulteriore passo verso la piena romanizzazione fu compiuto fra il 49 e il 42 a. C., quando a tutto il territorio fra le Alpi e il Po fu estesa la cittadinanza romana.
8.2 Aspetti linguistici
Anche dal punto di vista linguistico il passaggio dal venetico al latino fu lento e graduale. Un elemento che presumibilmente favorì questo trapasso fu, come abbiamo gia’ visto, la stretta somiglianza della lingua Venetica con quella latina, che doveva suonare all’orecchio dei Veneti niente affatto estranea: il Venetico infatti presenta a tutti i livelli (fonetica, morfologia, lessico) notevolissime affinità con il latino (ciò ha portato a formulare l’ipotesi che in un’epoca molto antica, precedente agli stanziamenti nelle rispettive sedi storiche, i due popoli fossero insediati in aree vicine e parlassero due lingue molto simili, quasi due dialetti della stessa lingua. Dato che l’area preistorica dei Protolatini e’ stata con sufficiente certezza individuata nelle selve della Turingia, e’ presumibile che anche i Protoveneti fossero stanziati non lontano, dopo la diaspora indoeuropea).
Sono ancora una volta i documenti epigrafici a consentirci di osservare questo passaggio dal Venetico al latino: in una prima fase assistiamo all’abbandono dell’alfabeto Venetico, mentre la lingua può dirsi ancora Venetica; si ha quindi un Venetico seriore scritto con l’alfabeto propriamente latino. Segue l’abbandono della formula onomastica locale per l’adozione del sistema onomastico romano dei “tria nomina” (prenome, gentilizio, cognome); infine vengono abbandonati gli idionimi propriamente venetici, che talvolta, pero’, sopravvivono nella forma di cognome. Ad esempio, nel santuario di Lagole nel Cadore le dediche alla divinità encoria vengono gradualmente sostituite con le dediche ad Apollo.
Ancora, il trapasso alla romanizzazione si può seguire da vicino negli epitafi delle necropoli di Ateste (Este): da una fase di piena veneticità, caratterizzata da una scrittura, lingua, formulario e onomastica venetici, si passa, attraverso fasi intermedie in cui coesistono moduli dell’una e dell’altra cultura (alfabeto latino con formulario venetico; alfabeto e formulario latini con onomastica venetica), ad una fase in cui si accetta totalmente il modello portato dai Romani negli epitafi che sono ormai latini (solamente il permanere di basi onomastiche locali tradisce il legame con la tradizione degli antichi Veneti.
9. Conclusioni
L’antica civilta’ Veneta presenta dunque in ogni suo aspetto caratteri di indoeuropeicità, a partire dalla lingua. Purtroppo, come nel caso dell’Etrusco, le testimonianze, seppur relativamente numerose, sono quasi totalmente univoche e non possono fornire altro che un’idea, anche se piuttosto chiara, delle sue caratteristiche.
Quale che ne sia il motivo storico, il Venetico, come abbiamo visto, e’ assai simile al latino. Anzi, per molti versi il Venetico e’ l’antica lingua italica (escluse quelle facenti parte dell’area latina propriamente detta, come ad esempio il Falisco) piu’ simile al latino, ben piu’, ad esempio, di lingue geograficamente piu’ vicine come i dialetti sabellici (Osco e Umbro in primis). I dialetti sabellici, pur pienamente indoeuropei, appartengono ad un ceppo forse non originariamente legato a quello latino; se non fosse per l’onomastica, invece, alcune iscrizioni in Venetico potrebbero essere tranquillamente prese per testimonianze di una qualche forma di latino arcaico (certo con qualche decisa particolarita’).
Su tutto questo agiscono le influenze piu’ o meno marcate dell’unico popolo italico sicuramente non di origine indoeuropea (gli Etruschi), seppur pienamente inserito nella realta’ culturale “italica”; ma se e’ vero che anche i Veneti hanno ricevuto la scrittura dagli Etruschi (e la diffusione dell’alfabeto greco occidentale e’ forse il maggior contributo culturale degli Etruschi all’antico Occidente), le iscrizioni in Venetico non attestano nessun prestito, diretto o indiretto, dall’Etrusco. Da quel poco che ne sappiamo, il Venetico presenta un carattere maggiormente “autoctono” di quello del latino, dove i prestiti, sia Etruschi che sabellici, si sono fatti strada fin dai primordi.
Un altro apporto da non trascurare, sia linguistico che culturale, e’ quello celtico. Per quanto riguarda gli aspetti linguistici, abbiamo visto che esso si limita esclusivamente all’onomastica (anche se certamente non e’ da escludere che qualche termine celtico, come l’onnipresente <*tergium>, sia passato nel Venetico); e’ necessario anche tener conto che gli antichi dialetti celtici continentali non dovettero essere grandemente dissimili sia dal latino che dalle altre lingue italiche, tanto che, per un po’, si e’ parlato addirittura di un gruppo “italo-celtico”. Certo, vedendo l’aspetto delle attuali lingue celtiche insulari questo non si direbbe…ma questo e’ ovviamente un altro discorso.
Per concludere, il Venetico e’ stata comunque una realta’ linguistica ben definita e testimoniata. Scomparso come tutte le altre lingue italiche “inghiottite” dal latino e dalla romanita’, deve essere comunque rimasto come sostrato sul latino importato in quelle regioni e, in ultima analisi, deve aver contribuito indirettamente anche ai peculiari caratteri di quello che viene chiamato il “latino aquileiese”.
Sempre, quando si parla di antiche popolazioni, ci troviamo di fronte ad una serie di dati e documenti che dobbiamo trattare con attenzione ed intelligenza. Importante anche conoscere sia gli uni sia gli altri, sapendo che nel primo caso veniamo a conoscere quello che “si raccontava”, “si tramandava”, “si credeva”; nel secondo caso invece possiamo disporre d’informazioni vere, reali, concrete. Anche nel caso dei veneti disponiamo d’informazioni certe e di conoscenze incerte. Vediamo allora di illustrare con ordine le une e le altre, iniziando da quelle meno sicure. Per ricostruire le origini della popolazione veneta dobbiamo intanto immaginare un mondo, naturalmente molto diverso dal nostro attuale, nel quale gli uomini erano un po’ come… le api. Quando in un alveare si trovano insieme due api regine, una delle due spicca il volo seguita da una parte delle api e se ne va in un altro luogo: nasce un nuovo alveare, vale a dire un nuovo ” popolo”. Questo succedeva piuttosto di frequente anche tra gli uomini del tempo nel quale possiamo collocare l’origine dei Veneti.
Un gruppo di famiglie, una tribù, un nucleo di popolazione partiva dal luogo nel quale abitava e compiva un viaggio avventuroso, fino a giungere in una località dove poteva fissare la propria nuova dimora. Anche i Veneti furono una popolazione migrante.
Tutti gli antichi autori concordano nel ritenere che questo popolo, chiamato Veneti dai Romani e Heneti dai Greci sia giunto in questo territorio provenendo dal medio oriente.
Si narra che veniva dalla Paflagonia, una regione dell’Asia Minore (attuale Turchia) compresa tra la Bitinia ed il Mar Nero.
Come mai essi lasciarono il loro territorio d’origine? Ebbene, questo non possiamo saperlo con precisione. Probabilmente a causa di una sedizione un forte numero di Veneti, guidato dal re Pilemene, fuggì alla ricerca di nuovi territori nei quali potersi insediare.
Proprio in quegli anni però infuriava la guerra di Troia. Tito Livio racconta che essi giunsero nella zona in cui si combatteva la guerra e si schierarono a fianco dei Troiani, i quali ormai furono sconfitti. Allora vari gruppi Troiani e i Veneti superstiti fuggirono, guidati dal principe troiano Antenore. Superato con una flotta il mare Egeo, risalirono l’Adriatico fino a gettare le ancore in un punto della costa a nord delle foci del Po e dell’Adige. I Veneti trovarono che la regione ove il destino li aveva condotti era assai accogliente; decisero così di fissarvi le proprie dimore in modo stabile e definitivo.
I Veneti si sono stabiliti in un territorio molto esteso che corrisponde all’incirca alle attuali Tre Venezie: Trentino-Alto-Adige, Veneto, Friuli-Venezia-Giulia. È un territorio molto ampio che ha un paesaggio geografico molto vario. A nord ci sono le Alpi. La catena alpina, con le alte cime ed i ghiacciai, sembra invalicabile ma, tra le sue valli e suoi passi, nasconde antiche “piste” che seguono il corso dei fiumi, conosciute e percorse già prima dell’arrivo dei Veneti. Risalendo il corso del fiume Adige, i Veneti potevano arrivare al Valico del Brennero e al Passo di Resia. Risalendo il corso del Piave potevano arrivare alle miniere di stagno. Al centro di questo ampio territorio si estende la pianura ricca di fiumi. Ci sono l’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento e il Po, fiumi lunghi e ricchi di acque che scendono dalle Alpi, e il Sile che ha origine dalle risorgive cioè sorgenti da cui l’acqua esce spontaneamente dal terreno. La pianura è divisa, dalla linea delle acque di risorgiva, in alta pianura, quella più vicina ai monti, ghiaiosa ed asciutta, e in bassa pianura con il terreno ricco di acque ed argilloso. Il paesaggio dell’alta pianura era ricco di foreste con alberi maestosi e centenari, tra cui le querce, gli olmi e i faggi. A sud questa regione si affaccia al mare con la laguna, gli isolotti, le paludi e i canneti. È quasi certo che i Veneti antichi si sono insediati in questo territorio perché era un territorio molto fertile. Era ricco d’acqua, era pianeggiante e aveva molti passaggi tra le montagne che i Veneti potevano usare, se volevano raggiungere luoghi lontani, per scambiare i loro prodotti con gli altri popoli. La civiltà dei Veneti antichi durò circa mille anni. Iniziò tra il X e il IX secolo a.C. (=avanti Cristo) e terminò nel II secolo a.C. quando avvenne la romanizzazione, cioè quando i Veneti diventarono simili ai Romani per lingua, costumi e abitudini. La civiltà dei Veneti fu scoperta nel 1876 durante i lavori di scavo per la costruzione della stazione ferroviaria di Este (Padova).
I veneti usavano deporre le tombe dei loro morti all’esterno delle aree abitate, come fu regola quasi generale del mondo antico. I gruppi di tombe erano dapprima radi e distanti tra loro perché corrispondevano a diversi gruppi di capanne. Con il passare del tempo e con l’aumento del numero degli abitanti, le tombe s’infittirono costituendo delle vere e proprie necropoli (“città dei morti”) che contornavano o si affiancavano ai centri che si erano formati per l’aggregarsi di diversi nuclei di abitazioni. In alcuni casi pare di poter distinguere più necropoli, corrispondenti forse a diversi “quartieri”. Il tipo e la struttura delle tombe variano nel tempo e presentano caratteristiche diverse da luogo a luogo, anche in rapporto ai diversi materiali usati per la loro costruzione.
Le tombe più antiche erano deposte in una semplice buca scavata nel terreno.
Dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. i resti del defunto e i materiali di corredo furono deposti, perché fossero più protetti, in cassette di lastre di pietra.
Dal VI secolo a.C. all’uso delle cassette di pietra si affianca quello di cassette di tavole lignee o di grandi vasi di terracotta (“dolii”). Continua sempre in ogni caso, anche se diviene via via più raro, l’uso delle semplici buche, generalmente per sepolture più modeste.
All’esterno la presenza delle tombe doveva essere “segnalata” in vario modo: da piccoli tumuli di terreno, da ciottoloni, da massi di pietrame e, dal VI secolo a.C. in poi, da segnacoli di pietra con il nome del defunto, riservati forse alle tombe più importanti. Non si può escludere che venissero anche usati dei segnacoli di legno o d’altro materiale deperibile di cui quindi non è rimasta traccia. Le tombe più antiche contenevano in genere i resti di un solo defunto; gruppi di tombe singole, molto vicine tra loro o contenenti materiali molto simili, dovevano corrispondere a diversi raggruppamenti familiari. In seguito le cassette contengono molto frequentemente più ossuari, certo pertinenti a persone della stessa famiglia, deposte in momenti successivi. In genere il numero degli ossuari sembra corrispondere ad un nucleo familiare ristretto, composto cioè dai genitori e dai figli. A partire dal III secolo a.C. ad Este le cassette vennero talvolta ampliate nella loro struttura con la aggiunta di nuove lastre per accogliere defunti di più generazioni, costituendo così delle vere e proprie tombe di famiglia, come è evidente anche dalle iscrizioni che compaiono sugli ossuari, con gli stessi nomi familiari.
RELIGIONE
I Veneti antichi consideravano gli elementi naturali come elementi sacri.
Uno di questi elementi era l’acqua. Era considerata sacra ed era usata come oggetto di culto, infatti attorno ai santuari (=templi) c’era spesso un corso d’acqua.
Un altro elemento sacro erano le piante. I Veneti antichi credevano che le piante fossero abitate da divinità protettrici del luogo. I Veneti adoravano più di una divinità, tra queste la principale era Reitia, chiamata anche Pora.
Reitia era la divinità portatrice di salute, signora della natura, protettrice delle nascite e dea della fertilità, per questo era venerata soprattutto dalle donne.
La dea Reitia è sempre rappresentata come una donna vestita con il tipico costume veneto: lo scialle, un’ampia gonna, gli stivali; in mano tiene la chiave per aprire la porta della vita nell’aldilà. Accanto a lei si trovano sempre rappresentati animali e piante.
I Veneti avevano costruito luoghi di culto (=luoghi dove andare a pregare) e santuari (=templi dedicati alle divinità), sparsi in tutto il territorio da loro abitato. Sia i luoghi di culto che i santuari erano sempre all’aperto, in ampi prati oppure nei boschi sacri. Essi erano sempre situati all’esterno delle zone abitate, vicino ai corsi d’acqua, a piccoli laghetti, alle fonti o alle sorgenti dei fiumi. Là i Veneti antichi andavano a compiere riti e a offrire doni per chiedere la protezione degli dei.
Il culto dei morti
I Veneti antichi credevano nella vita dopo la morte perciò, quando seppellivano il defunto, mettevano nella tomba anche il corredo funerario (=oggetti personali appartenuti al defunto). Inoltre, durante la sepoltura, praticavano il rito del banchetto funebre, cioè offrivano alle divinità cibi e bevande.
In tutta la regione abitata dai Veneti antichi, gli archeologi hanno trovato molte necropoli (=città dei morti). Le necropoli erano fuori delle città, verso la campagna, ecco perché si sono conservate così a lungo, mentre le città sono state demolite e ricostruite. I Veneti antichi praticavano il rito della cremazione, cioè i corpi dei defunti venivano bruciati, facendo in modo che il corpo fosse tenuto lontano dal rogo.
Le ceneri e i resti del defunto venivano poi raccolti in vasi ossuari (=vasi per i resti del defunto) che venivano deposti, insieme agli oggetti personali appartenuti al defunto, in tombe nelle necropoli, cioè gli antichi cimiteri. Solamente le persone più importanti venivano sepolte nelle tombe. Il corredo funerario era stato deposto in un grande sarcofago in pietra rosa con il tetto a due spioventi. Sulla stoffa, che un tempo avvolgeva la situla, erano fissati degli oggetti di abbigliamento: una collana di ambra, oro, argento e perle di pasta vitrea, fibule d’argento rivestite d’oro, orecchini e anelli. Appoggiato ad una grande situla c’era un ventaglio.
Nella tomba c’erano anche oggetti che ricordano le attività di allora.
C’era una attrezzatura completa per il focolare composta da alari, spiedi, paletta, colino, coltello; una attrezzatura completa per la filatura e la tessitura composta dal telaio con il suo sedile, fuso, conocchia, spolette, rocchetti, fusaiole, scatolette per il filo; infine c’era un corredo da banchetto con gli oggetti in bronzo e in ceramica.
LA CULTURA
Tutti i gruppi umani sono dotati di cultura. Cultura è il patrimonio spirituale e materiale di un gruppo umano e comprende sia le conoscenze che le credenze e le fantasie, i simboli e le idee, il modo di affrontare la realtà.
La cultura di un popolo è l’insieme dei modi secondo i quali esso risolve i problemi dell’esistenza sfruttando tutto ciò di cui può disporre:
– il sistema per produrre i beni necessari alla vita;
– il sistema sul quale si basa l’organizzazione sociale e politica;
– le concezioni, le credenze, i riti magici o religiosi;
– le manifestazioni artistiche.
Nel ricostruire la civiltà e la cultura venete, si è fatto e si farà riferimento ai reperti archeologici ritrovati in tante località del territorio regionale.
La famiglia
La famiglia veneta era la base fondamentale dell’ intera organizzazione sociale.La struttura familiare era rigida e protetta da regole ferree.
Il capo – famiglia deteneva l’autorità sui membri del nucleo familiare; tutti dovevano obbedienza e rispetto.
La donna aveva un ruolo fondamentale, con dignità ed autorità quasi pari a quelle del marito. Le donne si mostravano in pubblico di rado, forse solamente in occasione tradizionali che segnano la vita di una comunità: le nascite, i matrimoni, la sepoltura dei morti.
Tutti i componenti il nucleo familiare partecipavano alle occupazioni quotidiane per procurarsi ed assicurarsi il cibo e i materiali necessari: l’allevamento del bestiame, la coltura degli orti, la caccia e la pesca, la tessitura, la lavorazione del cuoio e delle pelli, la raccolta e la lavorazione del legno. Allo stesso modo la famiglia si procurava il nutrimento, gli abiti, il fuoco, l’abitazione.
I giovani apprendevano i mestieri, le tecniche di uso comune, i metodi di coltivazione della terra.
Le ragazze, invece, imparavano a filare le lane, a tessere tele, a lavorare le pelli di animali.
LA MONETA
L’ adozione della moneta da parte delle genti paleovenete è fenomeno tardo e certamente non legato allo sviluppo del commercio, come recenti ricerche stanno cercando di sottolineare anche alla luce di analoghe esperienze in altre
civiltà del mondo antico.
Tuttavia anche nella civiltà atestina sono documentate forme di scambio premonetale, strumenti di misura del valore degli oggetti e delle prestazioni d’opera, e mezzi di accumulo di ricchezza. Prima, per commerciare, si usavano denti di cinghiale, conchiglie e altri oggetti che rappresentavano le prime testimonianze di una riserva di valore e simboli di ricchezza e prestigio personale.
Una successiva forma di scambio e misura di valore è rappresentata da l’aes rude: piccoli frammenti di pani o verghe di bronzo fuso, che si rinvengono con una certa frequenza in tombe di Este, Padova, Adria.Questi pezzi di bronzo, però, erano presenti solo nelle tombe femminili e sono stati interpretati come “oboli” per il pagamento nell’aldilà. Nel ? secolo a.C. comparve la moneta vera e propria, emessa su modello di quella presente in tutta l’Italia settentrionale ed imitante il tipo della dracma della colonia Greca di Massaia (attuale città della Francia). A tali monete si è dato il nome di venetiche. La loro diffusione ebbe come centri Padova ed Este e si suppone che questi siano stati anche i luoghi di produzione. Si tratta di monete di argento del peso di circa 2,70- 2,80 grammi e rappresentano al dritto il volto di una divinità femminile, interpretata come la dea Reita con i caratteristici boccoli, l’orecchino e l’occhio circolare di prospetto, mentre al rovescio appare un leone fortemente disorganico, con artigli e lunga lingua.
LE ABITAZIONI
Le case di pianura venivano costruite con materiale leggero, deperibile, come paglia, legno, argilla e fango. Per il pavimento stendevano uno strato di argilla cruda pressata, mentre per le pareti utilizzavano un’intelaiatura con pali di legno che sostenevano un graticcio di canne, il tutto rivestito ancora di argilla e fango.
Alla base delle pareti realizzavano spesso un cordolo in pietre o grossi ciottoli per isolare i muri dall’umidità.
In collina, per esempio nella zona del vicentino (Trissino, Montebello, Santorso, Montecchio), si cercava di scegliere i luoghi maggiormente adatti. Si preferivano così pianure o gradoni naturali, esposti a sud per ricevere luce e calore per molte ore al giorno. Scavando in parte le sponde dei pendii potevano realizzare delle case seminterrate.
In alcuni casi le case erano anche dei laboratori dove si svolgevano le attività artigianali.
Le piccole stanze erano destinate, oltre che a camera da letto, anche a dispense per i cibi, a granai, a depositi per gli attrezzi, perfino a ricovero per animali. Il cuore di ogni casa era il focolare, attorno al quale si raccoglieva tutta la famiglia. Era realizzato con una spalmatura di argilla su una stesura di frammenti ceramici e ciottoli che servivano ad isolare e mantenere il calore.
Solitamente le case erano di forma rettangolare e divise all’interno per separare la zona dove si dormiva da quella dove si conservava il cibo, si cucinava, si mangiava e si incontravano parenti ed amici.
Le case non erano comunque molto grandi, anche perché molte delle loro attività venivano svolte all’aperto.
LA SCRITTURA
La lingua dei Veneti antichi si chiama Venetico. La lingua venetica è “parente” del latino dal quale deriva la nostra lingua italiana. I Veneti impararono la scrittura dagli Etruschi. I Veneti imparavano a leggere e a scrivere nei santuari.
Forse, i Veneti che imparavano a leggere e a scrivere avevano anche i libri per “studiare”: le tavolette alfabetiche in metallo nelle quali erano incise le vocali e le consonanti dell’alfabeto.
La scrittura venetica procedeva da destra a sinistra e le parole non erano divise ma scritte tutte di seguito. C’erano anche dei punti che però non servivano da pause, ma erano utilizzati per dividere le sillabe. Questo modo di scrivere, senza separare le parole, viene chiamato dagli esperti “scriptio continua”.
La loro penna era uno stilo appuntito nella parte inferiore, mentre nella parte superiore aveva una specie di “spatolina” che funzionava da gomma per cancellare; il loro quaderno era una tavoletta ricoperta di cera.
Le scritte in venetico si trovano nei reperti ritrovati nelle tombe o nei santuari; tutte le iscrizioni sono votive, cioè con la dedica agli dèi.
Il reperto che testimonia l’arrivo della scrittura nel Veneto è una coppa in bronzo con un’iscrizione dedicata alle divinità, realizzata nel VI secolo avanti Cristo.
Le fonti scritte sugli antichi Veneti, per lo più di scrittori greci e latini, sono numerose, ma vanno confrontate con i dati archeologici perché le notizie hanno spesso carattere mitico e vanno usate con cautela. Omero, famoso scrittore greco, chiama gli abitanti della nostra regione Enetoi: i Latini, traducendo il termine greco, li dissero Veneti.
LE ATTIVITA’
L’agricoltura era alla base della loro economia: coltivavano grano, ma anche cereali per i pascoli. Nelle loro case di Montebello Vicentino e Trissino, si possono ancora trovare resti d’orzo, miglio, avena, frumento, lenticchie e fave. Molti di loro si dedicavano all’allevamento: bovini, caprini ed ovini. Ma soprattutto i veneti erano famosi in tutto il Mediterraneo per la loro fama di allevatori di cavalli, che venivano richiesti anche dalle altre popolazioni.
Alcuni preferivano specializzarsi nella lavorazione dei metalli. Nel Vicentino (Montebello, Santorso) avevano delle vere e proprie case laboratorio con focolari particolari per la fusione e la forgiatura.
Dalla fine del VII sec. hanno iniziato la produzione di oggetti in bronzo sbalzati e figurati come le lamine e le situle, ossia vasi in bronzo a forma di secchio.
Quest’artigianato di così alto livello
è chiamato dagli archeologi “Arte delle situle”
Le donne si dedicavano alle attività domestiche, come la tessitura e la filatura.
Il telaio era lo strumento utilizzato dalle donne per tessere: presso i Veneti era diffuso quello più semplice, quello verticale. Fili verticali venivano fissati alla parte superiore del telaio e venivano tenuti in tensione da pesi
(pesi da telaio, in terracotta) e costituivano l’ordito.
Con una spoletta, un arnese in osso o in legno, piatto o rotondo, si dividevano i fili dell’ordito facendo passare quelli orizzontali della trama.
L’ARTE
Dell’arte veneta conosciamo un aspetto in particolare, quella della
arte visiva, ossia della scultura e dell’incisione o sbalzo su metallo, delle forme fuse nel bronzo: è l’arte della figura.
Sappiamo con certezza che la musica trovava posto costante: sono eloquenti le immagini dei suonatori di siringa e di corno o del musico chino su uno strumento a plettro, riprodotto in una statuetta bronzea.
Il materiale più utilizzato dagli antichi artisti veneti fu il bronzo. Esso era lavorato in lamine di spessore adatto che venivano poi modellate ed unite tra loro a formare situle, coperchi, cinturoni,
foderi di pugnali e di spade.
Le lamine bronzee venivano lavorate a sbalzo; l’artista cioè, con attrezzi adatti (martelletti, stili, punteruoli), batteva la lamina al rovescio facendo sollevare al diritto le forme volute. Sul diritto si otteneva l’altorilievo e a questo punto rifiniva le figure.
La situla, simile al secchio, ricordava nella forma i vasi di popolazioni dell’Europa Centrale dell’Oriente. Elegantissime sono le immagini del mondo animale, che viene costantemente ed ampiamente rappresentato.
L’aspetto della decorazione, costituisce un altro elemento forte ed originale dell’arte venetica. Esso si esprime nelle figure animali che si susseguono nelle fasce delle situle, con chiaro intento ornativo.
Uomini, donne, animali, sono le immagini ricorrenti nelle opere venetiche. Gli uomini appaiono ritratti nel costume guerresco, vicino ai loro cavalli; le donne mostrano la loro eleganza e la tipicità del costume, segnato soprattutto dal cinturone, dallo scialle e dagli stivali svasati in alto.
Il realismo dell’arte venetica è tale da farci riconoscere i modi del vestire, le forme dei capi d’abbigliamento, le ragioni delle loro forme. Sono piacevoli ed interessanti le figure degli atleti in lotta, del venditore di vasi.
Il bronzo veniva lavorato anche nella forma della scultura ottenuta per fusione, del bronzetto. Anche nei bronzetti ricorrono ricorrono soggetti quali i guerrieri, sia a piedi che a cavallo, con le loro armi.
Non mancano poi le immagini della dea madre del popolo veneto, Reizia, raffigurata come una donna abbigliata nel tipico costume veneto, i capelli acconciati a coda di cavallo.
Un posto importante nell’arte veneta è rappresentato anche dalla pittura.
Sono giunti fino a noi vasi figurati e dipinti. Soprattutto nella zona di Padova, nel corso degli scavi archeologici, sono stati ritrovati diversi esemplari di questo tipo. I colori più usati erano quelli dell’ocra gialla e bruna, del rosso, del violetto, dell’azzurro.
L’ABBIGLIAMENTO
Il loro abbigliamento era assai curato e, per vari aspetti , originale e distinto sia rispetto allo abbigliamento in uso presso le popolazioni celtiche confinanti, sia a quello proprio dei Latini.
Le immagini più numerose ci mostrano soprattutto i personaggi importanti, i ricchi, i capi, i sacerdoti.
Essi sono abbigliati con un ampio mantello, ricco nella tessitura.
Portano sul capo un gran cappello, dalla tesa larga e rialzata sui bordi.
Il capo vestiario più originale dello abbigliamento femminile, era l’ampio e pesante scialle, una mantellina che scendeva fino alla schiena.
Aveva diverse forme:
quello semplice e comune per tutti i giorni ;
quello nero in segno di lutto;
quelli di seta trapuntata in fili d’oro e d’argento.
L’acconciatura degli uomini e delle donne.
Gli uomini veneti usavano… radere completamente il capo, mentre le donne li acconciavano.
Esse portavano sotto lo scialle i capelli sciolti oppure raccolti.
La tunica leggera era portata sia dagli uomini sia dalle donne sotto il manto.
La tunica delle donne:
essa era più curata, ornata in basso da una balza di colore. Era pieghettata. Sopra, sul davanti veniva indossato un grembiule.
Le calzature femminili:
erano stivali che arrivavano al ginocchio con il gambale che si allargava ad imbuto: erano particolarmente adatti a terreni fangosi e paludosi.
Il confezionamento:
gli abiti venivano confezionati con stoffe di grande pregio, prodotte dalle donne.
Le lane venivano lavorate in modo da ottenere un tessuto pesante detto ” GUSAPE”: con esso si producevano i mantelli, le coperte e i tappeti.
A Padova si producevano tessuti unici, ottenuti attraverso una triplice tessitura, perciò venivano chiamati ” TRILICI”. I mantelli erano confezionati con questo tipo di stoffa
Le persone importanti che li indossavano:
i mantelli dei sacerdoti o dei personaggi di più elevata condizione sociale, erano ricamati ai bordi (ad esempio signori, cavalieri, guerrieri).
Gli spilloni, usati per fermare i mantelli, erano di rame, a volte argentati o proprio d’argento.
I sacerdoti sono riconoscibili per la foggia dei loro copricapi, simili alle tiare orientali.
Il capo più comune negli uomini:
era il gonnellino corto e pieghettato.
L’abbigliamento femminile:
le donne si vestivano con cura ed eleganza; l’elemento più importante era costituito da un cinturone di cuoio, ornato con una placca di bronzo argentato, decorata con disegni di tipo geometrico o con simboli oppure con figure.
I gioielli femminili:
indossavano orecchini, collane, pendagli d’argento, dischi o cuori usati come spille e rivestiti d’oro, gli anelli e le perle.
Venivano usati materiali diversi e soprattutto l’osso, il corallo, il bronzo, la pasta di vetro colorata e l’ambra che era ricercatissima.
ORGANIZZAZIONE SOCIALE
La società degli antichi Veneti conosceva delle differenze anche notevoli tra individuo ed individuo, tra classe e classe.
La classe più modesta era quella dei servi, collocata al gradino più basso della scala sociale e rappresentata da individui scalzi con vesti semplicissime. La fascia centrale era composta da lavoratori che, in varie forme, potevano dirsi autonomi: artigiani, mercanti, agricoltori, cacciatori e pescatori; ad essi si aggiungevano i guerrieri.
Al vertice della scala sociale stavano quelli che possiamo definire i “SIGNORI”,i più ricchi tra i lavoratori o coloro che, nell’occasione di qualche guerra, avevano modo di salire ai massimi onori. Sempre alla classe superiore appartenevano i sacerdoti, i quali indossavano ricche vesti, forniti di copricapo e calzature.
Anche i cavalieri occupavano una posizione importante.
E’ probabile che i lavoratori fossero riuniti in associazioni ( corporazioni ), per i tipi di attività che richiedevano una più alta specializzazione.
Ugualmente uniti tra loro da interessi comuni erano i commercianti, che traevano forti guadagni dalla vendita di materiali e prodotti che godevano di maggiore apprezzamento da parte di altre popolazioni.
I guerrieri veneti erano armati in modo simile a quello dei guerrieri greci e troiani.
Il capo era protetto dall’elmo a calotta bassa, il busto era rivestito da una corazza di cuoio irrobustito con lamine bronzee; le gambe erano riparate da schinieri.
L’armamento era completato dallo scudo, rotondo come quello degli opliti greci, dalla spada e da una o due lance
con la punta a foglia di alloro.
I cavalieri montavano senza sella. Disponevano inoltre di cocchi da guerra trainati dai robusti cavalli veneti. Ogni villaggio era indipendente.
Il popolo veneto si univa mettendo insieme tutte le forze disponibili in caso di minaccia dall’esterno, di guerra.
In queste occasioni i vari villaggi erano collegati da un patto di reciproco aiuto che durava fino al cessare del pericolo.
In questi casi i centri abitati maggiori( Este, Padova ,Vicenza, Oderzo, Montebelluna ) facevano da punto di riferimento e di guida per i villaggi di minori dimensioni.
Anche per una popolazione tendenzialmente pacifica come quella veneta, la guerra e i guerrieri avevano ugualmente un posto centrale nell’organizzazione sociale. Ad essi era affidato un compito soprattutto difensivo, la protezione della vita e dei beni delle comunità confederate, la garanzia di sicurezza delle vie di comunicazione, il mantenimento delle condizioni di pace.
ALIMENTAZIONE
La raccolta di frutti spontanei, le prede catturate nella caccia e nella pesca, i prodotti ottenuti dalle coltivazioni agricole e quelle offerti dal bestiame allevato offrivano gli alimenti giornalmente consumati sulle mense venete.
Il latte doveva essere d’uso quotidiano, così come i cibi ottenuti dai cereali. Le farine ricavate erano impastate con acqua e, probabilmente, insaporite con sale raccolto lungo le coste adriatiche, e condite con olio. Le farine erano inoltre utilizzate per impastare delle pagnotte, focacce o anche delle specie di gnocchi o di bocconi.
La produzione di miele era abbondante; esso si usava in cucina per addolcire gli alimenti e gli impasti ottenuti dalle farine.
L’olio utilizzato per condire i diversi cibi era ricavato dalle piantagioni di lino, pianta coltivata in grande quantità.
Erano coltivati diversi tipi d’ortaggio, che entravano nella comune alimentazione veneta; loro davano particolare importanza ai fagioli, di piccole dimensioni e dalla superficie occhiellata.
Le carni facevano parte dei cibi in uso quotidiano, ma limitato ad occasioni di particolare solennità.
Il bestiame era allevato per ricavarne lana e latte o per uso alimentare. I prodotti ricavati dalla caccia, dalla pesca e dall’allevamento del maiale erano proprio destinati al consumo alimentare. Veniva consumata anche la carne equina, data la numerosa presenza di cavalli animali che popolavano le pianure allo stato brado.
È molto probabile che i dolci e gli altri cibi venissero arrostiti piuttosto che posti a lessare, infatti era più semplice collocare nel focolare delle pietre lisce e piatte, facendole arroventare per poi depositare su di esse e far arrostire i cibi preparati.
I ricchi e i poveri, nelle cene mangiavano un piatto di ghiozzi: pesci dal grosso capo e dal corpo molto spinoso, ma le cui carni sono saporitissime.
Il pesce di mare e di fiume era molto comune nella cucina veneta. Consumavano spesso e volentieri i molluschi: le COZZE, che per loro costituivano una raffinata pietanza.
Il VINO, detto in lingua greca ènos, non poteva mancare nelle tavole Paleovenete.
I vini prodotti nella regione veneta, divennero famosi presso i Romani e ricercati per il loro sapore.
Oltretutto la produzione e l’abbondanza dei vini in terra veneta è stata lasciata dallo storico greco Strabone.
Nelle zone lontane veniva lavorato il vino “retico”, lo preferiva e lo desiderava trovarlo sulla propria tavola la consorte dell’imperatore Augusto.
Nelle illustrazioni che adornano le anfore ed altri oggetti, molte scene rappresentano quanto volentieri e con quanta abbondanza il vino fosse consumato e com’esso fosse offerto all’ospite; i cibi ei vini erano poi offerti alle divinità nelle sacre cerimoniGli Heneti, Veneti o Paleoveneti o Venetici sono stati un antico popolo dell’Italia settentrionale; la loro area di insediamento compresa inizialmente nell’area del Lago di Garda e sui Colli Euganei, si diffuse successivamente a tutto il Veneto e a parte del Friuli-Venezia Giulia. I Paleoveneti parlavano una lingua, il Veneto o Venetico appartenente al gruppo delle Lingue italiche. Una leggenda racconta che verso il 1000 a.C. dopo la distruzione di Troia da parte dei Greci, i componenti di una tribù della Paflagonia (regione dell’Asia Minore sul Mar Nero), denominata Éneti, e guidati dal mitico fondatore di Padova, Antenore, siano approdati sulle coste adriatiche e vi si siano stabiliti integrandosi con gli Euganei che già vi vivevano. Spesso si pensa che abbiano la stessa origine dei Veneti della Gallia, citati da Cesare. Questa teoria si basa sulle somiglianze linguistiche presenti tra l’altro nell’onomastica, ma questi tratti comuni possono altresì essere spiegati con i legami di parentela esistenti tra le lingue celtiche e le lingue italiche. I dati linguistici esistenti non permettono di accettare alcuna ipotesi. I Paleoveneti si stanziarono dapprima in piccoli villaggi tra l’Adige e il Lago di Garda, ma anche nelle zone prealpine della Valbelluna, essendo allora la pianura ricoperta da boschi e zone paludose. Una delle maggiori necropoli paleoveneta perfettamente conservata si trova infatti a Mel tra Belluno e Feltre. I primi grossi centri si formarono verso l’VIII secolo a.C. e uno dei principali fu Este (anticamente Ateste), allora sulla rive dell’Adige. I Paleoveneti ebbero con Roma rapporti amichevoli e si giovarono dell’aiuto della città laziale per allontanare la minaccia costituita dall’invasione dei Galli: in cambio di protezione, permisero ai Romani di stabilirsi pacificamente nell’odierno Veneto, e in definitiva di colonizzarlo costruendo strade, ponti e villaggi.
“Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo poiché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli… Viva la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco!”
Daniele Manin
Manin alla presenza del popolo proclama la “Repubblica di San Marco”
Forse non tutti sanno che la Repubblica Veneta, dopo esser caduta nel 1797 per mano di Napoleone Bonaparte (“sarò un Attila per Venezia”), rinacque una seconda volta: era il 22 marzo 1848.
Come cita Wikipedia, “la Repubblica di San Marco fu uno Stato costituito a Venezia il 22 marzo del 1848 a seguito dell’insurrezione della città, che aveva avuto inizio il 17 marzo dello stesso anno, contro il governo austriaco. Ideatore della rivolta e figura chiave della Repubblica fu l’avvocato veneziano di origine ebraica Daniele Manin”.
Daniele Manin (1804-1857) avvocato e rivoluzionario
Assunse su di sé la responsabilità della guida della neonata Repubblica di San Marco, il 22 marzo 1848, e con un manipolo di altri intellettuali resse le difficilissime redini di un governo provvisorio e tenne testa a un impero, quello asburgico, con un esercito fatto di volontari veneziani e veneti, di dalmati, svizzeri, soldati pontifici e napoletani. Diciassette mesi che gli sconvolsero per sempre l’esistenza. Eppure Daniele Manin, nella sua vita, avrebbe probabilmente voluto solo fare l’avvocato e occuparsi dei suoi studi umanistici e di trattati legali.
Talento precocissimo, si iscrisse quattordicenne alla facoltà di Giurisprudenza a Padova e in tre anni, nel 1821, conseguì la laurea in legge, dovendo poi attendere l’età adeguata per avere l’abilitazione a esercitare la professione. Nell’attesa, non si perse certo d’animo: formatosi coi classici della letteratura e della filosofia nella vasta biblioteca della casa paterna in campo Sant’Agostin (dove era nato il 13 maggio 1804) Manin conosceva – oltre all’italiano – il francese, il tedesco, l’inglese, l’ebraico, il greco e il latino. La famiglia – lui era il terzogenito di Pietro Antonio e Anna Maria Bellotto – era di origine ebraica: il cognome originario, Fonseca (sebbene alcuni storici ritengano che fosse invece Medina) fu mutato in Manin in seguito a una conversione avvenuta al tempo dell’ultimo doge della Serenissima.
Com’era d’uso al tempo, i convertiti presero il nome del principe (sotto l’egida del loro padrino, in questo caso proprio un fratello del doge Ludovico Manin), ed è curioso che la “vergogna” maturata da un Manin con la capitolazione dello stato veneziano nel 1797 sia stata in qualche modo riscattata da una persona con lo stesso cognome, derivato direttamente dal primo. Grazie alle sue pubblicazioni, a diciannove anni fu eletto socio corrispondente dell’Ateneo Veneto, “pensatorio” cittadino che rivestì un ruolo determinante nella preparazione ai Moti Risorgimentali. Nel 1824 sposò Teresa Perissinotti, di famiglia aristocratica, che gli diede la figlia Emilia e il figlio Giorgio: quest’ultimo, dopo aver combattuto – sedicenne – nel 1848, partecipò alla spedizione dei Mille e fu ferito a Calatafimi. Rinchiuso il 18 gennaio 1848 con Niccolò Tommaseo nelle Prigioni Nuove divenute carcere politico, Daniele Manin fu liberato a furor di popolo il 17 marzo successivo, per proclamare la rinata Repubblica (ovviamente nella sua versione moderna) cinque giorni dopo: “Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo – disse quel giorno in Piazza San Marco – poiché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue, né di quello dei nostri fratelli… Viva la repubblica! Viva la libertà! Viva san Marco!”.
Eletto presidente, durante il lungo assedio diede prova d’intelligenza, coraggio e fermezza, anche dopo la decisione del 2 aprile 1849 di resistere “ad ogni costo” con l’assunzione per lui di “poteri illimitati”. Le cose non andarono come molti veneziani avevano sperato: costretto all’esilio dal ritorno degli austriaci, Manin visse a Parigi dando lezioni di lingua italiana, perdendo quasi subito la moglie Teresa e dì lì a poco la figlia, gravemente malata di epilessia.
Non rinunciò però al suo sogno di uno stato italiano: nel corso del 1852 incontrò il conte di Cavour, al quale lasciò intendere di poter abdicare alla sua posizione repubblicana in cambio di un impegno più marcato dei Savoia nella causa dell’Unità e dell’indipendenza italiana. Nel contempo si dissociò apertamente dalla “teoria del pugnale” mazziniana, ovvero la dottrina dell’assassinio politico, e prese le distanze anche dal federalismo antiunitario. Morì a Parigi il 22 settembre 1857, e le sue spoglie tornarono a Venezia – con quelle di moglie e figlia – il 22 marzo 1868. Dapprima il sarcofago fu ospitato tra le volte di San Marco; ma di fronte alle rimostranze degli ambienti clericali e dell’Accademia di belle arti, la giunta comunale fece costruire un mausoleo sul lato settentrionale della basilica, dove nel 1913 fu sepolto anche Giorgio.
di Alberto Toso Fei
fonte: il Gazzettino del 19/03/2018
Vi presentiamo di seguito alcuni testi in versione integrale e digitalizzata, i cui originali sono conservati presso la Biblioteca del Consiglio Regionale del Veneto:
Il vessillo sventolava sulla galea di Domenico II Contarini (1585-1675) centesimoquarto Doge della Repubblica Marciana dal 1659 al 1675, il quale riposa nella tomba di famiglia, a Venezia, nella chiesa di San Beneto (San Benedetto da Norcia)
È stata presentata in Consiglio regionale la “Bandiera Contarina“, riproduzione del vessillo marciano del Doge Domenico II Contarini, il cui originale è esposto nella sala delle bandiere nel Museo Correr a Venezia.
L’evento è stato introdotto dal Presidente del Consiglio regionale, Roberto Ciambetti, dall’assessore alla Cultura e Identità Veneta, Cristiano Corazzari, e dai consiglieri regionali Luciano Sandonà e Alessandro Montagnoli. «Nelle rievocazioni storiche in Veneto vediamo vessilli improbabili o ricostruzioni disparate della bandiera marciana», ha spiegato Palmerino Zoccatelli, presidente del comitato “Veneto indipendente”, promotore dell’iniziativa. «Rifacendoci invece alla bandiera storica di Domenico Contarini abbiamo voluto mettere a disposizione di tutti gli appassionati un vessillo autentico, particolarissimo per altro nella foggia e nell’apparato iconografico particolarmente ricco. È il più bel vessillo veneziano giunto fino a noi».
La bandiera “Contarina” è ricca di elementi e si distingue in maniera netta dalla bandiera tradizionale nota ai più, riportando chiari richiami alla mitologia veneziana, sin dalla citazione dell’arcangelo Gabriele e l’Annunciazione, i legami alla pietà popolare e alla fede religiosa della Serenissima, con le effigi dei Santi Domenico e Francesco, quest’ultimo tra i protettori della città lagunare, Sant’Antonio da Padova e l’evangelista Marco, nonché la Madonna del Rosario. La bandiera è accompagnata da un opuscolo che ne spiega la storia e fornisce chiavi di lettura e interpretazione della simbologia voluta dal Contarini. Il primo ad avere l’idea di riprodurre il vessillo dogale è stato Albano Tassani e la sua ricostruzione «ha richiesto anni di lavoro e uno studio approfondito con Olivierio Murro che ha provveduto a integrare e migliorare la parti lacunose del gonfalone originale».
Il disegnatore Oliviero Murru ha provveduto ad integrare e migliorare le parti lacunose del gonfalone o quelle divenute difficilmente leggibili a causa dell’usura del tessuto, ripristinando l’originario splendore dei colori, alterati o ossidati dal tempo (si pensi, a puro titolo di esempio, alla bianca Colomba dello Spirito Santo imbrunitasi fino a diventare nera nel drappo originale).
Il gonfalone originale, di recente restaurato, è attualmente conservato ed esposto al Civico Museo Correr di Venezia, dove abbraccia un’intera parete. In seta rossa, il drappo misura m. 6,50 in lunghezza; m. 3,20 in altezza; mentre ciascuna delle sei code è lunga m. 2,50.
Ecco di seguito un breve estratto dall’opuscolo che accompagna il progetto di rifacimento della “Bandiera Contarina” (leggibile integralmente in fondo alla pagina):
Il Leone marciano effigiato nel gonfalone Contarini è destrogiro, ovvero è rivolto a destra, in direzione del pennone navale o dell’asta che sorreggeva la bandiera (come più frequentemente avveniva) e col muso girato verso l’osservatore. Tre quarti dei Leoni marciani andanti muovono solitamente verso sinistra, sono cioè sinistrogiri. Perciò questo Leone andante o passante, costituisce anche in questo una rarità. La fiera presenta la coda ritta a forma di S, dunque come il Leone in maestà, a sottolineare la sacralità dell’emblema e la personificazione in esso della Serenissima Repubblica. Il Leone simboleggia infatti l’Evangelista San Marco e intende con ciò indicare che il vero capo dello Stato Veneto è San Marco, del quale e del Cristo, il Doge è soltanto il rappresentante terreno. Si ribadisce così la concezione classico-cristiana della derivazione da Dio della Regalità e di ogni legittima Autorità: “Non est potestas, nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt”, “Non v’è autorità (legittima) se non da Dio; e quelle che esistono, sono stabilite da Dio” (San Paolo, Lettera ai Romani 13, 1). I Re e le magistrature sono perciò soltanto i ministri e i luogotenenti terreni di Dio. Proprio a cagione di questa sacralità patria e religiosa, il Leone marciano è alato; il suo capo è attorniato da un nimbo o aureola d’oro, prerogativa questa dei Santi, simboleggiando San Marco, principale Patrono della Dominante. È raffigurato d’oro su campo rosso, seminato di fiammelle (e non di stelle) esse pure dorate, fiammelle che sono diretta emanazione della Colomba dello Spirito Santo, raffigurata al centro della bordura superiore della bandiera. Rosso e oro sono per eccellenza i colori della Regalità: si rammenti l’oro recato dai Re Magi (insieme all’incenso e alla mirra) a Gesù Cristo Bambino a Betlemme, nella festa dell’Epifania; e si ricordi altresì la tunica scarlatta e la corona di spine del Redentore durante la sua Passione. Il Leone fu assunto a sacro simbolo di San Marco, perché il suo Vangelo inizia con la predicazione di San Giovanni Battista nel deserto e con la sua chiamata alla conversione e alla penitenza, in preparazione della venuta del Cristo; il ruggito del Battista era simile, appunto, a quello di un Leone, Re del deserto. Leone che nella Sacra Scrittura è figura di Gesù Cristo, di cui il Battista è, appunto, il Precursore. Siamo in presenza di una bandiera di pace e di rappresentanza, come si evince sia dall’assenza di un Leone portaspada (ensifero) o portacroce, ch’erano tipici delle bandiere da combattimento; sia dalle fauci chiuse o semiaperte, senza intenti bellici o minacciosi.
La criniera è fiammiforme, secondo moduli ancora tardogotici, nonostante il contesto e l’ornato barocco dei fregi e dei ricami dorati, che impreziosiscono il vessillo; gli organi della riproduzione sono pudicamente non in vista (solo in Terraferma compaiono, di quando in quando, leoni sessuati, ma in questi casi il loro significato è più politico che religioso). Sotto la zampa anteriore sinistra il Leone regge un libro aperto, di colore argento e bordato d’oro, allusione sia al Vangelo di San Marco, sia all’apparizione dell’Angelo all’Evangelista, cui si rivolse con le celebri parole: Pax tibi, Marce, Evangelista mevs (Sia pace a Te, Marco, mio Evangelista). Secondo la Tradizione, infatti, un Angelo apparve a San Marco dopo che l’Evangelista aveva fatto naufragio nel Golfo di Venezia, da lui percorso in ragione del suo apostolato, pronunziando al suo indirizzo queste parole latine, finite poi sul vessillo e che costituivano anche la predizione che lì, a Venezia, un giorno avrebbero riposato le sue spoglie (“hic requiescet corpus tuum”, concludeva l’Angelo) come poi avvenne. Nell’828 infatti il corpo del Santo, sottratto alle profanazioni dei maomettani, che nel frattempo avevano occupato l’Egitto, veniva avventurosamente sottratto agl’infedeli e traslato via nave da Alessandria a Venezia, non senza prodigiosi eventi, dai marinai Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Le ali del Leone sono appunto quelle dell’Angelo, nell’episodio testé rievocato.
La lingua veneta arriva all’istituto Fogazzaro di Trissino (VI).
111 studenti delle medie sono infatti da oggi coinvolti nel progetto “Percorsi di lingua veneta”, per un totale di 7 lezioni. Alessandro Mocellin, direttore del dipartimento linguistico “Academia de la lingua veneta” e autore del testo pubblicato a Francoforte insieme a Horst Klein e Tilbert Stegmann, guiderà le cinque classi coinvolte nel percorso.
Ciascuna lezione durerà un’ora: «il progetto è partito grazie all’Amministrazione che ne ha riconosciuto l’importanza fin dall’inizio, credendoci e sostenendolo – spiega Mocellin -. Si partirà dallo studio generale delle origini e della diffusione lingua veneta per addentrarsi nell’esame dei suoni e nei confronti con l’italiano, il francese e il tedesco. I ragazzi scopriranno come la struttura della lingua veneta sia simile al francese per l’inversione del soggetto e del verbo nelle domande e nei verbi frasali, o come i suoni possano essere assimilati allo spagnolo. Per la prima volta potranno capire che quella lingua, che dall’ultima rilevazione Istat del 2007 è parlata al nord da 4 milioni di persone, è ricca di parole come ciao, gazzetta, arsenale che hanno assunto una risonanza internazionale». Durante l’ultimo incontro gli studenti si misureranno in traduzioni di testi come la “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948.
L’idea è partita dall’assessore all’identità veneta Gianpietro Ramina ed è stata prontamente accolta dalla scuola. «Si tratta di un progetto importante che ha l’obiettivo di far conoscere o ricordare la nostra storia – spiega il sindaco Davide Faccio -. La risposta che abbiamo ottenuto, partendo da un’iniziale adesione di due classi fino ad arrivare al coinvolgerne cinque, attesta che anche i cittadini ritengono il percorso intrapreso degno di nota. L’istituto, inserendo il programma nel Pof, ha riconosciuto il valore culturale della nostra tradizione linguistica».
BUON CAPODANNO VENETO A TUTTI!
Nell’epoca della Serenissima, il capodanno cadeva il 1° di marzo, tradizione che sembra discendere da un antico calendario che i Romani usavano prima di Giulio Cesare.
Nel tempo la festa del “Bati Marso” prevedeva di andare in giro per strade e piazze battendo su pentole, coperchi, e altri strumenti rumorosi, facendo confusione per far scappare l’inverno e propiziarsi la primavera nella quale si dava avvio ai lavori agricoli.
Luca Zaia
Presidente della Regione del Veneto
Lo sapevi che anche i Veneti hanno il loro Capodanno?
Fino al 1797, anno dell’invasione napoleonica, il Capodanno in Veneto si festeggiava, infatti, il 1° marzo, in linea con una tradizione molto più antica del calendario gregoriano – ovvero quella romana – più vicina al ciclo lunare e con dieci mesi anziché dodici.
Il termine “more veneto” (= secondo l’uso veneto, a modo veneto), che veniva abbreviato in m.v. accanto alla data utilizzata nei documenti e nelle annotazioni, indicava proprio il diverso uso secondo lo stile più diffuso dell’epoca, che era, appunto, l’attuale gregoriano, introdotto nel VI secolo da Papa Gregorio Magno.
L’usanza, di origini molto antiche, faceva sì che secondo tale sistema i mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre fossero effettivamente il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo mese dell’anno, come indicato dal nome.
L’uso di collocare l’inizio dell’anno in corrispondenza con l’inizio della bella stagione, del risveglio naturale della vita in primavera, era una pratica arcaica alquanto diffusa, che possiamo tuttora trovare anche nel calendario cinese.
Testimonianze odierne dell’antica tradizione del capodanno veneto si hanno ancora in diverse zone della pedemontana berica, dell’altopiano di Asiago e in varie feste locali del Trevigiano, del Padovano e del Bassanese, dove è celebrata come l’usanza del Bruza Marzo, del Bati Marzo o del ciamàr Marzo – ma anche del “Fora febraro” nell’alto Vicentino – simboleggiante il risveglio della nuova stagione.
1 marzo: perché festeggiare il cao de l’anno veneto
di Roberto Ciambetti
Presidente del Consiglio Regionale del Veneto
Buon Capodanno (more Veneto). Solo per comodità di calcolo, come oggi si usa per l’inizio della primavera metereologica, il 1 marzo fu fissato dalla Serenissima come Capodanno, o Cao de l’anno, in origine legato al 25 marzo, giorno della mitica fondazione di Venezia, festa legata ai riti propiziatori dell’equinozio e non casualmente riproposta nel culto cristiano dell’Annunciazione.
Non è una strampalata idea quella del rilanciare il Capodanno veneto, come a suo tempo chiesto da Bepin Segato e ripreso anche da Ettore Beggiato, anzi. l’uso antico di iniziare l’anno con l’avvio della primavera ha lasciato profonde tracce che ritroviamo nella nostra quotidianità. Ad esempio, Settembre, Ottobre, Novembre, Dicembre, sono il settimo, ottavo, nono e decimo mese dell’anno ponendo appunto marzo come inizio. Per gli astrologi il primo segno dell’anno è l’Ariete che inizia per l’appunto in marzo e la prima stagione è da sempre la Primavera, dal latino ‘primo’ cioè inizio, e ‘ver’ con radice indoeuropea che sta per splendente, ardente, immagine del sole che sorge ad oriente.
Nel folklore veneto ancora oggi le feste del Bater o Ciamar Marso tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo rammentano gli antichi riti con cui si aiutava la primavera a risvegliarsi e ritornare alla vita.
Radici etimologiche e culti radicati nel folklore popolare ci richiamano l’antica idea del sole che torna da Oriente a riscaldare la terra tema questo, per altro, all’origine di molti culti pagani legati appunto all’equinozio di primavera. Nella lingua Inglese la Pasqua è Easter, o in tedesco, Ostern e in entrambe i casi esiste il richiamo alla divinità anglosassone della primavera Ostara che in nella mitologia norvegese è chiamata Eostare, in inglese Eostre il cui animale sacro era la Lepre (oggi sostituito nella cultura inglese dal Coniglio). Il legame anche etimologico del nome di questa divinità con l’oriente da cui sorge il sole è evidente: est, etimologicamente, giunge dal latino ausos legato al greco eos, che significa aurora a cui dobbiamo, tra l’altro, il latrino aurum, oro, il colore dell’alba.
Nella cultura greca, il mito della primavera ci rimanda al ritorno di Persefone e ai riti Eleusini. In origine anche per i cristiani la Creazione veniva ricondotta ai riti equinoziali e ancora oggi la festa dell’Annunciazione coincide con l’Incarnazione di Cristo, come spiegò papa Benedetto XVI nell’Angelus del 25 marzo del 2007 “Quando la Vergine disse il suo “sì” all’annuncio dell’Angelo, Gesù fu concepito e con Lui incominciò la nuova era della storia”.
Riflettere sul capodanno veneto non è una bizzarria, ma il modo migliore, in un’epoca in cui il consumismo ci ha sottratto e stravolto molte delle nostre feste, per tornare a scoprire le nostre tradizioni e la nostra cultura. Bon anno, dunque, a tutti.
Immagine da “La chiamata di Marzo”, organizzata ogni
2 anni a Recoaro Terme (VI).
Scoppi col carburo! Usanza che si tiene
prevalentemente nella Valle dell’Agno
(alto Vicentino) in occasione della
tradizione del “Fora febraro”.
Secondo la tradizione veneta i festeggiamenti per il Capodanno del 1 Marzo non duravano soltanto un giorno, gli auguri si facevano gli ultimi tre giorni di febbraio, cioè gli ultimi giorni dell’anno e si estendevano sino al nono giorno di Marzo.
Vegnì fora zente, vegnì
vegnì in strada a far casoto,
a bàtare Marso co coerci, tece
e pignate!
A la Natura dovemo farghe corajo,
sigando e cantando,
par svejar fora i spiriti de la tera!
Vegnì fora tuti
bei e bruti.
Bati, bati Marso
che ‘l mato va descalso,
femo casoto fin che riva sera
e ciamemo co forsa ea Primavera!
Vegnì fora zente, vegnì fora!!!!
Capodanno veneto,
“bon ano a tuti”
di Ettore Beggiato – studioso di Storia Veneta
Il primo marzo è sempre stato considerato nella storia della Repubblica Veneta il capodanno veneto; nei documenti e nei libri di storia si trovano le date relative ai mesi di gennaio e febbraio seguite da “more veneto” per sottolineare questa peculiarità veneta: incominciando l’anno veneto il primo di marzo, gennaio e febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno passato. Il capodanno veneto originariamente era stato fissato al 25 marzo, giorno della fondazione di Venezia (421), per i credenti giorno dell’annunciazione del Signore, e, secondo una leggenda greca, giorno della creazione del mondo; in un secondo tempo fu anticipato al primo marzo per comodità di calcolo.
Emblematico quanto successe il 9 marzo 1510 nel luogo ove adesso sorge il Santuario della Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza (Tv), la Madonna apparve a un contadino del posto e gli disse “Bon dì e bon ano!”. Per la verità nelle tradizioni delle nostre comunità un ricordo del capodanno veneto ha continuato, magari inconsciamente, ad essere presente: pensiamo al “bati marso”, al “brusar marso”, ai botti prodotti spontaneamente con il carburo… Un altro tassello della nostra storia e della nostra identità che va valorizzato, anche per onorare il Serenissimo Bepin Segato che più di ogni altro si era impegnato per riproporre questa festa.
Recentemente è stato festeggiato in diverse città venete il capodanno cinese (è l’anno del Cane); l’ 11 febbraio gli amici tibetani hanno festeggiato il loro capodanno (Losar) e per tutti noi è stato un momento per ribadire la nostra solidarietà alla nazione del Tibet vergognosamente calpestata dalla Cina; il 21 marzo i curdi festeggeranno il loro capodanno (Newroz) e sarà l’occasione per tutti coloro che credono nel diritto dell’autodeterminazione per tutti i popoli per stringersi attorno al popolo curdo, il 14 aprile i bengalesi festeggeranno il loro capodanno; non parliamo poi delle ricorrenze e delle celebrazioni di altri popoli, di altre religioni (si pensi solo al Ramadan): ma nel Veneto del futuro ci sarà spazio anche per i Veneti?
Intanto “Viva San Marco!” per ricordare e festeggiare l’arrivo del nuovo anno veneto.
… e per finire una curiosità!
“Bon dì e Bon Ano”: quando la Madonna parlò in lingua veneta
Per chi non lo sapesse, durante il lungo periodo di prosperità della Repubblica Serenissima, il capodanno si celebrava il 1° di marzo, una consuetudine rimasta in vita fino all’invasione francese della terra veneta nel 1797 e tornata a rivivere oggi, in Veneto, grazie alla passione e all’impegno di molte associazioni culturali.
Una delle più significative testimonianze del Capodanno Veneto ci arriva non da qualche storico o amante della cultura veneta, ma da documenti ecclesiastici, narranti la vicenda accaduta al trevigiano Giovanni Cigana.
Giovanni era un contadino della Marca Trevigiana, più precisamente di Motta di Livenza e la vicenda di cui parliamo accadde il 9 marzo 1510. Uomo stimato e ben conosciuto nella zona, Giovanni all’epoca aveva 79 anni, “forte e robusto, padre di sei figli, cristiano tutto d’un pezzo” come lo ricordano le cronache del tempo.
Quella mattina Giovanni si era fermato come di consuetudine a pregare nei pressi del “capitello della Madonna” – così chiamato dalla popolazione locale – benché avesse una gran fretta: doveva recarsi infatti a Redivole, per chiedere ad un suo conoscente, tale Luigi Facchini, di venire ad arare e seminare legumi in un suo terreno. Finite le preghiere, Giovanni si alzò e si girò per proseguire il suo cammino.
Ma… meraviglia! Vicino alla strada vide una giovane di circa dodici anni, seduta a terra e con le mani sopra le ginocchia. Indossava vesti candide e sfavillanti – come ricordò Giovanni – anche il volto era candido e roseo.
Davanti a questa visione Giovanni non si scompose, anzi si avvicinò e salutò la giovane nella nostra lingua: “Dio ve dia el bon dì”. La mistreriosa Fanciulla rispose al saluto anch’ella in veneto: “Bon dì e Bon Ano, homo da ben”.
A quel tempo Motta faceva parte della Repubblica Veneta e l’anno nuovo era iniziato da pochi giorni.
Il colloquio fra i due assunse toni sempre più familiari, fino a quando Giovanni si accorse che era al cospetto della Beata Vergine e, preso da profonda venerazione, si gettò in ginocchio davanti a Lei.
Dopo appena due mesi fu istituito il processo canonico che verificò l’autenticità della visione. In seguito all’episodio, quella fanciulla divenne la Madonna dei Miracoli e sul luogo dell’apparizione fu eretto un santuario, ancor’oggi visitabile.
L’apparizione del 9 marzo 1510 non fu solo un evento di grande importanza da un punto di vista religioso, ma anche una preziosa testimonianza di cultura e identità veneta.
Tre uomini sbarcano da una galea su un molo di Venezia. Nessuno corre ad accoglierli. Il loro ritorno in patria dopo 24 anni all’estero passerebbe inosservato se non fosse per il loro aspetto bizzarro che attira l’attenzione. Indossano abiti sbrindellati ma di ottima seta, alla moda dei mongoli (o tartari, come si chiamavano allora), e hanno “una certa indescrivibile somiglianza con i tartari sia nel comportamento che nell’accento, avendo dimenticato quasi completamente la lingua veneziana”, afferma una fonte. I viaggiatori sono Marco Polo, suo padre e suo zio. È l’anno 1295.
LE STORIE dei Polo di un viaggio fino al lontano Catai, l’odierna Cina, sembrarono incredibili ai loro contemporanei. Le memorie di Marco Polo, raccolte in un libro intitolato prima “Descrizione del mondo” e poi “Il Milione”, parlavano di civiltà sconosciute dai tesori favolosi, ricche di prodotti ricercatissimi dai mercanti occidentali. Il libro ebbe un’enorme influenza sulla fantasia popolare. Entro 25 anni dal ritorno di Marco Polo ne esistevano versioni manoscritte in franco-italiano, francese, latino, toscano, veneziano e probabilmente in tedesco: un successo senza uguali nel Medioevo. Il libro fu copiato a mano per due secoli e dal 1477 ha continuato a essere stampato in molte lingue.
Probabilmente Marco Polo è l’europeo più famoso che abbia mai percorso la Via della Seta fino in Cina. Perché fece quel viaggio? E si può credere a tutto quello che sostenne di aver visto e fatto?
Mercanti di Venezia
Nel XIII secolo molti mercanti veneziani si stabilirono a Costantinopoli, l’odierna Istanbul, e accumularono ingenti ricchezze. Fra loro c’erano Niccolò e Matteo Polo, padre e zio di Marco. Verso il 1260 essi vendettero le proprietà che avevano lì, investirono il ricavato in gioielli e partirono per la capitale del khanato occidentale dell’impero mongolo: Saraj, sul Volga. Gli affari andarono bene ed essi raddoppiarono il capitale. Siccome la guerra impedì loro di tornare a casa, si diressero verso Oriente, probabilmente a cavallo, e raggiunsero la città di Buchara, un importante centro di scambi commerciali dell’attuale Uzbekistan.
Le agitazioni li trattennero lì per tre anni finché non passarono da Buchara dei messi che si recavano da Qubilai, Gran Khan di tutti i mongoli, i cui domini si estendevano nell’area che oggi andrebbe dalla Corea alla Polonia. I messi invitarono Niccolò e Matteo a unirsi a loro, dato che, stando al racconto di Marco Polo, il Gran Khan non aveva mai visto dei “latini” (intendendo probabilmente abitanti dell’Europa meridionale) e sarebbe stato felice di parlare con loro. Dopo un anno di viaggio i Polo arrivarono alla corte di Qubilai Khan, nipote di Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo.
Il Gran Khan accolse i due fratelli Polo con tutti gli onori e fece loro molte domande sull’Europa. Diede loro una piastra d’oro che doveva servire da salvacondotto per il viaggio di ritorno e affidò loro una lettera per il papa in cui lo pregava di mandargli “cento uomini savi, esperti nella religione cristiana, sapienti nelle sette arti”* per convertire la popolazione.
Marco, che era nato a Venezia, aveva 15 anni quando nel 1269 vide per la prima volta suo padre. Al rientro in paesi “cristiani”, Niccolò e Matteo appresero che papa Clemente IV era morto. Essi attesero un successore, ma quell’interregno, il più lungo della storia, durò tre anni. Dopo due anni, nel 1271, ripartirono alla volta del Gran Khan, portando con sé Marco che aveva 17 anni.
Il viaggio di Marco Polo
Ad Acri, in Palestina, un alto prelato e uomo politico, Tebaldo Visconti, diede ai Polo lettere per il Gran Khan che spiegavano perché non era possibile soddisfare la sua richiesta di cento savi. Giunti in Asia Minore, i Polo seppero che lo stesso Visconti era stato eletto papa, perciò tornarono da lui ad Acri. Invece di cento savi, il nuovo papa, Gregorio X, mandò solo due frati autorizzati a ordinare sacerdoti e vescovi, e fornì loro le dovute credenziali e doni per il Khan. Il gruppo si rimise in viaggio ma, spaventati dalle guerre che devastavano quelle regioni, ben presto i frati tornarono indietro, mentre i Polo proseguirono.
I tre attraversarono i paesi che corrispondono agli attuali Turchia e Iran e scesero verso il Golfo Persico con l’intenzione di proseguire per mare. Tuttavia, constatando che le imbarcazioni erano malfatte e tenute insieme con delle funi e quindi non in grado di tenere il mare, presero la via di terra. Dirigendosi a nord e a est, superarono le immense zone desertiche, le imponenti catene montuose, gli altipiani verdeggianti e i fertili pascoli dell’Afghanistan e del Pamir prima di arrivare nella città di Kashgar, in quella che oggi è la regione autonoma cinese del Sinkiang Uighur. Quindi seguendo antiche carovaniere a sud del bacino del Tarim e del deserto del Gobi, giunsero a Cambaluc, l’odierna Pechino. L’intero viaggio, reso difficile sia dal tempo inclemente che da un’imprecisata malattia di Marco, richiese tre anni e mezzo.
Per via Marco Polo annota delle cose interessanti: la montagna dell’Armenia su cui si diceva si fosse fermata l’arca di Noè, il presunto luogo di sepoltura dei Magi in Persia, paesi dal freddo intenso e dal buio perenne nell’estremo nord. Nella letteratura occidentale Marco Polo è il primo che menziona il petrolio. Rivela che la “salamandra”, lungi dall’essere la lana di un animale resistente al fuoco, come si credeva, è un minerale (l’amianto) che si estrae nella regione del Sinkiang Uighur. Racconta che sassi neri che bruciano (il carbone) sono così comuni in Cina che ogni giorno si possono fare bagni caldi. Ovunque vada, Marco Polo prende nota di ornamenti, cibi, bevande (in particolare il latte fermentato di cavalla amato dai mongoli), come pure di riti religiosi e magici, mestieri e mercanzie. Interamente nuovo per lui è il denaro cartaceo usato nel reame del Gran Khan.
Marco Polo non esprime mai il suo pensiero, ma riferisce obiettivamente quello che vede o sente. Possiamo solo immaginare cosa provò quando fu attaccato da predoni che catturarono alcuni suoi compagni e ne uccisero altri.
Al servizio di Qubilai Khan?
Marco afferma che i Polo rimasero 17 anni al servizio di Qubilai Khan, vale a dire il Gran Khan. In quel tempo Marco Polo venne spesso mandato in missione in distanti parti dell’impero per raccogliere informazioni, e persino governò quella che oggi è la città di Yang-chou, nella provincia di Kiangsu.
Non sappiamo se tutto quello che Marco Polo racconta è vero. I mongoli non si fidavano dei cinesi che avevano sottomesso e si servivano di stranieri per governare l’impero. Tuttavia sembra poco probabile che un illetterato come Marco Polo potesse diventare governatore. Forse egli esagera l’incarico che ricoprì. Comunque gli studiosi sono propensi a riconoscere che potrebbe essere stato “un utile emissario di un certo livello”.
Ad ogni modo Marco Polo fu in grado di fare una splendida descrizione di metropoli ricchissime e di usanze pagane ed esotiche proprie di un mondo completamente ignoto in Europa, o noto solo attraverso favole e dicerie. Potevano esistere davvero paesi civili così popolosi, più ricchi di quelli europei? Sembrava impossibile.
Il palazzo del Gran Khan era “il più gran palazzo che si sia mai visto”, dice Marco Polo. “È palazzo tanto bello e maestoso che nessuno al mondo che avesse la facoltà di farlo avrebbe saputo disegnarlo e costruirlo in modo migliore”. Le mura erano ricoperte d’oro e d’argento, adorne di statue di draghi, animali e uccelli dorati, cavalieri e idoli. Il tetto elevato, vermiglio, giallo, verde e blu, splendeva come cristallo. Gli splendidi parchi erano pieni di animali di ogni tipo.
A differenza delle vie tortuose dell’Europa medievale, le strade di Cambaluc erano così ampie e diritte che da un punto delle mura della città si vedevano le mura sul lato opposto. “Cambaluc è la città del mondo dove arrivano più rarità, più cose di pregio e in maggior quantità di ogni altra città del mondo”, dice il veneziano. “Pensate solo a questo: a Cambaluc arrivano ogni giorno non meno di mille carrettate di seta”.
Il numero di imbarcazioni che navigavano lungo lo Yangtze Kiang, uno dei fiumi più lunghi del mondo, era straordinario. Marco Polo giudicò che solo nel porto di Sinju vi fossero 15.000 navi circa.
Fra le usanze dei mongoli che Marco Polo menziona vi è quella del matrimonio di bambini morti. Se una famiglia perdeva un figlio di quattro anni o poco più e un’altra una figlia della stessa età, i padri potevano decidere di farli sposare, facendo poi un regolare contratto di nozze e tenendo una gran festa. Si offrivano cibi e si bruciavano figure di carta raffiguranti schiavi, monete e oggetti di casa, con la convinzione che gli “sposi” avrebbero posseduto queste cose nel cosiddetto altro mondo.
Marco Polo rimane colpito dal valore militare dei mongoli, dai loro sistemi di governo e dalla tolleranza religiosa. Le misure socioeconomiche includevano sovvenzioni per i poveri e i malati, pattuglie antincendio e antisommossa, granai di riserva per alleviare la miseria causata dalle inondazioni e un sistema postale per comunicare rapidamente.
Pur essendo a conoscenza dei tentativi dei mongoli di invadere il Giappone, Marco Polo non afferma di esserci stato. Tuttavia sostiene che in Giappone c’era oro in tale abbondanza che il tetto e il pavimento del palazzo dell’imperatore erano d’oro. Il suo è l’unico riferimento al Giappone nella letteratura occidentale anteriore al XVI secolo.
Il libro di Marco Polo fu sia ammirato che dileggiato per secoli. Oggi gli studiosi, dopo aver soppesato tutte le sue imprecisioni, lo definiscono “la migliore descrizione esistente” del regno di Qubilai nel suo massimo splendore.
Il ritorno a Venezia
I Polo lasciarono la Cina verso il 1292. Marco dice che la spedizione compì un viaggio di 21 mesi, che partì da quella che oggi è Quanzhou, sostò in Vietnam, nella Penisola Malese, a Sumatra e nello Srī Lanka, quindi seguì la costa dell’India fino in Persia. L’ultima tappa del viaggio li portò a Costantinopoli e infine a Venezia. Poiché erano stati via per 24 anni, non è difficile immaginare che i parenti stentassero a riconoscerli. Ormai Marco aveva 41 o 42 anni.
È difficile calcolare quanto abbia viaggiato Marco Polo. Uno scrittore che recentemente ha cercato di ricalcare le sue orme ha percorso circa 10.000 chilometri fra l’Iran e la Cina soltanto. Anche con moderni mezzi di trasporto è stata un’ardua impresa.
Si dice che il libro di Marco Polo sia stato dettato nel 1298 a un certo Rustichello da Pisa in una prigione di Genova. La tradizione vuole che in una battaglia navale, mentre era al comando di una galea veneziana, Marco Polo venisse fatto prigioniero dai genovesi, che erano in guerra con Venezia. Rustichello da Pisa, suo compagno di prigionia, aveva esperienza come scrittore di storie in prosa in francese o franco-italiano, e la compagnia di Marco Polo evidentemente fu uno stimolo a scrivere.
Con tutta probabilità Marco Polo fu rimesso in libertà nel 1299, quando Venezia e Genova fecero la pace. Tornò a Venezia, si sposò ed ebbe tre figlie. Nel 1324, a 69 anni, morì nella sua città natale.
Nella mente di alcuni permane il dubbio se Marco Polo abbia davvero fatto tutto quello che dice o abbia semplicemente ripetuto storie sentite da altri viaggiatori. Ma qualunque fossero le fonti del Milione di Marco Polo, gli studiosi ne riconoscono il valore. “Mai né prima né dopo”, dice uno storico, “un solo uomo ha fornito all’Europa una tale mole di nuove informazioni geografiche”. Il libro di Marco Polo è una testimonianza dell’interesse dell’uomo per i viaggi, le novità e i paesi lontani.
Il 16 gennaio è stata presentata a palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio regionale del Veneto, la pubblicazione “I Dogi nei ritratti parlanti di Palazzo Ducale a Venezia’ (Cierre Edizioni), a cura di Paolo Mastandrea e Sebastiano Pedrocco.
Di seguito potete trovare il video di presentazione:
Ai tempi in cui il veneziano era l’inglese del Mediterraneo
Il Popolo Veneziano aveva dimostrato all’Europa, e non solo, che la sua forma di Repubblica fin che non arrivò l’Attila còrso era stata quella più duratura, stabile e vincente che la storia presente e passata ricordi. Gli unici che andarono a vivere a Venezia per qualche mese, per studiare e capire dall’interno come veniva governata la città, furono i delegati alla stesura della costituzione del nascente Stato americano del Nord (USA), quando architetti, carpentieri, mastri costruttori, musicisti, pittori, tutti di origine veneta, avevano già esportato il “gusto del vivere e del sapere veneziano” alla corte degli Zar.
Come in tutte le cose c’è il rovescio della medaglia.
Senz’altro i puristi grideranno allo scandalo. Secondo me, la Serenissima, nella sua forma d’interpretare la laicità di Stato applicò il principio cristiano della comprensione, del vivere e lascia vivere purché ognuno rispetti l’altro, senza imposizioni, senza condanne o persecuzioni.
Nei tribunali veneziani, nelle stanze riservate ai giudici quando si ritiravano per decidere le sorti di un ricco come di un povero, campeggiava in bella vista un’enorme scritta “Non Fare Agli Altri Quello Che Non Vorresti Fosse Fatto A Te” e questo la diceva tutta sul come doveva essere gestita la giustizia.
Nei suoi mille anni di vita, la Serenissima mise al centro di tutto, come fonte di benessere per ogni singolo, il Bene Comune. Oggi nel terzo millennio è un po’ difficile comprendere il significato reale che veniva dato dalla classe dirigente nei primi 200/300 anni della sua storia o che veniva recepito dal popolo. Le motivazioni potevano essere: l’aspirazione a condizioni di vita migliori, l’origine di genti pacifiche e per niente bellicose ma che sapevano combattere per ideali un po’ unici per quei tempi come andare in guerra per se stessi e non per il feudatario dominante con potere di vita e di morte sui sudditi.
Nella marca trevigiana circola ancora il motto (sulla filosofia di vita) molto significativo, “mi no vago a conbatter”, nato al tempo delle signorie, in contrapposizione di quello veneziano dalla realistica concretezza nel considerare il nemico vinto “omo morto no fa guere”.
Qual’era il Bene Comune? quale collante fu usato per tenere uniti i venexiani de tera e de mar per ben 10 secoli.
Non è riduttivo affermare che la carta vincente fu il rispettare lingua, tradizioni, costumi ed usanze sia dei vinti in battaglia sia di chiedeva l’annessione pacifica.
La Serenissima nella sua politica espansionistica riuscì ad integrare i princìpi della comprensione e del rispetto reciproco. Questo è quello che i veneziani chiedevano ai foresti quando chiedevano di aprire un fondaco, un nuovo sbocco mercantile, un’alleanza sia in laguna che nelle loro terre. In cambio pretendevano il rispetto delle tradizioni e dei costumi veneziani.
Alla luce del risultato del referendum sull’autonomia del 2017, ora secondo me va riscoperto il Bene Comune, adattandolo alla nostra epoca, nonostante le contraddizioni derivanti dalla globalizzazione dei mercati e dei consumi, dalle migrazioni africane di massa verso l’Europa, dalla dittatura dei burocrati dell’UE e dai colori politici che sono al Governo o che andranno a governare.
Questa Repubblica Serenissima garantì ai suoi Cittadini e ai Popoli che la scelsero come Dominante per essere governati, i più lunghi periodi di pace e prosperità, giungendo a fissarsi nella memoria/gratitudine storica anche di coloro che erano stati sottomessi con la forza.
Cosa che non riuscì a nessun altro paese negli ultimi 2000 anni.
Il primo impegno di chi voglia aiutare il Popolo veneto, nel suo riscatto, deve invitare tutti (sia chi ha votato contro o ha scelto il SI, sia chi si è astenuto o ha remato contro per ignoranza e per interessi privati) a riflettere sull’insegnamento dell’Antica Venezia, per resettare due secoli di menzogne.
In realtà cosa successe nel 1797?
La città diventa preda di Napoleone e poi di altri invasori perché ormai il Popolo veneziano non era più in grado di vivere secondo quei dettami morali e religiosi che erano stati richiesti da quella Repubblica che aveva reso Venezia, la “ Serenissima”.
Le sue strutture amministrative e religiose erano talmente radicate nelle persone, dal Bergamasco al Friuli passando per il Bellunese, che si conservarono quasi intatte nonostante le occupazioni straniere che si succederanno per quasi due secoli
Il regno piemontese, peggiore della dominazione austriaca, portò fame, pellagra e milioni di emigranti, non solo nel Veneto-Friuli e in tutto il sud della penisola italica.
“l’emigrazione, specie quella transoceanica, fu il grande fatto rivoluzionario delle campagne venete negli anni neri dell’economia italiana”.
Così lo storico Gabriele De Rosa ha definito l’emigrazione transoceanica in una delle sue opere.
Inizialmente il fenomeno migratorio fu di carattere perlopiù temporaneo o stagionale, diretto in particolare verso la Germania, l’Austria e l’Ungheria. Si emigrava soprattutto dalle zone montane, in particolare dalle province di Vicenza, Treviso e Belluno. Dopo l’Unità d’Italia (il Veneto fu annesso a seguito del plebiscito del 21 e 22 ottobre 1866) anche le Venezie subirono una profonda crisi economica, la quale diede inizio alla grande emigrazione. Questa fase si sarebbe protratta fino alla vigilia della prima guerra mondiale, la quale funse da punto di cesura per l’emigrazione veneta ed italiana: cambiarono infatti i punti di approdo e l’atteggiamento dello Stato verso chi migrava. In ogni caso all’orizzonte dei migranti veneti non solo ci furono solo i territori continentali ma anche rotte transoceaniche.
Fu una vera e propria diaspora: interi paesi emigrarono in cerca di una vita più dignitosa, verso terre lontanissime, dall’altra parte del mondo. E dovettero adattarsi alle situazioni più difficili, lottando contro un viaggio estenuante, facendosi largo spesso in mezzo a foreste e in luoghi totalmente inospitali, difendensosi da belve e malattie.
Dal 1876 al 1900 emigrarono 940.711 veneti, il 17,9% della popolazione.
Dal 1901 al 1915 altri 882.082, uno ogni 10 abitanti.
I veneti furono i primi in Italia a scegliere la via dell’emigrazione: già negli anni ’70 dell’Ottocento i bastimenti partivano da Genova con il loro carico di contadini destinati a Buenos Aires o San Paolo. Dopo l’ondata migratoria dall’Irlanda e dalla Germania, toccava in questo periodo agli italiani, ai serbi e agli ungheresi emigrare per scappare dalla povertà.
Schematizzando, questa prima ondata migratoria era dovuta essenzialmente a:
– un calo della richiesta di manodopera in Germania e Austria-Ungheria;
– la propaganda esercitata dagli agenti di emigrazione (intermediari delle compagnie di navigazione italiane e dei governi brasiliano e argentino), che dipingevano l’America come “il Paese della cuccagna”;
– una situazione economica difficile per la maggior parte della popolazione, soprattutto rurale (basti ricordare la famigerata “tassa sul macinato” imposta dall’Italia);
– una politica di facilitazioni (come il viaggio gratuito) offerto a coloro che decidevano di emigrare.
L’emigrazione in Sudamerica era favorita anche dai paesi di destinazione. In Brasile infatti nel 1869 era stata approvata una legge (detta del “ventre libero”) che affrancava dalla schiavitù tutti i figli di schiavi nati dopo il 1870. Preludio della definitiva abolizione della schiavitù (1889) questa legge apriva tuttavia un problema di manodopera nelle grandi piantagioni di caffè dello stato di Sao Paulo, costringendo i “fazenderos” (cioè i grandi proprietari terrieri brasiliani, che occupavano un ruolo importante nella vita del paese) a ricercare nuova manodopera all’estero.
Ovunque andarono quei nostri Veneti portarono la loro laboriosità, la loro intraprendenza, la loro voglia di fare. Ma non solo: portarono anche la loro cultura, le tradizioni, la cucina, il mondo di intendere e di vivere il mondo e, soprattutto, la lingua veneta, un patromonio ancora vivo fra le nostre comunità all’estero, vero e proprio legame indissolubile con la terra natìa.
A quei veneti che emigrarono, alle loro storie, alla loro memoria e alla loro cultura desideriamo dedicare questo spazio, nella speranza che quanto da loro vissuto possa continuare a rimanere un ricordo vivo nella memoria di tutti noi.
VIDEO
Si emigra in ‘Merica!
VENETI IN BRASILE – Documentario sull’emigrazione veneta in Argentina e in Brasile negli ultimi tre decenni dell’Ottocento (video Rai).
Le condizioni in cui vivevano i contadini nella seconda metà dell’Ottocento emergono dagli atti dell’inchiesta Jacini del 1877, una delle due inchieste sull’agricoltura promosse dal parlamento italiano negli anni compresi tra l’unità nazionale e la prima guerra mondiale. Le singole storie sono affidate alle numerose testimonianze epistolari. Si tratta di storie che, pur nella irriducibile diversità delle esperienze e dei destini dei loro protagonisti, sembrano avere spesso come denominatore comune la speranza tradita di una vita migliore. Della nostalgia e delle disillusioni dei contadini partiti per la loro “terra promessa” si nutrì la retorica dei letterati, come De Amicis, e dei politici del tempo.
APPROFONDIMENTI:
“El Talian”
El Talian è una delle più forti testimonianze linguistiche e culturali presenti nel sud del Brasile, in particolare negli Stati del Rio Grande, Santa Caterina e Paranà, terre di forte emigrazione veneta fin dalla seconda metà dell’ottocento. E’ una lingua chiamata anche “veneto-brasilian”, riconosciuta ufficialmente dall’intero Stato del Brasile e considerata l’ultima lingua neo-latina conosciuta, singolare koinè su base veneto-centrale nella quale si innestano termini brasiliani; una lingua “viva”, usata quotidianamente sul lavoro o all’università, per scrivere canzoni e poesie, per fare teatro, alla radio o alla tv.
MIGRANTI VENETI ALLO SPECCHIO I discendenti dei nostri emigrati: tra successi dell’oggi e memorie di un duro passato
di Ulderico Bernardi – tratto dalla rivista “Le Venezie”
Vi segnaliamo di seguito alcune interessanti risorse on-line per approfondire il tema dell’Emigrazione Veneta, un capitolo di Storia del nostro popolo da conoscere e da riscoprire:
Mestieri in gran parte legati al mondo agricolo svolti da specialisti veri e propri che si spostavano di borgo in borgo, da fattoria a fattoria. Sarebbe bello che se ne tramandasse la memoria ai nostri ragazzi, perché chi ha i capelli grigi o bianchi da quel mondo molto spesso proviene e quel mondo è anche l’artefice del “miracolo veneto” di oggi. La mentalità e l’amore per il lavoro ben fatto, il rispetto per la fatica propria e degli altri (padrone e dipendenti visti come una famiglia), un senso di religiosità diffusa (che ora si va attenuando) deriva da quelle radici. Eccone un primo piccolo parziale elenco:
“Gente che si muoveva di paese in paese, di boaria in boaria e che portava con sé il proprio lavoro. Erano tanti e la loro attività integrava il cerchio di economie chiuse.
Il carér (carradore) si spostava frequentemente dalla sua officina segnata da una ruota sopra la porta di ingresso, per riparare ruote e veicoli campestri, o anche per costruire sul posto il carro che gli era stato ordinato.
Lasciava spesso la sua bottega anche il marescalco specializzato nella ferratura di buoi e cavalli o il botaro che aggiustava le doghe o il fondo delle botti.
Tipicamente stagionali erano i lavori del masciaro o mazin (l’ammazza maiali) e del salader o saladaro, il norcino. Spesso queste attività erano eseguite dalla stessa persona, un contadino che, non avendo molta terra, si era specializzato in questo lavoro per arrotondar ei magri guadagni. Il masciaro e il saladaro lavoravano a pieno ritmo per tutta la bécaria del porsel che andava nel Trevigiano dal giorno di San Tommaso Becket agli ultimi giorni di carnevale e nel veronese dal giorno di Santa Lucia a Natale.
Dopo la mietitura, prima delle trebbiatrici, si presentavano nei cortili dei contadini i batarini esperti nel tibiar formento, con i loro batadori. Nel trevigiano erano specializzati in questo duro lavoro i vedegalesi che usavano in genere un cavallo trainante una scala gravata da pesi.
Sempre d’estate scendevano dalle valli montane e pedemontane i segantini che sfalciavano le messi nelle grandi boerie, muniti di falce e cote.
In autunno le gratarole sgranavano le pannocchie passando di casa in casa, con la loro grattugia di legno munita di punte di selce: contemporaneamente arrivavano i petinini che cardavano la lana e la canapa che le donne avebbero poi filato nelle lunghe notti invernali. Proprio come 3000 anni prima facevano le antenate paleo venete.
A novembre era la volta del gripolaro per raccogliere la feccia delle botti sopra il suo carretto trainato da un asino; acquistava anche le vinacce per rivenderle alle distillerie. Tornato a casa depurava la gripola dal vino, la seccava, la riduceva in polvere e la portava alle cantine sociali. Il suo lavoro era molto intenso da luglio a settembre quando doveva liberare le parti interne delle botti dal tartaro, un prodotto assai ricercato per la conservazione dei cibi e per la fabbricazione dei lieviti.
Capolavoro dell’arte gotica, il Palazzo Ducale di Venezia è una meravigliosa costruzione composta da elementi di epoche e stili diversi:
– le fondamenta antiche
– la struttura d’insieme risalente al Tre-Quattrocento
– le aggiunte rinascimentali tra Quattrocento e Cinquecento
– le aggiunte manieristiche tra Cinquecento e Seicento.
Inizialmente Palazzo Ducale era una fortezza; tradizionalmente la fondazione del palazzo (sede del governo, residenza pubblica e privata del doge) è attribuita ad Agnello Partecipazio, doge negli anni 810-827. A questo periodo si fa risalire la nascita della città di Venezia; precedentemente le isole della laguna erano abitate da alcune famiglie dedite alla pesca e allo sfruttamento delle saline e solo di tanto in tanto (a partire dal V secolo) era successo che abitanti dell’entroterra si erano spostati temporaneamente nelle isole, in seguito a invasioni di popoli barbarici (dai Visigoti agli Unni, dai Longobardi ai Franchi).
All’inizio del IX secolo Venezia incomincia la sua storia vera e propria, con la costruzione dei primi edifici pubblici, tra cui una prima basilica edificata per conservare le spoglie di San Marco (che erano state trafugate nell’828 da Alessandria d’Egitto) e il primo palazzo ducale, cioè del doge di Venezia. A seguito degli studi effettuati nel XIX secolo possiamo immaginare il castello dei dogi nell’XI secolo così come nell’immagine qui sotto:
Fino al primo terzo del XII secolo il Palazzo Ducale conserva il suo aspetto fortificato, anche per i numerosi tumulti che segnarono la storia di Venezia fino a quell’epoca. Poi, soprattutto con il dogato di Sebastiano Ziani le cose cominciano a cambiare: fra il 1172 e il 1178 un nuovo “palazzo comune” viene aggiunto alla prima costruzione, mentre contemporaneamente si accelera la sistemazione di piazza San Marco.
La storia di Palazzo Ducale nella sua forma attuale comincia nel 1340, con una serie di interventi che portano al trionfo del Gotico in questo stupendo edificio. Esso è formato da 3 grandi corpi di fabbrica che hanno inglobato e unificato precedenti costruzioni:
– l’ala verso il Bacino di San Marco (che contiene la Sala del Maggior Consiglio) e che è la più antica, ricostruita a partire dal 1340;
– l’ala verso la Piazza (già Palazzo di Giustizia) con la Sala dello Scrutinio, la cui realizzazione nelle forme attuali inizia a partire dal 1424;
– sul lato opposto, l’ala rinascimentale, con la residenza del doge e molti uffici del governo, ricostruita tra il 1483 e il 1565.
Da più di tre secoli i pellegrini che giungono alla Basilica della Salute venerano l’immagine della Madonna posta al centro dell’altare maggiore. Essa è giunta dall’isola di Candia il 26 febbraio 1670 portata dal doge Morosini. Il 21 novembre dello stesso anno essa venne collocata nelle nicchia dell’altare. I candiotti la chiamavano Madonna di san Tito, perché ritenevano che fosse stata dipinta da san Luca che poi l’avrebbe donata al loro primo vescovo. Veniva chiamata anche Mesopanditissa che significa mediatrice di pace perché dinanzi alla sua immagine i veneziani e i candiotti, nel 1264, avevano posti fine alla guerra che li aveva visti coinvolti per un sessantennio. Il suo appellativo forse deriva anche dal giorno in cui essa veniva festeggiata, giorno che cadeva a metà tra il Natale e la Presentazione del Signore, chiamata dai greci festa dell’Ipapante cioè festa dell’incontro con Cristo. Con Maria, la “Ipapantissa”, ci si incontrava prima, per essere poi guidati da Lei a incontrarsi con Cristo.
A Venezia tale immagine della Vergine viene chiamata Madonna della Salute perché da lei i veneziani riconobbero di aver ricevuto in dono la salute nella guarigione dalla peste e la salvezza che solo il Salvatore, figlio suo, è capace di elargire. Così ricorda anche l’iscrizione incisa nel tondo al centro della Basilica: “Unde origo inde salus”-da Maria nacque Venezia, da Maria venne la salvezza.
L’icona della Mesopanditissa conquista per il suo volto ombrato e dolce che come Madre accoglie i suoi figli fedeli alla sua presenza. Essa tiene in braccio il Figlio di Dio e lo porge all’umanità pellegrina. La Madre dona il Figlio, il Salvatore e colui che offre la salvezza. Il Bambino Gesù tiene in una mano il rotolo della Rivelazione e con l’altra benedice: egli è il Verbo, la Parola di Dio che è fonte di benedizione per quanti con fede lo accolgono.
La Storia
La festa della Madonna della Salute è una festa religiosa istituita dalla Repubblica Veneta nel 1630 e osservata solennemente in tutto il territorio della Serenissima fino alla sua caduta. Ha luogo il 21 novembre e ancor oggi si celebra spontaneamente nella città di Venezia, a Trieste e in moltissime città e paesi dell’antica Repubblica, nell’Italia, in Istria e in Dalmazia. La Serenissima infatti, per permettere alle popolazioni distanti dalla Capitale di osservare la Festa, favorì la costruzione in tutta la Repubblica di santuari dedicati alla Madonna della Salute, che sono a tutt’oggi numerosissimi, anche in piccoli paesi, e molti di questi santuari sono ancor oggi, come a Venezia, meta di pellegrinaggi il 21 novembre. A Venezia il pellegrinaggio ha come meta la basilica di Santa Maria della Salute. Durante tutta la giornata, nella basilica, tenuta aperta senza interruzione, vengono celebrate in continuazione messe e rosari, con un afflusso continuo di fedeli. Per facilitare il pellegrinaggio, viene eretto sul Canal Grande un ponte provvisorio in legno che collega la punta della Dogana con Santa Maria del Giglio. Nella città di Venezia il 21 novembre è ancor oggi giorno festivo anche agli effetti civili, grazie ad una fortuita coincidenza: il giorno del Santo Patrono di Venezia, San Marco, cade il 25 aprile, in cui la Repubblica Italiana celebra la Liberazione. In questi casi la legge consente che il Comune scelga un altro giorno per usufruire della festività patronale, e il Comune di Venezia ha scelto il giorno della Madonna della Salute.
Le Origini
La ricorrenza trae origine dalla grande epidemia di peste bubbonica che colpì tutto il nord Italia tra il 1630 e il 1631. Si tratta della stessa epidemia descritta anche da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi.
Il contagio si estese a Venezia in seguito all’arrivo di alcuni ambasciatori di Mantova, città già particolarmente colpita dall’epidemia, inviati a chiedere aiuti alla Repubblica di Venezia. Gli ambasciatori furono alloggiati in quarantena nell’isola di San Servolo ma nonostante questa precauzione alcune maestranze entrate in contatto con gli ospiti subirono il contagio e diffusero il morbo nell’area cittadina. L’epidemia fu particolarmente virulenta: nel giro di poche settimane l’intera città venne colpita, con pesanti perdite tra gli abitanti e ne furono vittime lo stesso doge Nicolò Contarini e il patriarca Giovanni Tiepolo.
Nel momento culminante dell’epidemia, in assenza di altre soluzioni, il governo della Repubblica organizzò una processione di preghiera alla Madonna, a cui partecipò per tre giorni e per tre notti tutta la popolazione superstite. Il 22 ottobre 1630 il doge fece voto solenne di erigere un tempio votivo particolarmente grandioso e solenne se la città fosse sopravvissuta al morbo.
Poche settimane dopo la processione, l’epidemia subì prima un brusco rallentamento per poi lentamente regredire fino a estinguersi definitivamente nel novembre 1631. Il bilancio finale fu stimato in quasi 47.000 morti nel solo territorio cittadino (oltre un quarto della popolazione) e quasi 100.000 nel territorio del Dogado. Il governo decretò allora di ripetere ogni anno, in segno di ringraziamento, la processione in onore della Madonna denominata da allora della “Salute”.
Il governo della Repubblica mantenne fede al voto, individuando nell’area della Dogana da Mar, oggetto di recenti demolizioni, la meta del pellegrinaggio nonché la sede del nuovo tempio votivo e indicendo subito il concorso per la costruzione della nuova chiesa. Il primo pellegrinaggio di ringraziamento avvenne il 28 novembre 1631, subito dopo la fine dell’epidemia.
Il concorso venne vinto da Baldassare Longhena con il suo progetto di un tempio barocco a struttura ottagonale sormontato da un’imponente cupola, ovvero l’attuale basilica di Santa Maria della Salute, che fu consacrata il 21 novembre 1687.
La ricorrenza è particolarmente sentita dalla popolazione veneziana. È tradizione, nel giorno della festa della Salute, consumare una pietanza a base di carne, la cosiddetta “castradina”.
Una breve storia degli zattieri, sulle menàde, sul mondo di quei bellunesi che con il loro legname hanno garantito la potenza politica, economica e marinara per quasi 1000 anni della Serenissima sull'Adriatico e sul Mediterraneo orientale.
Un bellissimo racconto di Napoleone Cozzi del 1899 di una delle ultime menàde di quel secolo prima dello scoppio della I Grande Guerra
“…al luogo d’imbarco una brigata chiassosa di Zattèri allineavano le ultime travi, marcava le assi e assicurava cogli ultimi legacci le parti vitali del bizzarro veicolo che dovea portarci a Longarone. A Perarolo, il Piave non è più nella sua infanzia …si presenta qui nella sua virile fierezza … Il Padola, l’Ansiei, il Boite e cento altri affluenti minori vi hanno riversato il loro liquido tributo: la massa delle acque si urta con fracasso e si frange in candide spume … muovono le pale a una dozzina di seghe e molini, travolgono nella loro ridda impetuosa migliaia di tronchi trascinandoli via come un fuscello di paglia … a 12 chilometri all’ora, la superficie mobile di oltre 70 metri quadrati dell’ammasso galleggiante di due o trecento travi che costituisce ogni zattera … Il comando secco del capo zattiere, il colpo di remo che ci dirige risolutamente nel mezzo del fiume, il coro dei saluti e degli auguri che si elevano dalla sponda, Perarolo che sparisce al primo svolto … La zattera segue normalmente il tronco principale del fiume e serpeggia con esso a curve ora strette ora ampie, zitta e velocissima; passa sotto un masso fuori di piombo, guizza tra i fogliami, s’interna in una gola, esce libera in un largo bacino … Passano casette rustiche isolate o a gruppi, molini, ponti, seghe; dalle valli secondarie affluenti d’ogni grandezza si uniscono al Piave, quali a cascatelle, quali con un ultimo salto, quali scendendo blandatamente dal loro candido letto di ghiaia …Non sempre si corre così tranquillamente: gl’incidenti abbondano ed offrono la nota seria od allegra, secondo la natura loro … Spesso, per evitare una rapida curva si sceglie un braccio di minor profondità: la zattera si trascina gravemente, stride sui ciotoli, è uno scompiglio, un finimondo per le povere viscere … Talvolta, proprio quando sembra di veder chiaro per un lungo tratto di percorso, la faccia del capo zattera si rabbuia; i suoi cenni si fanno più decisi, più autorevoli, uno sprone di roccia è li minaccioso ad uno stretto svolto e non si può evitare. I colpi di remo si fanno più spessi, diventano febbrili, disperati; ma è vano, impotente ogni sforzo. Il pesante veicolo viene scaraventato contro, l’impeto lo rende indomabile; tutto dovrà sfasciarsi, convien pensare al salvataggio … Ad un affanoso silenzio succede uno scricchiolio formidabile, poi una scossa potente, disastrosa, che tutto sconvolge, accavalla; sposta, sbalza, sommerge.
Il natante sembra squassato; il corretto rettangolo è diventato un goffo trapezoide. Lo sfregamento ha reso le parti esposte, smussato gli angoli; l’urto ha spezzato un remo, svelto uno scalmiere, reciso i legami a una decina di travi che vengono travolte dalla corrente e perdute, ma il resto è salvo; la meravigliosa costruzione ha resistito! … Più scabroso è l’affare, allorchè l’urto avviene in piena prora della zattera e ne tronca di botto la corsa violenta. Che lavorio allora per smuovere a grado a grado l’inerte massa, cui la rapidità della corrente tiene lì fissa, incastrata, nelle sinuosità rocciose dell’immane ostacolo! … Già ad una certa distanza, il corso del fiume sembra troncato da una diga che lo attraversa lasciando uno sbocco stretto oltre il quale l’enorme massa liquida precipita con fragore: le cascate. Avvicinandosi, si pensa, e si ha tutta la voglia di credere che certamente la zattera verrà trattenuta o sviata da chi sa che congegni, da chi sa quali provvidenziali circostanze. Corre invece sciolta ed ardita l’infamissima! È un’indegnità; deve essere una grossa una colossale celia o una pazzia senza nome; saranno matti i zattèri. Ormai non c’è scampo; ancora pochi momenti e saremo assorbiti, ingoiati. La velocità aumenta ancora, il rombo si fa sempre più assordante. Si vorrebbe coprire il viso colle mani, vien voglia di ribellarsi spiccando un salto disperato sulla ghiaia fuggente.
Ci siamo: I due provieri lasciano i remi, si curvano si afferrano alla corda, la prima parte della zattera cigola, si piega, precipita, dispare. Dietro a noi ritto, fiero, impassibile come il dio delle tempeste il capo zattera da col suo remo l’ultimo colpo direttivo, poi si abbassa, si assicura anche lui. Ecco l’attimo: numi dell’abisso! L’appoggio ci manca sotto; le dita si aggrappano alle travi, si aggrovigliano alle corde, ai legacci, quindi con un altissimo grido d’entusiasmo sprofondiamo, ebbri d’emozione, lambiti da un’onda di spuma, avvolti da un diluvio di spruzzi argentini… il viaggio non è terminato … Sulla sua ampia rotaia liquida, passerà altre chiuse, vedrà altre città, altre borgate, altre rive feconde; e correrà ancora ancora, sulle onde maestose dell’azzurro Piave dalle larghissime distese di ghiaia, via via, tra i fiordalisi; le biade, e gli sparsi casolari delle campagne solitarie; tra i filari di pioppi e le alte giunchiglie, laggiù nell’immensa pace delle sconfinate pianure venete.”
Per la rubrica de “I personaggi illustri”, quest’oggi vi parlerò di Angelo Beolco, meglio noto come Ruzante, un grande drammaturgo padovano, attore e scrittore del XVI secolo e che dovrebbe forse essere maggiormente valorizzato come icona del teatro a Padova, città in cui il detto “nemo profeta in patria” è più che mai valido, anche se da oltre 10 anni nel periodo estivo va in scena il Festival Ruzanteo che forse meriterebbe maggiori attenzioni.
Anni addietro, prima di iniziare con questa avventura da “local blogger” padovano ed imparare via via molte cose sulla mia città, nella mia ignoranza, pensavo che Ruzante fosse un autore teatrale abbastanza di poco conto, legato alla cultura contadina in un ambito territoriale piuttosto ristretto tuttavia mi fa piacere aver compreso di essermi sbagliato e di gran lunga anche. Ruzante è il nome d’arte che il Beolco si diede nonché il protagonista di molte delle sue commedie, un contadino veneto differentemente caratterizzato di opera in opera.
Secondo Dario Fò “in Ruzzante c’è una vitalità, una forza, un’invenzione del rapporto umano – e animale – con la terra, con la vita, con la sopravvivenza, con la lotta, con gli elementi. E’ veramente il canto del “naturale”. Quello del “naturale non è un vezzo: era una posizione ben chiara e concreta, importante sul piano culturale, inventata dal Ruzante, con altri intorno a lui ma di minor valore, in polemica rispetto all’Arcadia e al gioco neoclassico o classicheggiante, fasullo, che ha permeato di sé tutto il Rinascimento e che ha portato un certo gusto ed a una certa lettura della vita. Ruzante, rispetto a tutti gli altri autori dell’epoca, è un fatto a sé, atipico, che ha poi avuto un rilancio straordinario proiettandosi dentro tutto il teatro cinquecentesco e seicentesco, dall’Inghilterra alla Spagna, dalla Francia alla Germania. Ruzante viene prima dei picareschi, dei racconti contadini – o meglio delle commedie in chiave contadina – tipo il Georges Dandin di Molière o i clown di Shakespeare o le situazioni agresti di Marlowe e via dicendo. Ha inventato la chiave fondamentale su cui si è fondato il teatro in Europa“.
Nasce a Pernumia, un comune a sud est di Padova, pare, nel 1496 da padre professore di medicina e poi rettore dell’Università, Giovan Francesco Beolco e da madre contadina sicchè di fatto per quanto divenga un uomo molto colto non appartiene con formula piena ad una classe sociale agiata come il padre ma gli è preclusa la frequentazione dell’Università e la possibilità di diventare accademico. Frequenta anche molto il mondo contadino prestandosi a fare per il suo capocomico e committente Alvise Cornaro, suo grande mecenate, anche da esattore presso i contadini che lavoravano la sua terra. In questo periodo uno dei contratti tra imprenditore agricolo e contadino veniva detto “angheria” che visto il significato che oggi ha assunto questo termine immagino sarà stato particolarmente oneroso e duro per i contadini.
E’ vero che frequentava le corti, la nobiltà anche se nel corso della sua opera traspare la sua vicinanza alle classi subalterne, alla durezza della vita contadina. Questo e altro dice Dario Fò in occasione della cerimonia per la consegna del premio Nobel: “Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l’ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia“. Fu probabilmente per questo che una volta affermatasi, la borghesia, che non amava l’inquietante verismo ruzzantiano fece in modo di far cadere nell’oblio la classe contadina, dopo quella fugace apparizione alla ribalta della scena. Per questo, dal seicento in poi, l’opera del Beolco finisce nel dimenticatoio, per riaffacciarsi solo agli inizi del XX secolo agli onori della scena. Le sue opere sono tornate ad essere rappresentate nella Loggia Cornaro a Padova, scena rinascimentale per eccellenza. Solo cinque commedie ci rimangono di lui intitolate: la «Moschetta », la «Fiorina », l’« A nconitana », la «Piovana», e la «Vaccaria» che oggi faticheremmo seriamente a comprendere vista la la difficoltà della lingua utilizzata e cioè il pavano, la variante rustica del dialetto padovano dell’epoca, che negli anni scomparve praticamente del tutto con la dominazione veneziana. Questa fu una delle cause della diminuzione della popolarità delle sue opere.
Passeggiando dal Prato della Valle verso il centro si imbocca via Umberto I e proprio di fronte alla chiesetta S. Daniele, all’interno della quale si trova una lapida funeraria commemorativa del Ruzante, c’è la casa (Da Zara) in cui visse (vedi la foto a destra con la lapide che ce lo dice).
In via Cesarotti, a due passi dalla Basilica di Sant’Antonio è possibile visitare la splendida Loggia ed Odeo Cornaro dove sono state rappresentate molte delle sue opere anche in seguito alla sua morte e dove ogni anno durante la stagione estiva va in scena il Festival Ruzanteo. Curiosità il fatto che Galileo Galilei vivesse in una proprietà adiacente alla Loggia Cornaro e vi potesse accedere da una piccola porticina sul muro di cinta del suo giardino. Galilei fu un grande estimatore del Ruzante e vi lesse tutte le sue opere. Ai Giardini dell’Arena c’è un busto di bronzo a lui dedicato.
Recentemente, in seguito ad un restauro realizzato grazie al contributo dei Lions Padova è stata spostata la statua del Ruzante che per anni accoglieva gli studenti delle facoltà umanistiche dell’Università di Piazza Capitaniato. Oggi la statua di Ruzante è stata posizionata rivolta verso il Teatro Verdi facendo della zona un’area molto significativa per il teatro a Padova considerato il fatto che ad un centinaio di metri, nella stessa piazza Capitaniato, si può leggere il prologo de “La bisbetica domata” con l’omaggio di Shakespeare a Padova.
A Pernumia, paese natale e dove ha trascorso l’infanzia c’è una ricostruzione della sua casa che fu distrutta nel 1930. Sicchè se capitate a Padova volendo c’è la possibilità di percorrere le vie della città seguendo le tracce di Ruzante. Anche la scuola media che io ho frequentato in zona Paltana è intitolata a Ruzante ma non credo rientrerebbe nell’itinerario.
Ovviamente, non ho la pretesa ne le conoscenze per parlarvi in modo dettagliato delle opere del Ruzante ma se volete approfondire un po’ vi suggerisco di aprire e di leggere i siti segnalati dai link. Se non altro spero avrete capito a chi si sono ispirati i fondatori del famoso gruppo folkloristico de “I Ruzzantini pavani” che dal 1928 propongono in Italia e all’estero i loro spettacoli di musica, danze popolari e comicità facendosi allegri portavoce della cultura popolare nostrana.
Darcy Loss Luzzatto è l’uomo del Talian. Quel misto di dialetto veneto, lombardo, trentino, con un po’ di portoghese “venetizzato” che si parla nella Serra Gaucha, quella regione di Caxias do Sul, Bento Gonçalves e Garibaldi, nel cuore de Rio Grande do Sul, e in certe zone di Santa Catarina. L’immigrazione italiana è giunta su quelle colline del sud brasiliano, a quel tempo coperte solamente dalla Mata Atlantica, alla fine del XIX secolo, dal 1875 in poi. L’Italia era unita solo da quattro o cinque anni, ed era una congerie di parlate distinte: ad ogni 50 chilometri della penisola si confabulava in un dialetto diverso! I coloni italiani, inviati nell’interno del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina, venivano specialmente dalle zone alle spalle di Venezia, dalle campagne di Treviso, Padova, Belluno, dai paesi dell’alta Lombardia (Bergamo, Brescia) e dalle Alpi del Trentino. Non parlavano assolutamente italiano. In Brasile, essendosi tutti mescolati fra loro senza alcuna divisione territoriale, crearono con l’andare del tempo una vera e propria lingua comune, una koinè diálektos, un nheengatu del sud invece che del nord-amazzonico, che inglobava termini dei vari dialetti trapiantati in quella regione brasiliana, più un tocco di portoghese filtrato da quegli italici linguaggi. Così è nato il Talian, che alla fine del 2014, col Guarani e l’Asurini del Tocantins, è stato fra le prime lingue riconosciute come referenza culturale brasiliana dall’Istituto del Patrimonio Storico e Artistico Nazionale (Iphan). Questo perché esistono comuni del Rio Grande do Sul e Santa Catarina (più qualche paesino dell’Espirito Santo) nei quali il Talian è lingua praticamente co-ufficiale: ossia, ha in quei luoghi e fra quella gente la stessa importanza della lingua portoghese. Per legge, una lingua brasiliana passa a far parte dell’Inventario Nazionale della Diversità Linguistica (Indl) quando è parlata continuamente in territorio nazionale da per lo meno tre generazioni, da circa 75 anni. È il caso del Talian che alla fine è stato valorizzato come “aspetto rilevante del patrimonio culturale brasiliano”. E Darcy Loss Luzzatto ha scritto l’unico dizionario Talian-Portoghese che esista sul mercato!
“In realtà ne esiste un altro del polacco Alberto Vitor Stawinski che si intitola Dizionario Veneto-Portoghese-Italiano che però non si riferisce al Talian vero e proprio – puntualizza Darcy Luzzatto che oggi ha 82 anni – Come è nato il termine Talian? Nel 1978 mi ero riunito a Porto Alegre con i massimi esponenti di questa lingua vernacola: il frate francescano Rovílio Costa, l’architetto Júlio Posenato ed io. Cercavamo di uniformare la grafia. La pronuncia e le parole sono differenti, per esempio, da un bergamasco a un bellunese, ma nel momento di scrivere si deve scrivere alla stessa maniera. E ci chiedemmo: che nome metteremo a questa lingua? Rovílio diceva Veneto Riograndense, io parteggiavo per Veneto Brasiliano. Posenato preferiva Talian. Decidemmo che tre mesi dopo avremmo fatto una nuova riunione espressamente per il nome da dare alla nostra lingua. A Farroupilha c’era l’omaggio a padre Oscar Bertholdo, un sacerdote poeta che ha scritto ben 12 libri di poemi, e che anni dopo, nel 1991, sarebbe stato barbaramente assassinato nel corso di una rapina. Aspettavo sulla porta del comune perché ero arrivato prima. C’era solo una vecchietta con me. E allora le chiesi: nona, me capiu se ve parlo in Veneto? No caro, perdoname: forse se me parli in Talian. (nonna, mi capisci se ti parlo in Veneto? No caro, perdonami: forse solo se mi parli in Italiano). A voz do povo é a voz de Deus! Ho telefonato subito a Júlio e gli ho detto che aveva proprio ragione: che era Talian! E così è stato”. Darcy è un esperto di Talian da quando andava in giro per tutta quella vasta regione con lo zio carrettiere che lo portava con lui durante le vacanze da scuola. “Avevo 11 o 12 anni. Giravamo con un carro trainato da 8 mule. Sono andato a vagare con mio zio per anni. Nessuno come me ha una familiarità così completa con le parole e i modi di dire di tutti i discendenti dell’emigrazione italiana. Ho sfruttato queste conoscenze nel redarre il mio dizionario, che ho incominciato a scrivere a Porto Alegre, dove facevo l’editore, nel 1997. L’ho terminato solo sette anni più tardi: sono molto contento del risultato finale!”.
Darcy Luzzatto è nato a Pinto Bandeira, nel Rio Grande do Sul, il 27 ottobre 1934. A 12 anni è andato a studiare a Bento Gonçalves, e sino ai 17 a Farroupilha, che fino all’anno della sua nascita si era chiamata Nova Vicenza. Poi è arrivato a Porto Alegre dove si è laureato in matematica e fisica. Ha fatto il professore per molti anni scrivendo dei trattati di fisica. Con quei libri ha fatto irruzione nel mondo della letteratura che lo ha portato, dopo la fase di insegnamento, a diventare editore di libri scolastici per il liceo e l’università. Per quattro anni è stato editore dell’Università Federale del Rio Grande do Sul. “La mia vocazione per i libri deriva da mio nonno, Cristoforo Luzzatto. Il vecio Toffolo (il vecchio Toffolo) era una persona con studio, che sapeva parlare il bellorat (il dialetto veneto di Belluno), il francese, e che, secondo quanto diceva un vecchio prete di Pinto Bandeira, conosceva ancora più latino di lui. Parlava fluentemente l’italiano. Nessuno sapeva parlare Italiano in quegli anni. In paese c’erano sole tre persone che avevano cognizione della lingua di Dante: il vecchio Arpini, Pecoraro e Luzzatto. Tutti avevano studiato in Italia. Gli altri erano quasi tutti analfabeti e parlavano il dialetto d’origine. Mio nonno è stato molto male all’inizio vedendosi, lui colto, in mezzo a tutta questa ignoranza”. Il nonno Cristoforo è la persona che più ha influenzato Darcy nella sua vita. Era nato a Mel, un villaggio lungo il fiume Piave, in provincia di Belluno, nel 1869. Era di famiglia che stava bene, probabilmente ebrea. Avrebbe potuto fare carriera in Italia. Ma suo cognato, che aveva sposato sua sorella Marina (aveva un altro fratello di nome Bepi), lo aveva abbindolato scrivendogli cose affascinanti dal Brasile in cui era approdato qualche anno prima. Gli aveva mandato una lettera con l’assicurazione che lui, che parlava diverse lingue, avrebbe fatto soldi a palate nel Brasile di allora. Lo aveva ingannato. Lui è venuto nella Serra Gaucha pochi anni dopo, nel 1890, e subito dopo si è pentito. Ma era molto difficile tornare. E non è ritornato. “Il primo posto dove si sono fermati era Caravaggio, dove anche allora c’era il santuario della Madonna di Caravaggio, che in Italia è nei dintorni di Bergamo. Iniziò a fare il maestro, ma in Italiano. Poi venne a Pinto dove faceva lo scrivano. Gli era stato facile parlare e scrivere in portoghese: io dico sempre che chi parla una sola lingua è poco più di un muto. Con nonna Virginia hanno avuto nove figli. E quella di mia nonna è una storia ancora più incredibile!”
Lei era di Feltre, sempre vicino a Belluno, ma già in montagna. Si chiamava Virginia ma sempre si è fatta chiamare Emilia. E nessuno sa assolutamente il perché. “La sua è una storia stramba, interessantissima, da film, da telenovela…Ma molto triste. Sua madre si era sposata con un tipo che era dovuto partire subito per la guerra. Era il 1866 e infuriavano le battaglie fra l’Austria, a cui allora apparteneva il Veneto, e la Prussia. Non era più tornato. A distanza di tre anni la mia bisnonna era andata a chiedere consiglio al parroco e al sindaco. Le hanno riposto che suo marito, presumibilmente, era morto, e che facesse un po’ ciò che voleva. Allora lei si è sposata col fratello del suo primo sposo, e aveva messo al mondo una toseta (bambina), la nonna Teresa Virginia. Ma quando quella neonata aveva meno di un anno ritorna il primo marito. Qual’è il matrimonio che vale? Sono andati tutti a Belluno a parlare col prefetto e il vescovo, che alla fine hanno sentenziato che era il primo matrimonio quello che valeva. Al mio bisnonno è toccato andare via e di lui non se n’è saputo più nulla. Mia bisnonna è tornata col primo marito che ha portato subito Virginia all’orfanotrofio, l’ha messa nella roda delli esposti, l’ha lasciata con le suore. Ha vissuto così, quasi in clausura, abbandonata dalla sua famiglia, tutta la sua infanzia e adolescenza, finché non si è sposata con nonno Cristoforo. Da bambino ho chiesto a mia madre perché la nonna era sempre così cattiva. Se sapessi la sua vita saresti cattivo anche tu! è stata la sua risposta. Si è sempre fatta chiamare Emilia anche se tutti sapevano che il suo nome vero era Virginia. Chissà? Forse per cancellare qualcosa del suo passato. Un vero mistero!”.
Il nonno Cristoforo era di origini ebraiche. Darcy l’ha scoperto qualche giorno dopo la sua morte quando monsignor Luis Vitor Sartori lo ha condotto in sacrestia a Caravaggio e ha tirato fuori una lettera di proprio pugno del nonno. C’era tutta la storia della sua famiglia. I Luzzatto derivano il loro nome dalla Lusatia, che in latino indica la terra, ora divisa tra Germania e Polonia, ai confini della Cechia. Erano ebrei ed avevano cominciato a fuggire verso sud dai tempi della Peste Nera del 1348. Gli ebrei non si ammalavano come gli altri, soprattutto per le loro osservanze religiose in fatto di cibo, kosher, che proibivano di mangiare carne di porco. Chi erano i colpevoli per quell’epidemia mostruosa? Quelli che non morivano: quindi gli “odiati” ebrei! Alla fine di secoli di migrazione forzata erano approdati nel nord Italia. Qualche Luzzatto si era sposato con qualche cristiana e aveva rinnegato il credo giudaico. “A Conegliano c’è un cimitero ebraico dietro l’antico palazzo Sarcinelli. Ho chiesto se c’erano dei Luzzatto li e mi hanno indicato uno stemma sulle tombe, con un gallo che tiene con la zampa destra un fascio di frumento, e con sopra la testa una stella a cinque punte. Quelli sono Luzzatto. Era scritto tutto in sanscrito e io non capivo nulla. Ne ho trovate parecchie col medesimo simbolo. A mia zia ho rivelato la novità che siamo ebrei. Lei ha detto di smetterla con queste fandonie, che nonno Cristoforo andava a messa tutte le domeniche…Ma le ho risposto che se lui andava in chiesa, i suoi antenati erano andati in sinagoga. Amos Luzzatto, nato nel 1928 e credo ancora in vita, era un professore di Venezia che ho incontrato in uno dei miei viaggi. E’ stato presidente delle comunità ebraiche in Italia. Molti ebrei di Porto Alegre sono andati ad una conferenza che ha tenuto anni fa a Rio de Janeiro. Quando sono tornati andavano dicendo che erano andati ad ascoltare un mio parente!”.
Il padre di Darcy si chiamava Antonio ed era un figlio di mezzo di Cristoforo e Virginia/Emilia. Era nato a Caravaggio. Nella sua breve vita ha fatto di tutto: dal commerciante di cavalli e mule al salsicciaio, dal viticoltore all’albergatore. È morto a 43 anni perché a quel tempo non si sapeva quanto male facesse il metabisolfito di sodio che si attaccava come una crosta al legno delle botti di vino. “Mio padre entrava dentro alle botti senza nessuna protezione. Con uno zappettino tirava via le scagliette di metabisolfito per rivenderlo. Sono tutti morti di epatite senza sapere perché. Respiravano quella polvere e invece di mettersi una rete davanti alla bocca fumavano un sigaro, il che era peggio ancora. Mi aveva fatto una zappettina piccola e mi avrebbe portato dentro le botti senza sapere che faceva il mio male. Ma è morto prima”. Sua madre, Ester Loss, era nata a Bento Gonçalves. Loss di padre e di madre. Perché a Caoria, frazione di Canal San Bovo, nella valle trentina di Primiero da cui provengono i nonni di Darcy, si sposavano anche fra cugini. “Mi ricordo che nel 1978, quando sono andato per la prima volta in Italia, a Caoria era domenica e tutti erano nella piccola chiesetta. Ho chiesto ad un prete se in paese c’erano dei Loss. Mi ha risposto che tutti erano Loss, e se non conoscevo il nomignolo di mio nonno. Io lo sapevo: Remesor. Finiti! Il sacerdote mi ha detto che non c’erano più Remesor, come non restavano più Losset, soprannome dei Loss di mia nonna. Il nonno Loss gh’avea gli schei, era danaroso, e aveva a Bento due segherie con due mulini ad acqua. Quando sono nato abitavamo a Pinto Bandeira che a quel tempo si chiamava Nova Pompei. Qui, dove vivo di nuovo adesso, c’è il santuario della Madonna del Rosario di Pompei. Ma con l’Estado Novo, durante la dittatura Getulio Vargas, erano stati proibiti i nomi stranieri. Allora l’hanno sostituito con Pinto Bandeira. Chi era costui? Un personaggio che non ha niente a che vedere con noi. Rafael Pinto Bandeira era nel XVIII secolo un colonnello dell’esercito portoghese che faceva guerra nel sud del Brasile ogni volta che gli uruguaiani si spingevano dentro al Rio Grande do Sul. Non è mai venuto qui. Non c’entra niente con questa cittadina. Chiamiamo il nostro paese di Pinta e i pintaroi sono i suoi abitanti. Era un termine negativo che adesso è diventato positivo e ce lo godiamo. Come il vocabolo “gaucho” che in origine era sinonimo di ladro, assaltante di strada, delinquente… Ma poi, col passare del tempo, quando i gauchi hanno aiutato il governo centrale a respingere quelli che parlavano spagnolo, sono diventati rispettabili e importanti, ed oggi tutti hanno l’orgoglio di essere gauchi. Ma io dico sempre: guardate indietro!!!!”.
Darcy Luzzatto, corporatura forte ed occhi pieni di simpatia, racconta un storiella che è all’origine della sua passione per la lingua Talian. “Mi sembra di vedere tutto come allora. Mia madre nella cucina dell’albergo, mia sorella più vecchia a lavare i piatti. Mio padre era appena morto. Avevo 10 anni. Io mi occupavo di quelli che bevevano qualcosa nel ristorante e nel bar. Era il 1944. C’era gente che giocava alle carte, e tre o quattro persone in piedi attorno, che stavano a guardare. All’improvviso è entrato un bell’uomo, non molto alto ma con una corporatura forte e un piglio deciso, tutto vestito di nero, con gli stivali neri, e con una camicia bianca, senza cravatta ma con un fermaglio d’oro al collo. Si è seduto tranquillo guardandosi attorno. Era l’epoca della seconda guerra mondiale: il Brasile era contro l’Asse e parlare Talian era vietato. Si vede che le persone presenti hanno suscitato la sua completa fiducia e mi ha detto: ceo, dame un cichet de cachaça! Uno che stava assistendo al gioco è uscito di soppiatto ed è ritornato poco dopo con un commissario di polizia di nome Fernando Fernandes. L’ha preso, arrestato, cacciato fuori, e rinchiuso nella cantina del municipio che fungeva da prigione perché, in quei tempi benedetti, non era necessaria la prigione. Se lui avesse voluto spaccava a metà sia il poliziotto che la spia che era di Bergamo ed era soprannominata “Magro” per il fisico minuscolo che aveva. Ma a quel tempo c’era un altro rispetto per la legge. Lo guardavo dalla finestra dell’albergo mentre andava avanti e indietro per quella prigione fasulla. Non aveva fatto nulla. Era finito là solo perché non poteva parlare la sua lingua nella sua terra. È stata una cosa impressionante che all’inizio dell’adolescenza mi ha marcato molto. Il giorno dopo è uscito, è montato a cavallo e prima di andare via ha detto: avvertite il Magro che se passa davanti a casa mia è un uomo morto! Per 50 anni il Magro, fino a quando non è mancato, non è mai passato di là tanta era la paura che gli aveva messa addosso. Questa è la storia di come era cattivo parlare Talian a quell’epoca. Quel fatto è stato la molla originaria per farmi scrivere e per cercare di far rivivere la nostra lingua. Per me è stato l’inizio di tutto!”.
Darcy si è sposato la prima volta che era molto giovane. Dice di avere sbagliato, perché non sapevano vivere assieme. Lei era tedesca. “Ho rischiato di diventare un alcolizzato. Quando sei in crisi non sai con chi parlare, non stai bene: e alora t’inciuchi (e allora ti ubriachi). Poi per fortuna è venuta Elisa che ha ridato sapore alla mia vita. Abbiamo due figli, Antonio, giornalista, e Carolina che è andata a studiare in Germania dove si è sposata. Ho due nipotini: Maximilian e Carlota, uno suona la tromba e lei il trombone a coulisse”. I due nipoti tedeschi di Darcy hanno imparato a leggere e a scrivere prima il Frankische, il dialetto tedesco della regione in cui vivono, del “Deutch”, come i cimbri e i ladini che ora apprendono prima la loro lingua dell’Italiano. Secondo Luzzatto così dovrebbe essere anche qui, su queste magnifiche colline brasiliane di selve e vigneti. Durante le celebrazioni dei 100 anni dell’emigrazione italiana, nel 1975, l’allora vice-direttore dell’Università di Caxias, Mario Gardelin, gli ha detto: Luzzatto, tu parli bene il Talian, dovresti anche scriverlo. “Quando sono ritornato a casa l’ho detto a Elisa e mi sono messo a pensare. Da qui è nato il primo libro in Talian e da allora non mi sono più fermato. Se tornassimo a 50 anni fa, tutti parlavano Talian. Tutti, proprio tutti! Le professoresse brasiliane esigevano il Portoghese e dicevano che il nostro palare era da stupidi e da ignoranti. I vecchi non ci avevano mai parlato dell’Italia. Noi non sapevamo dell’importanza di Venezia nel mondo, una città fantastica con una storia eccezionale! Se l’avessimo saputo potevamo rispondere a quelle professoresse che quando il Portogallo non esisteva ancora, che non c’era nessuna lingua portoghese, a Venezia parlavamo già il Veneziano, e si parlava Veneziano lungo tutto l’Adriatico, nelle isole del Mediterraneo orientale, fin nel Mar Nero. Ma non ci avevano mai detto nulla di tutto questo: anche mio nonno che era una persona colta ed intelligente”.
Frate Rovílio Costa, un santo secondo Luzzatto, soleva dire che “tute le lengue xè bele, ma la più bela de tutte xè quel ca g’avemo ciuccià ne tette da mama!” (tutte le lingue sono belle, ma la più bella di tutte è quella che abbiamo succhiato dai seni della mamma). La lingua materna è quella del sentimento. “La rabbia e le carezze vengono fuori sempre in Talian – conclude Luzzatto, preparando una fortaia (frittata) squisita nella sua casa di Pinto Bandeira – La lingua è dentro di noi e si manifesta senza volere. Non riesco proprio a scrivere delle poesie in portoghese. In Talian invece… Una volta ero a Murano, l’isola del vetro nella laguna di Venezia. Un soffiatore che mi ha sentito parlare mi ha detto che grosso modo mi capiva, anche se parlavo una mescola di parole trentine, bellunesi, trevigiane, e altre che non riusciva a comprendere. Ma sei di Trieste? mi ha chiesto alla fine. Non capirai mai da dove vengo, gli ho risposto. No, non sono friulano, trentino, altoatesino, lombardo, o di qualche zona sperduta del Veneto. Sono del Rio Grande do Sul, in Brasile, una landa a più di 12 ore d’aereo da qui, dove il Veneto che si chiama Talian, dopo anni di sofferte persecuzioni, ora è diventato un lingua ufficiale brasiliana: è considerato più che in Italia!”
“Veneti del Pacifico” è una piattaforma fatta di storie. Storie di persone che credono nella loro cultura e nelle loro tradizioni. Persone legate in modo indissolubile alla loro terra di origine, il Veneto. E se le “radici profonde non gelano”, vogliamo mantenerle vive, sentirle vicine e cercare di capire un po’ di più il loro mondo. Un mondo fatto di ricordi, di canti, di tradizioni e di condivisione.
In preparazione delle cerimonie per i 500 anni dalla prima circumnavigazione del globo alla quale Antonio Pigafetta prese parte insieme a Magellano tra il 1519 ed il 1522, I Veneti del Pacifico (Perù e Cile) vogliono omaggiare con questo sito i primi e veri scopritori dei loro paesi.
Il sito www.venetidelpacifico.org (online dal 30 ottobre 2017) è stato ideato e realizzato dall’Associazione Veneti nel Mondo con il contributo dell’Assessorato ai Flussi Migratori della Regione del Veneto e la collaborazione dell’Associazione Veneti nel Mondo Perù, dell’Associazione Veneta del Cile e dell’Associaizone Imprenditori Veneti del Cile.
La Pala d’oro conservata nel Museo della basilica di San Marco a Venezia è un grande paliotto in oro, argento, e pietre preziose.
La grandiosa opera di oreficeria venne prodotta appositamente per la Basilica di San Marco a Venezia nel X secolo ed arricchita fino al XIV secolo. Il primo documento che la cita risale alla fine del X secolo e durante il dogato di Ordelafo Falier (1102-1118) venne ampliata, poi molto arricchita nel 1204 dopo la conquista di Costantinopoli e di nuovo implementata nel Trecento con l’inserimento di cornici e castoni gotici.
Il corredo degli smalti è tra i più rilevanti nel suo genere. Alcuni risalgono alla metà del XII secolo (il Pantocratore, gli arcangeli, le feste) e sono pezzi pregiatissimi, tra i vertici dell’arte bizantina del tempo. Grande è l’eleganza del disegno delle figure e la loro realizzazione richiese un notevole virtuosismo tecnico, con l’uso della tecnica cloisonné. La pasta vitrea usata è sottilissima e lascia intravedere il fondo pure coperto di oro. La Pala contiene 1401 gemme e 526 perle. Le opere di oreficeria della sua “architettura” ripropongono la forma di una cattedrale proiettata su un unico piano. Le formelle a cloisonné incastonato hanno la stessa funzione delle vetrate, dato che i raggi di luce trapassano gli smalti traslucidi, vanno ad incidere la lamina dorata ad essi sottostante e da essa si riflettono. Si ha l’impressione di una luce che penetri dal retro, cioè dall’esterno della Pala come avviene appunto negli edifici di culto gotici attraverso le finestre a vetri istoriati. Gli smalti sono di Bisanzio, la cornice è di gusto francese.
Nella parte superiore sono riportati sei riquadri con altrettante “feste” della chiesa secondo la serie bizantina disposti ai lati dell’Arcangelo Michele (da sinistra, l’Entrata in Gerusalemme, la Resurrezione, la Crocifissione, l’Ascensione, la Discesa dello Spirito Santo, la Morte della Vergine). L’insieme della parte inferiore appare come la città di cui parla l’Apocalisse di san Giovanni al capitolo 21: “…le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro simile a terso cristallo, le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose”.
Al centro sta la figura del Cristo Pantocratore, ossia Signore dell’Universo, su un trono gemmato, con la mano destra alzata nel gesto della benedizione e la sinistra che tiene il Libro aperto, ornato di pietre preziose che esprimono lo straordinario valore del suo annuncio. Attorno i quattro evangelisti stanno scrivendo ognuno il proprio vangelo. Al di sotto di Cristo, in linea diretta, si trova sua madre, la Vergine Maria, in atteggiamento orante, e ai suoi lati i due donatori: il doge Ordelaffo Falier e Irene, imperatrice di Bisanzio. Sopra la figura del Cristo è rappresentata l’etimasia, la preparazione del trono per il giudizio finale tra due cherubini e due arcangeli. Ai lati della composizione centrale, trovano posto, in successione gerarchica dal basso verso l’alto, dodici profeti, dodici apostoli, dodici arcangeli. Allineate superiormente e racchiuse tra diaconi che spargono incenso, si trovano quasi tutte le “feste” della chiesa bizantina (manca la Dormitio Virginis), da sinistra: Annunciazione, Natività, Presentazione al Tempio, Battesimo di Gesù, Ultima cena, Crocifissione, Discesa al Limbo, Resurrezione, Incredulità di Tommaso, Ascensione, Pentecoste. Ai lati, in posizione verticale, in dieci riquadri sono rappresentati, a sinistra, i fatti salienti della vita di san Marco e, a destra, gli episodi relativi al suo martirio ad Alessandria d’Egitto e al trasferimento del suo corpo a Venezia.
La luce è l’elemento di unità tra la tradizione bizantina e quella gotica: luce metafisica nelle formelle dorate e cloisonné costantinopolitane e luce analogica (che eleva dall’umano al divino) nell’architettura gotica, ma pur sempre luce. Le gemme completano l’immagine della Gerusalemme Celeste secondo la descrizione dell’Apocalisse.
L’intervista che vi proponiamo di seguito fa parte di un lavoro di ricerca sulla memoria che Medda Costella sta portando avanti nell’agro di Arborea (paese della Sardegna, terra di emigrati Veneti), per rendere merito e dare voce ai figli di questa terra che col loro sacrificio hanno contribuito a far crescere questo angolo di Sardegna.
Tempo fa, sfogliando una monumentale opera sulla bonifica di Mussolinia/Arborea, mi ero imbattuto in una lettera del 1932 scritta da uno dei protagonisti di quella grandiosa epopea della storia del novecento sardo. La particolarità non stava tanto nel raccontare ai propri famigliari rimasti nella terra d’origine la vita condotta in Sardegna, quanto nella presenza nel testo della parola “barbagigio”, impiegata per indicare i frutti della pianta d’arachide. Nella piana, salvo il termine italiano, questo legume di origine brasiliana è noto come “bagigio”. Assodato che la maggior parte dei mezzadri arborensi giunsero da precise aree del Veneto dove questa parola è utilizzata, la diffusione del vocabolo “barbagigio”, per quanto intuibile nel significato, interessa invece la parte alta della provincia di Treviso e il bellunese, da dove non risultano, se non con qualche eccezione, degli arrivi. Così, alla prima occasione in cui sono potuto entrare in contatto con qualche famigliare, ho cercato di approfondire la questione.
Vittoria Peterle è la figlia di Armelindo, colui che scrisse materialmente la lettera. È nata nel 1933 e oggi vive nell’agro di Arborea, in un podere della strada 22. Ci siamo dati appuntamento in un pomeriggio d’estate, grazie al nipote Antonio, figlio di un suo fratello, lui stesso desideroso di conoscere parte della propria storia famigliare.
I Peterle sono arrivati ad Arborea da Tambre, o meglio da Tambruz, in provincia di Belluno. È il 14 luglio. Ricorre la presa della Bastiglia, ma alla televisione scorrono le immagini degli ultimi chilometri della tappa del Tour de France, che mostrano per l’occasione il sardo Fabio Aru in maglia gialla. Aspettiamo la conclusione per vedere se il campione di Villacidro potrà continuare a guidare la classifica della Grande Boucle mantenendo la maglia gialla. E cosi sarà. La televisione può essere spenta, sentenzia Vittoria. Ha molte cose da raccontare e inizia subito con un aneddoto narratole dal padre sul paese d’origine:
«Lori iera boscaioi e andavano a taiar la legna. A un certo momento si staccava un, e se portava via il fusile. E come vedeva un cunicio ghe sparava per magnarselo con la polenta. Però quei de Tambre i fa la polenta dura e invece i trevisani (zona d’origine del marito) i la fa molla. Cussì lori i la tagliava e i la sentava sora la pianta. Ma la pianta iera taiada in pendenza, e cussì la polenta ga comincià a rodolare, zo da la montagna. E alora un ga comincià a gridare ‘ciapalaciapalaciapala’…cussì quel col fusile pensava che fossi un cunicio e se ga messo a spararghe! Col fusile no? E invece iera la polenta che rodolava».
Il suo veneto è ancora vivo, forse un po’ italianizzato, ma la cosa straordinaria è che alla sua pronuncia è intercalato un sardissimo “eja” per annuire. Scopro che Armelindo non è mai stato mezzadro della Società Bonifiche Sarde, la s.p.a. che ha realizzato la bonifica della piana di Arborea, e che ha reclutato le famiglie da insediare nei poderi. Egli aveva infatti preso in affitto un appezzamento, vicino a quello che è oggi il campo sportivo, per diventare il primo ortolano del paese, pagando direttamente all’azienda un corrispettivo. Questo motiva l’assenza della famiglia Peterle dal manifesto dei pionieri della “Bonifica Sarda” che la SBS realizzò al tempo e che oggi fa bella mostra in tantissime case dell’agro. Vittoria non ricorda esattamente in che anno il padre sia giunto a Mussolinia, ma è certa che arrivò in Sardegna come carpentiere, insieme ai suoi fratelli Toni e Treo, lavorando per la costruzione del villaggio e in particolar modo del silos. «Gavevo anca le fotografie con lu davanti, coi ciodi e il martello, ma go perso tutto. Lori iera gente che andava in giro per il mondo per lavoro. Andavano tanto in Belgio e i l’è andai anca in Sicilia. Mentre i miei zii ze poi ripartii, lu se ga fermà», dice rimarcando la loro abitudine a spostarsi dove il lavoro lo richiedeva. E prosegue «De là a Tambruz iera tutto un altro ambiente rispetto a qua. […] Me pupà ga fato de tuto de più. Gaveva anca una trattoria che ancora oggi esiste e se ciama “All’Alba”». Cerca di far mente locale per ricordare i racconti ricevuti, tanto più quelli riguardanti i suoi compaesani ed è certa che molti di loro facevano cucchiai e mestoli di legno per essere venduti nella bassa, verso Treviso. «Me disea sempre che lori iera simberli (cimbri) e quando che iera arrabià disea delle parole in tedesco. A noantri ghe vegneva da ridere, ma no se podeva, se no partiva sciaffe, […] ma a in casa ghemo sempre ciacolà in veneto». Leggenda vuole che le comunità cimbre siano originarie dello Jutland in Danimarca e che a seguito della sconfitta subita a opera dei romani a Vercelli guidati da Gaio Mario nel 101 a.C. si siano poi rifugiate nelle Prealpi Venete. In realtà secondo studi più contemporanei, queste popolazioni dalla parlata germanica sono arrivate da una zona della Baviera intorno al 1200 d.C. La comunità dell’Alpago è per giunta di recente costituzione, formatasi da un esodo migratorio da Roana, nell’Altipiano di Asiago (storico insediamento cimbro), incentivato agli inizi dell’800 dall’Arsenale di Venezia, per il recupero del legname nella foresta del Cansiglio, fondamentale per la costruzione degli scafi e gli stessi pali di legno della Laguna.
Nella famiglia di Vittoria erano in nove tra fratelli e sorelle. «Alora ischei no ghi n’era. I spetava che la gaina fasea ‘cheocheo’ per tirarghe el collo e far el brodo». Vita non facile per quei tempi e il lavoro era sempre in avanzo alla strada 19, tanto che ai Peterle serviva parecchia manodopera: «Allora no iera trattori e se dovea far tuto a man». Prendevano così qualche operaio del posto, ma anche dai paesi limitrofi e per le esigenze straordinarie non si risparmiavano nemmeno i bambini di casa: «anca noi fioi de nove e diese ani ghe tocava lavorare come che tornavimo dalla scuola. Ancora me ricordo quel che se dovea far par la semina». Qualche anno dopo, nello stesso caseggiato colonico arrivò la famiglia Favalessa (da Cessalto), con un figlio di nome Giordano (Cilo), futuro sposo di Vittoria.
Più nitidi i ricordi della guerra e dei soldati che bussavano alla porta della loro casa per chiedere da mangiare. «I tedeschi gavea sempre fame, ma quando zè rivai gli americani l’è sta tutta un’altra roba. I vegneva a tor la verdura, però i portava scatolette, formajo e tanto altro». Poi però un giorno Armelindo tornò a casa per avvertire tutti che rimanere lì era pericoloso. La possibilità di uno sbarco alleato non era ipotesi remota e il vicino campo sportivo era pieno di militari, bersaglio appetibile per l’aviazione nemica. Si decise quindi il trasferimento nella casa della famiglia della moglie (Cenghialta da Brendola), che all’epoca viveva dove oggi sorge il centro fieristico. Ricevettero due coperte e un paio di sacchi da stendere in terra per poter dormire, con un orecchio sul cuscino e l’altro proteso verso l’esterno, pronto a cogliere qualsiasi vibrazione che poteva annunciare un attacco. Così una notte gli anglo-americani iniziarono a lanciare i bengala per avere più luce e poter eventualmente bombardare, costringendo tutti quanti a cercare rifugio nell’improvvisato riparo antiaereo che si era costruito vicino al canale.
I ricordi di Vittoria bambina non si fermano qui e proseguono con il sabato fascista, quando da “piccola italiana” andava a marciare nell’impianto della GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Era presente anche alla seconda visita di Benito Mussolini nel 1942. Un’altra volta invece, pensando di accogliere il duce, la fecero esercitare per giorni e giorni, per un saggio ginnico nel campo di atletica in cui insieme a tante altre compagne avrebbe dovuto formare la scritta “Viva il Duce”. Ma arrivò il triestino Aldo Vidussoni, all’epoca segretario del PNF, e che sarebbe tornato nella piana alla fine della guerra per trasferirsi con la propria famiglia.
Nel 1944 con la caduta del regime anche Mussolinia deve essere defascistizzata. Nasce Arborea. In onore del glorioso giudicato sardo, in linea con quelli che sono i nuovi sentimenti nazionali. L’avvicendamento politico non riguarda soltanto il cambio del nome al centro, ma anche lo smantellamento dei simboli che hanno caratterizzato l’intero territorio italiano per un ventennio. «Allora si aveva la foto nel duce nelle case. Quando l’è vignu zo il regime quei de la SBS i la cavae via. Ricordo anche il busto del duce, quelo de la GIL, che è stato portato via col carrello. La gente i ghe buttava sterco, ghe spudava». Sono cosi buttati giù a colpi di martello anche i fasci littori dalle case coloniche e dalle stalle, oltre che dagli altri edifici maggiormente rappresentativi della piana, in preda a una furia iconoclasta che non esenta neanche la cittadina che si era fregiata del capo del fascismo.
L’Italia repubblicana spazzò via, con molta calma, anche l’entourage della vecchia dirigenza SBS e i terreni poterono così essere finalmente riscattati dai mezzadri che, a partire dal 1955, divenuti assegnatari si associarono in più cooperative. Nel 1967 Vittoria si trasferì nella strada 22, insieme al marito Cilo, quando in seguito all’abbandono delle campagne di moltissime famiglie che ripartirono per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia, ebbe la possibilità di prendere un podere e mettere su famiglia.
Peterle è oggi un nome conosciuto in tutta la Sardegna. La famiglia continua a fare, con fatica e professionalità, ciò che il nonno Armelindo da pioniere dell’orticoltura aveva avviato. Alcuni nipoti negli anni ’90 hanno perfino aperto un vivaio, oggi leader nell’isola per la produzione di piante e all’avanguardia in Europa per l’utilizzo di tecnologie e sistemi di produzione, senza aver mai dimenticato da dove tutto ebbe inizio, quando quella polenta cominciò a rotolare nei boschi dell’Alpago…ciapila! Ciapila!
Il nipote Antonio, citato nell’intervista, oltre a lavorare nell’azienda è anche socio fondatore del circolo Veneti nel Mondo-Sardegna con sede in Arborea.
La Basilica di San Marco così come la vediamo oggi è la terza chiesa costruita nel medesimo sito e dedicata al Santo.
Una prima chiesa, voluta come sepolcro del santo, viene costruita dopo l’anno 828 quando i Veneziani trasportano il corpo di San Marco da Alessandria d’Egitto, da dove viene trafugato. Sulla forma di questa prima chiesa sono possibili solo ipotesi basate sui pochi ritrovamenti archeologici. Sicuramente la prima san Marco ha dimensioni più piccole rispetto all’attuale. La struttura modificata di questa chiesa diventerà l’attuale cripta.
Nel 976 un incendio si estende da palazzo ducale alla chiesa, distruggendola in gran parte. Una seconda basilica sorge dal restauro che segue alla distruzione.
La costruzione della terza ed ultima basilica ha inizio nel 1063. Modifiche e trasformazioni si protraggono per secoli. E’ possibile ipotizzare tre fasi nella terza San Marco, coerenti con la sequenza degli avvenimenti politici e collegate a tre dogi della Serenissima: Domenico Contarini, Domenico Selvo e Vitale Falier. Domenico Contarini da inizio alla costruzione nel 1063.
A partire dal 1071 Domenico Selvo avvia la decorazione musiva all’interno della chiesa non finita.
Vitale Falier la consacra e dedica a San Marco l’8 ottobre 1094.
Ultimata questa fase la chiesa appare con cinque cupole ribassate, ricca di colonne, cornici e capitelli ordinati a Costantinopoli e caratterizzata da un linguaggio romanico, in particolare nelle pareti di mattoni.
I primi vent’anni della nuova basilica sono attraversati da eventi rovinosi, grandi incendi e terremoti. In questo periodo vengono inglobate nei fronti nord e sud le preesistenti murature di San Teodoro e del Palazzo Ducale per irrigidire il sistema cupolato non sufficientemente stabile. Nel 1177 il doge Sebastiano Ziani realizza una terrazza su tutto il fronte e certamente amplia o completa il nartece ovest. Dalla terrazza si può osservare la nuova piazza San Marco, ottenuta dopo la copertura del rio Batario.
Ulteriori informazioni su: www.basilicasanmarco.it
Nei primi secoli il doge aveva potere assoluto e, dato che poteva associarsi un coreggente di fiducia, provvedeva anche alla propria successione: la carica era praticamente ereditaria e trasmetteva il proprio potere al casato di appartenenza. Questo stato di cose però non era gradito alla nascente aristocrazia mercantile. Si avviò allora un inarrestabile processo di limitazione del potere ducale.
Dal 1032 fu proibito al doge di associarsi un co-reggente. Nel 1143 sotto il dogado di Pietro Polani (1130-1147), al doge si affiancarono due consiglieri: un dogado ereditario rappresentava in effetti una forma di monarchia assoluta, ben lontana da quel concetto politico di aristocrazia nobiliare meritocratica cui la società veneziana sostanzialmente tendeva.
Simbolo della Repubblica
Gradualmente il doge non diventò che il simbolo della Serenissima e un vero e proprio prigioniero del suo ruolo. Perfino la sua gondola non era molto più lussuosa di quella degli altri patrizi. E se gli spettava l’appartamento in Palazzo Ducale, all’arredo doveva provvedere di persona. Naturalmente doveva pagare le tasse come ogni altro cittadino, anche se la somma di denaro che gli veniva corrisposta trimestralmente era così esigua da richiedere una grossa integrazione personale.
Pur essendo il capo dello Stato non godeva di alcun titolo principesco, era solo Serenissimo, più per riflesso della Serenissima Repubblica, che per se stesso.
Tra i requisiti per l’elezione a doge era richiesto anche quello dell’età. Dal 1355 al 1772 il candidato non doveva avere meno di trent’anni, in seguito l’età fu portata a quaranta. In realtà pochi ascesero al soglio ducale in età giovanile, la scelta cadeva di solito su personaggi anziani o addirittura vecchi, non solo perché si riteneva avessero più esperienza negli affari di Stato, ma anche perché si presumeva non dovessero rimanere a lungo sul trono, e ciò garantiva un’alternanza naturale per la quale non erano necessarie espedienti di altro genere.
La funzione del doge era principalmente quella di rappresentare Venezia e di manifestarne la magnificenza nelle cerimonie pubbliche e nelle relazioni diplomatiche con gli altri Stati. L’unico potere effettivo che non gli fu mai sottratto fu quello di comandare la flotta e guidare l’armata in tempo di guerra. Per il resto egli si limitava a sedere a capo della Signoria, formata dal doge stesso, da sei Consiglieri ducali eletti dal Maggior Consiglio e dai tre capi della Quarantia Criminale, che costituiva un tutt’uno con il potere ducale e comprendeva il doge e gli uomini incaricati di coadiuvarlo e sorvegliarlo.
Nei ritratti ufficiali vediamo il doge con la veste scarlatta di prezioso broccato, spesso con manto e collare di ermellino, sul capo il corno che nelle grandi occasioni era tempestato di pietre preziose: il “signore di Venezia” doveva però provvedere al proprio guardaroba.
In politica estera il doge poteva esprimere una linea di condotta ma non sempre le sue direttive erano seguite; non poteva incontrare gli ambasciatori se non in presenza di consiglieri o senatori. Non poteva rassegnare le dimissioni se non in casi eccezionali.
Circondata di sfarzo la carica dogale era costosa e i dogi dovevano contribuire al proprio mantenimento: per questo la nomina era di fatto appannaggio dell’aristocrazia più ricca. Gravosi i divieti che limitavano pesantemente perfino la loro stessa vita privata: non poteva possedere beni fuori dello Stato né allontanarsi dalla città senza il consenso della Signoria.
Al doge era inoltre proibito spedire o aprire lettere se non erano presenti almeno due testimoni, accettare regali da persone che non appartenevano alla sua famiglia, permettere ai sudditi di baciargli la mano o di parlargli stando in ginocchio.
Non poteva neppure recarsi privatamente a far visita a parenti e amici o frequentare teatri se non accompagnato da qualche consigliere; non poteva uscire da palazzo se non nelle occasioni stabilite dal protocollo; come privato cittadino poteva uscire di casa ma doveva sempre essere accompagnato e per uscire dalla città doveva chiedere ed ottenere una particolare licenza.
Leggendo le descrizioni e le cronache delle apparizioni pubbliche del doge, non si potrebbe sospettare che egli fosse “…re nella porpora, senatore nel senato, prigioniero nella città, cittadino privato fuori della città”.
Il funerale del doge
Alla sua morte gli venivano tributate esequie solenni ma private. Venezia non portava alcun lutto: si diceva “È morto il Doge, non la Signoria”.
Al funerale partecipavano tutti i preti e i frati della città, le autorità, gli ambasciatori, i patrizi e il popolo. La salma veniva esposta nella sala del Piovego, con il corno in capo, gli speroni ai piedi e la spada al fianco; gli arsenalotti delegati al suo trasporto giunti davanti alla porta della basilica, la sollevavano per ben nove volte mentre la loro invocazione, “Misericordia”, risuonava alta nel silenzio profondo della piazza. Era il rito del “salto del morto”.
A partire dai primi del Cinquecento il doge fu seppellito in stretto riserbo e per le onoranze funebri la sua salma veniva sostituita da un fantoccio di paglia con una maschera di cera che riproduceva le sembianze del defunto. L’usanza era stata originata dalla paura del contagio in tempo di pestilenza.
La vita religiosa
La carica dogale ebbe anche connotazioni religiose.
Con l’arrivo a Venezia delle spoglie dell’evangelista Marco nell’anno 828 e l’edificazione per opera del doge Giustiniano Partecipazio (827-829) della prima chiesa dedicata a san Marco, il doge divenne il capo di questa chiesa con prerogative episcopali sulla speciale diocesi nullius dipendente dalla basilica e retta a suo nome da un Primicerio.
Il doge aveva l’obbligo di assistere, almeno tre volte alla settimana, alla celebrazione della messa nella basilica che, come cappella ducale, era alle sue dirette dipendenze.
Lo stesso papa Clemente V riconosceva al doge alcuni poteri attinenti, ad esempio, alla nomina dei vescovi. La questione della duplice natura del potere ducale fu discussa anche durante il Concilio di Trento del 1545-1563, nel quale, riconoscendo che il doge rappresentava la chiesa ma non era né un vero e proprio vescovo, né solamente un principe, si dovettero modificare le formule conclusive per comprendere a fianco dei vescovi e dei principi, anche il doge di Venezia.
Proprio per queste caratteristiche e questa indipendenza dal potere papale, continue furono le tensioni con la chiesa di Roma ed i vari papi che spesso colpirono la Repubblica con interdetti e scomuniche.
Fonte: venipedia.it
«La mayor jornada que vieron los siglos» (la più grande giornata che videro i secoli)
Miguel de Cervantes, autore del Don Chisciotte
All’alba del 7 ottobre 1571 una gigantesca flotta ottomana, la più numerosa mai schierata nel Mediterraneo, avanzava lentamente, con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, un’enorme e minacciosa mezzaluna che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell’Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud.
Al centro della mezzaluna che avanzava, sulla nave ammiraglia, chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah.
Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d’Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l’un l’altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finché il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l’attacco decisivo.
Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano.
Si coprirono di valore tra gli altri i Colonna e gli Orsini, sette della stessa famiglia, il conte Francesco di Savoia che cadde in battaglia, il ventitreenne Alessandro Farnese, destinato a divenire uno dei maggiori condottieri del secolo, Giulio Carafa che, preso prigioniero si liberò e si impadronì del brigantino nemico, ed i veneziani tutti che pagarono il maggior tributo di sangue.
Il provveditore veneziano Agostino Barbarigo che comandava l’ala sinistra dello schieramento cristiano, si batté, fino a che non gli mancarono le forze, con una freccia infitta nell’occhio sinistro. Sulla sua ammiraglia, Sebastiano Venier, combatté a capo scoperto. Sopraffatto dal numero viene soccorso dalle galee di Giovanni Loredan e Caterino Malipiero, che trovano la morte nella lotta.
Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono più di 25.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell’impero ottomano.
Nel pomeriggio del 7 ottobre, Pio V che aveva moltiplicato le preghiere a Colei che sempre aveva soccorso i cristiani nelle ore drammatiche della cristianità, stava esaminando i conti con alcuni prelati.
La Storia ci tramanda che d’improvviso il Papa, fu visto levarsi, avvicinarsi alla finestra fissando lo sguardo come estatico e poi, ritornando verso i prelati esclamare: “Non occupiamoci più di affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto vittoria”.
Il Pontefice attribuì il trionfo di Lepanto all’intercessione della Vergine e volle che nelle Litanie lauretane si aggiungesse l’invocazione Auxilium christianorum. Anche il Senato Veneziano, composto da uomini fieri e rotti a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, volle attribuire alla Santissima Vergine il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit” (non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori).
Si parla molto in questo periodo di Catalogna, per gli eventi sociali e politici che stanno succedendo in quella terra. Ma dove affondano le radici e la cultura del Popolo Catalano? Come si è svolto uno dei percorsi culturali più importanti, che hanno messo le basi per una identità nazionale così forte tanto da pretendere oggi la piena indipendenza dal resto della Spagna? Parliamo della LINGUA CATALANA.
INTERVENTO DEL PROF. PATRIZIO RIGOBON, DOCENTE DI LINGUA E CULTURA CATALANA PRESSO L’UNIVERSITÀ “CA’ FOSCARI” DI VENEZIA
Questa è la trascrizione, riveduta, corretta e adeguatamente aggiornata, di un intervento in una tavola rotonda svoltasi qualche anno fa a Treviso dal titolo “Veneto, na £engoa europea”.
Durante questo incontro, organizzato dall’Associazione Veneto Nostro – Raixe Venete, si è discusso anche della lingua catalana, importante esempio di tutela e valorizzazione linguistica in Europa. Il testo risente della relazione concettuale con gli interventi che l’hanno preceduto ed a cui si fa allusione. Tali riferimenti sono stati tuttavia mantenuti.
È certamente significativo il fatto che esistano al di fuori della Catalogna, in questo caso in Italia, persone che, come chi vi parla, insegnano -e non sono proprio pochissime- una disciplina universitaria che si chiama “lingua e letteratura catalana” (per un elenco completo degli insegnamenti di questa lingua e letteratura in Italia, si veda il sito: www.filmod.unina.it/aisc , link “Il catalano in Italia”). Si tratta ovviamente di un segno che può dirci molto anche sul criterio di discriminazione tra “lingua” e “dialetto”, or ora autorevolmente trattato, distinzione che, come abbiamo visto, non esiste per un linguista, ma che di fatto è ben presente nella nostra quotidiana percezione.
Io però vorrei parlare della lingua catalana così come oggi si presenta e si può apprezzare a chiunque di voi vada a Barcellona, capitale del cosiddetto Principato, o che frequenti le spiagge della Costa Brava o delle isole Baleari.
È una lingua che ha una sua “normalizzazione”, cioè è stata disciplinata ortograficamente, secondo i criteri proposti nel 1913 dall’“Institut d’Estudis Catalans” sulla base dell’opera portata a compimento da un linguista che si chiamava Pompeu Fabra, che adottò come base dialettale il modello del catalano centrale. “Centrale” ovviamente rispetto alla geografia del Principato.
Vi dò ora alcuni dati su questa lingua e sul percorso che ha compiuto prima di attingere l’odierno livello.
Oggi essa è parlata oggi da una decina di milioni di persone: per arrivare a questa cifra, oltre agli abitanti delle aree più sopra indicate, vanno aggiunti quelli della regione valenzana (dove la lingua assume la denominazione di “valencià”), della regione storica francese del Roussillon, della città sarda di Alghero, della zona a ridosso dei confini amministrativi tra la Catalogna e l’Aragona, nota come la “franja”.
È una lingua non statale di tutto rispetto (o, meglio, il Principato di Andorra è l’unico Stato sovrano che l’abbia adottata come lingua ufficiale) che può vantare una demografia più significativa di quella di molti idiomi statali parlati nell’area dell’Unione Europea. Si tratta di una cifra di tutto rispetto se consideriamo il fatto che lingue come il neogreco, l’ungherese, il portoghese (solo ovviamente per l’area continentale), lo svedese, il danese, il finlandese, lo sloveno, il lituano, ufficiali nell’ambito dell’Unione Europea, sono parlate da un numero analogo di persone (i primi quattro stati) o addirittura notevolmente inferiore (gli ultimi quattro). Nel dato complessivo, come abbiamo detto, sono stati inclusi anche i parlanti della varietà valenzana, sulla quale c’è una diatriba che ha poco a che fare con la scienza ma più con la politica: nonostante un “dictamen” (risoluzione) dell’“Acadèmia Valenciana de la Llengua” che sancisce l’identità di valenzano e catalano, c’è ancora chi sostiene e promuove la diversità dei due idiomi. Nonostante questo passo in avanti in senso unitario, rimangono tuttavia forze politiche ostili a tale riconoscimento. Tema d’indubbio interesse che però lascerò da parte in questa sede.
Tornando a quanto stavamo illustrando poc’anzi, ribadisco come lingue che dispongono di un numero di parlanti inferiore a quello del catalano abbiano in 66 Pompeu Fabra seno all’Unione lo status di lingua ufficiale, mentre il rango di “lingua regionale” offre possibilità d’uso largamente inferiori nell’ambito delle istituzioni comunitarie. Tuttavia sono state e/o vengono adottate dalle autorità catalane, con notevole impegno, tutte le iniziative in grado di incrementare le situazioni in cui sia ufficialmente consentito utilizzare questa lingua a livello europeo.
Questo lo dico perché è importante capire quanto i catalani siano devoti al loro idioma, che è co-ufficiale entro le comunità autonome in cui si parla. Come ho detto prima, c’è stata una regolamentazione che, pur avendo forse compiuto qualche forzatura (il lavoro di Fabra, benché necessario ed elogiato, è oggi oggetto di qualche revisione critica), ha funzionato come norma sulla quale modellare i testi scritti. Di questi voglio ora parlare e della loro forma più canonica. Il libro. In lingua catalana sono usciti nel 2005 oltre 7000 titoli. Il trend è in ascesa sia pure con qualche incognita rispetto al fatturato complessivo del settore editoriale in Catalogna , quindi la rilevanza culturale di questa lingua è notevolissima, anche in rapporto alle altre lingue statali “minoritarie” presenti in Spagna.
È interessante vedere come il trattamento giuridico sia stato uno dei momenti in cui le autorità catalane hanno esercitato pressioni attraverso tutti i canali disponibili al fine di vedere riconosciuta una presenza all’interno dell’Unione. L’ultimo atto (o almeno quello più recente) è la possibilità per ciascun individuo appartenente alla comunità autonoma catalana di rivolgersi alle istituzioni comunitarie in questa lingua e ricevere da esse una risposta nella medesima, secondo quanto sancito da un accordo che prevede anche, per i rappresentanti in Consiglio, in Parlamento e nel Comitato delle Regioni europeo di potersi esprimere, nei loro interventi nei vari organismi, in catalano, previo avviso. Il cammino che s’intende far percorrere alla lingua catalana è quello dell’uso non solo privato o “culturale”, ma pubblico e ufficiale. Quando la lingua ambisce in qualche modo a un “potere” sorgono naturalmente dei contrasti, soprattutto, nel caso del catalano, con l’idioma che fino al 1979 aveva occupato esclusivamente gli ambiti dell’ufficialità in Catalogna. Qui non posso non fare riferimento alla situazione specifica della Spagna ed alle censure e proibizioni da parte del regime franchista che hanno certamente contribuito a motivare molto fortemente la comunità e poi il Governo Catalano a perseguire il ritorno a una “normalità” compatibile con la storia e la realtà sociale catalana. Anche nel nuovo statuto d’autonomia, entrato in vigore il 9 agosto del 2006, dopo un iter assai laborioso, dibattuto e non esente da aspre polemiche, la Generalitat de Catalunya (l’istituzione dell’autogoverno) è titolare della competenza esclusiva in materia di politica linguistica relativa al catalano.
Si sono elaborati concetti quali la “disponibilità linguistica”, che riguardano l’obbligo (naturalmente graduabile a seconda dei casi) per un’amministrazione pubblica o una impresa privata di fornire una risposta nella lingua in cui ad essa ci si è rivolti; più estesamente è riferibile a una nozione di bilinguismo assolutamente perfetto (non più “concesso”) in cui ciascuno si può esprimere nell’idioma che preferisce ed ha il diritto di ottenere una risposta nella lingua che sta utilizzando, sia essa il catalano o lo spagnolo.
Un modello certamente difficile da raggiungere, la cui realizzazione può provocare tensioni e sensazioni di persecuzione in settori anche significativi della società, che comunque sta dando positivi risultati, anche per quanto riguarda la convivenza tra chi soggettivamente aderisce a una delle due comunità linguistiche.
“Il catalano è la lingua propria della Catalogna”. Questo, come abbiamo visto, è un dato di grande importanza. È il primo comma dell’articolo 6 dello statuto di autonomia catalano che, dal 9 agosto del 2006, ha sostituito il precedente testo noto anche come “Estatut de Sau” in vigore dal 1979, quattro anni dopo la morte di Franco, un anno dopo l’approvazione della Costituzione spagnola. Il catalano è “llengua d’ús normal i preferent de les administracions públiques i dels mitjans de comunicació públics de Catalunya, i és també la llengua normalment emprada com a vehicular i d’aprenentatge en l’ensenyament” e ovviamente “(…) el català és la llengua oficial de Catalunya”.
Nel secondo comma si legge ovviamente che “el castellà” è ugualmente ufficiale. Si noti come il testo statutario adotti il termine “castigliano” e non “spagnolo” (in modo diverso da come questa lingua è prevalentemente denominata nel mondo). Definizione che in parte deriva dalla Costituzione che, all’art. 3, comma primo, dice testualmente: “El castellano es la lengua española oficial del Estado”. Si desume quindi dal testo costituzionale che il castigliano non è lo spagnolo tout court, ma una delle lingue spagnole.
Il catalano però è diffuso non soltanto in Spagna: vi voglio ricordare almeno due zone nelle quali è parlato e dove anzi ha conosciuto negli ultimi anni uno sviluppo notevole, in relazione al numero di parlanti. In primo luogo si tratta del dipartimento dei Pirenei Orientali, a nord della Catalogna, nel sud della Francia, situato a ridosso delle estreme propaggini della catena montuosa ed il Mediterraneo, nella cui capitale, Perpinyà (Perpignan), la lingua catalana è discretamente diffusa.
Non è certo conosciuta ed usata come auspicabilmente ci si potrebbe attendere e tuttavia per uno Stato fortemente centralizzato, e in qualche caso anche centralista, come la Francia, si tratta di un risultato di notevole rilievo.
In secondo luogo, il catalano è anche la lingua della città sarda di Alghero. Non è una curiosità archeologica, è il retaggio di un passato, vale a dire delle conquiste basso medievali della corona catalano-aragonese in Sardegna: è una realtà linguistica che differenzia gli algheresi dal resto dei sardi.
Il fatto che esista questa specifica situazione non significa poi che si siano sviluppati dei casi di ostilità e/o insofferenza: la diversità delle lingue dovrebbe anzi suggerire maggiore tolleranza, perché chi è capace di parlarne diverse è in generale più aperto e disposto ad apprenderne anche altre in rapporto a chi magari ha una formazione rigorosamente monolingue.
Questo per descrivere la situazione del catalano che, come ho detto, non ha un’autorità statale alle spalle: c’è soltanto il Principato di Andorra che, con quasi 70.000 abitanti, costituisce certamente uno stato sovrano con il catalano come lingua ufficiale, ma rappresenta una realtà non molto più grande di San Marino, senza quindi un significativo peso internazionale. Tuttavia il governo catalano, pur essendo un’amministrazione autonoma di tipo regionale, ha messo in piedi tutta una serie di presidi per la tutela, la diffusione e la salvaguardia della propria lingua, anche all’estero.
Vi offro ora un breve excursus sulla situazione attuale del catalano. In Italia si studia in dodici università, il che non è poco, come abbiamo già potuto vedere. Ciò grazie anche al fatto che la Catalogna contribuisce in solido, pagando docenti madrelingua con dei propri stanziamenti. Ci sono poi le due emittenti televisive in lingua catalana, TV3 e Canale 33, nell’area del Principato nonché i canali regionali delle isole Baleari e della regione di València, oltre agli spazi dedicati a questa lingua dalla televisione spagnola.
Apro una parentesi sulla regione valenzana, che come voi sapete è immediatamente a sud della Catalogna: c’è una questione politica che entra pesantemente in collisione con una questione scientifica alla quale ho alluso prima. Che il valenzano ed il catalano siano la stessa lingua non lo dubita nemmeno l’Acadèmia Valenciana de la Llengua, tuttavia esistono degli orientamenti assai significativi nella società valenzana, e di riflesso nella politica che essa esprime, che considerano la Catalogna in modo sospetto e talora apertamente avverso, per ragioni che non approfondiremo in questa sede. Si tratta di una vicenda assai complessa che, esasperando gli animi, contribuisce a radicalizzare le opinioni e le iniziative.
Tuttavia non c’è dubbio che catalano e valenzano siano un’unica lingua e che non abbia dunque senso sottrarre gli uni o gli altri al computo generale dei catalanofoni.
Dal punto di vista giuridico è interessante notare come, subito dopo la caduta del regime franchista, per ripristinare una realtà che aveva rischiato letteralmente di morire, si sono attivate numerose iniziative, un po’ come l’ebraico che è stato resuscitato, così anche il catalano, mantenuto in vita dall’uso privato e familiare, aveva bisogno di azioni che ne garantissero l’esistenza e il riconoscimento, non già nella società, da cui, anche nei momenti più bui del regime, non era mai stato abbandonato, ma nelle istituzioni.
Da questo punto di vista si trattava di una lingua morta, analogamente a quanto era ad essa accaduto nel XVIII secolo: l’avvento di Filippo V, alla fine della Guerra di Successione, aveva portato ai “Decretos de Nueva Planta” che cassavano l’uso della lingua catalana ed imponevano un’organizzazione territoriale e istituzionale modellata su quella castigliana. Dunque, al fine di dare il giusto rilievo pubblico ad un idioma mai abbandonato dai suoi parlanti, la Generalitat de Catalunya, quattro anni dopo l’entrata in vigore dello statuto del 1979, approvò una legge di normalizzazione linguistica. Nel 1986 il governo delle isole Baleari fece altrettanto.
La “Llei de normalització lingüística” del 1983 presenta un articolato piuttosto minuzioso ed un lungo preambolo che spiega, anche a chi non è esperto di diritto, perché si sia arrivati a quella determinazione.
Il testo viene quindi giustificato storicamente e motivato nelle prospettive: esso specifica tutti gli ambiti in cui, secondo lo statuto di autonomia, la lingua catalana doveva essere utilizzata, al pari naturalmente dello spagnolo. L’attuazione del dettato imponeva quindi la formazione di una classe di docenti che non c’era e impegnava le varie amministrazioni preposte a tutta una serie di adempimenti per i quali solo un ente politico può disporre e può attribuire le relative risorse.
Questa legge è rimasta in vigore per 15 anni ed ha radicalmente cambiato la situazione del catalano uscito dall’epoca della dittatura. Una visione letteraria, sia pure velata d’una sottile disapprovazione che appare per lo più ingiustificata, è offerta dal romanzo di Juan Marsé, “L’amante bilingue”, tradotto anche in italiano e pubblicato nel nostro paese nel 1993, accompagnato da un film di modesto successo, nonostante la vistosa presenza di Ornella Muti, nelle vesti dell’amante del titolo. Lo sviluppo degli strumenti telematici, la volontà di consolidare i risultati raggiunti suggerirono di sostituire il testo del 1983 con una nuova normativa, la “Legge di politica linguistica”, che entrò in vigore nel 1998, esattamente un anno prima dell’approvazione in Italia di una legge di tutela delle minoranze linguistiche. La nuova normativa lascia dei margini di discrezionalità e demanda ad un regolamento l’applicazione concreta di alcuni aspetti.
Tanto per citare un caso che suscitò grandi polemiche, essa doveva imporre alle case di distribuzione la presenza nell’area del Principato di almeno una quota del 50% di film doppiati o sottotitolati anche in lingua catalana e non solo in quella spagnola. Questa è esattamente la “normalizzazione” di una lingua: vivere in quella lingua, cioè vedere un film in cui i personaggi la parlano, andare al ristorante e leggere il menu, prendere il treno e sentire gli annunci nell’idioma proprio.
Diciamo che il catalano ormai ci è riuscito, anche se con qualche disagio da parte degli italiani, e dei turisti stranieri in generale, che a volte faticano a capire il perché di questa ulteriore complicazione della vita in Catalogna, quando nell’immaginario è chiaro che anche lì è Spagna e magari quella più ostentatamente ricca di luoghi comuni. Ciò che solo apparentemente è disagio si pone invece come motivo di ricchezza, il plurilinguismo, che dovrebbe essere elogiato da ciascuno di noi quando percorriamo quelle contrade per turismo, affari o istruzione.
Come dicevo il catalano ha ormai una sua normalità: libri, film, tv e tutto il resto. Quindi il parallelismo con il veneto, che è la lingua della nostra regione, mi sembra assolutamente incongruo.
Il rapporto che i catalani hanno con la loro lingua, almeno la relazione più recente, è assai diverso da quello che i veneti hanno con la propria. Suggerirei a questo proposito di andare a leggere i dibattiti in commissione che hanno preceduto l’approvazione delle “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” che dimostrano ancora quanti pregiudizi esistano nei confronti delle lingue “minoritarie” (o addirittura scarsa conoscenza delle questioni) in molti tra coloro che sono preposti a legiferare. L’attenzione posta dai catalani alla loro lingua come “lingua di cultura” e quindi anche “lingua alta” si è tradotta nel corso degli anni in molteplici interventi tesi a fissarne l’uso scritto ed ai quali in parte abbiamo alluso.
Oltre alle norme grafiche, in vigore dal 1913, Fabra ha elaborato grammatiche e dizionari: un lavoro i cui risultati scientifici sono ancor oggi percepibili nelle opere di una nutrita schiera di linguisti, dialettologi e storici della lingua catalani. Ricordo solo, a titolo esemplificativo, le opere di Antoni M. Badia i Margarit, Joan Veny, Joan Solà, Modest Prats, Emili Casanova e tanti altri che lavorano sul fronte della lingua, non solo in chiave “normativa” e non solo catalani, ma anche studiosi di altri paesi europei e di altre zone del dominio catalanofono.
Sono tutte piccole o grandi cose che, sommate insieme, avvicinano questo sistema linguistico a quello delle lingue “normali”, come quelle statali e ufficiali. Tutto ciò non capita per caso, ma è il frutto di una volontà che si traduce in azione.
L’altro elemento che volevo sottolineare è riferito al riconoscimento di questa lingua da parte dell’Italia nella legge del ‘99, che citavo prima. Il nostro paese, insieme alla Francia, ha sottoscritto assai tardi (2000 e 1999 rispettivamente) la “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie” preparata dal Consiglio d’Europa, documento che, rimanendo ancora privo della necessaria ratifica, da noi non è ancora entrato in vigore. La Spagna lo ha sottoscritto invece fin dal 1992, quando venne aperto alla firma, acquisendo però vigenza legale nel paese iberico solo dal 2001. In ogni caso è stata approvata da noi questa legge il cui iter parlamentare è stato seguito con interesse anche da molti catalani.
Nei giorni precedenti la sua discussione, ho ricevuto decine di e-mail con le quali mi si invitava a girare un messaggio al sito del Senato nel quale si esortava il legislatore italiano a confermare la presenza della lingua catalana tra quelle tutelate. Cosa che a un certo punto, a seguito dei dibattiti nelle commissioni, era parsa dubbia.
Ricordo, per inciso, che il veneto non appare tra le lingue oggetto di tutela. Questo, tra le molte altre cose, dimostra anche che l’idea nazionale catalana si struttura e si basa essenzialmente sulla lingua: non si perseguono da parte dei catalani fantomatiche e pericolose differenziazioni etniche o religiose da porre sul tavolo della peculiarità identitaria. È la lingua, il modo di esprimersi che rappresenta un mondo e una memoria storica e letteraria, ad essere al centro dell’attenzione.
L’idea dei catalani non è quella, come dire?, di “noi siamo i migliori della classe”. La loro è una piccola letteratura che tuttavia vanta un percorso ed una parabola equivalenti a quella della letteratura italiana o della letteratura spagnola, sia pure con qualche soluzione di continuità. È un contributo, uno dei tanti, derivati dalla frammentazione del latino nei sistemi “volgari” che sono progressivamente diventati delle lingue: i catalani oggi fanno sicuramente moltissimo affinché anche la loro, se non proprio prosperare, possa almeno vivere decorosamente.
Arriviamo dunque al raffronto con le altre realtà regionali della Spagna, vedendone anche la oggettiva diversità. Noi abbiamo un caso che è diventato di dominio pubblico anche in Italia, soprattutto dopo il recente attentato dell’11 marzo del 2004 alla stazione di Madrid, quando si è pensato (o fatto pensare) per un momento che fosse stata l’ETA ad aver messo quelle vili e funeste bombe. L’ETA è certamente una delle espressioni del nazionalismo basco.
I baschi hanno una propria lingua, di origine non indoeuropea, molto complessa, agglutinante, che gode di una tutela pari almeno a quella del catalano, ma che costituisce solo parzialmente l’indentità basca. Questa lingua non dispone di una tradizione scritta rilevante (salvo in tempi più recenti) e solo da poco c’è stata una normalizzazione concordata in seno all’“Euskaltzaindia” (l’accademia della lingua basca).
Questo cosa ha significato? Che il basco è ovviamente molto meno parlato e molto meno utilizzato rispetto al catalano nell’ambito di sua competenza territoriale, anche se ciò non significa che non sia in fase ascendente. Il basco è poi originalmente più legato ad ambiti rurali che urbani. In questo caso dunque l’elemento identitario è assai più complesso e sovente molto più radicalizzato, qualche volta “separativo”: se non fosse così l’ETA sarebbe già sparita da tempo.
L’altro caso linguistico simile per numero di parlanti, anche se in quantità leggermente superiore rispetto al Paese Basco, è quello della Galizia, regione situata nel nord ovest della penisola iberica. La sua è una lingua pure dotata di svariate norme di tutela e vanta quasi tre milioni di parlanti: è quindi una potenza linguistica di tutto rispetto che vanta una diffusione capillare tra la popolazione. Dal punto di vista editoriale, abbiamo accennato prima agli oltre 7.000 titoli che si sono pubblicati in lingua catalana. È un dato di tutto rispetto che la rende editorialmente molto importante. A Barcellona ci sono solo poche librerie che vendono unicamente libri in catalano, nelle restanti si vendono prevalentemente libri in spagnolo. Esse sono il segno anche di una presenza qualitativa che offre cioè la percezione di una lingua non esclusivamente parlata da persone di modesta formazione culturale, come per molti aspetti era stato anche il catalano nel corso di buona parte del XIX secolo.
Ormai si pubblicano in catalano testi di filosofia, saggi, manuali scientifici di fisica e di matematica ecc., come nelle altre lingue “normali”. Esso diventa dunque strumento e veicolo di diffusione di alta cultura, che è quella che poi dà autorevolezza e rende anche socialmente prestigioso parlare questo idioma, che non costituisce più qualcosa da nascondere, come i veneti hanno fatto per molto tempo col proprio, in ambito pubblico e ufficiale.
Questo è un dato importante sul quale i catalani hanno giocato e continuano a giocare molte carte, aiutando le edizioni in lingua catalana e addirittura le traduzioni dalla lingua catalana in altre lingue, tanto da trasformarla, secondo i dati dell’UNESCO, nella ventunesima lingua in cui più si traduce e la ventitreesima più tradotta.
Questo è un dato importante: se pensiamo alle migliaia di lingue che si parlano nel mondo, ci dà un’indicazione sulla sua forza e sul consenso che la sostiene, elementi che, malgrado le molteplici difficoltà, tendono a crescere.
FONTE: il presente testo è tratto dal libro “CATALOGNA – Storia di una Nazione senza Stato” di Gianni Sartori, prodotto dall’Associazione Veneto Nostro – Raixe Venete.
I quattro cavalli, fino al 1977 sulla loggia della Basilica di San Marco, dopo un meticoloso restauro, sono stati sostituiti da riproduzioni e ricoverati nel 1982 in museo, per esigenze di conservazione.
Il gruppo, unico esempio di tiro a quattro pervenuto dalla statuaria antica a tutto tondo, è stato realizzato mediante fusione a cera perduta con il metodo cosiddetto indiretto, in una lega ad altissima percentuale di rame (tra il 96,67% e il 98,35%), funzionale al procedimento adottato per la doratura al mercurio. I graffi sulla superficie vennero prodotti intenzionalmente, per attenuare l’eccessivo riflesso della luce.
Incerta la datazione della quadriga. Alcuni studiosi propendono ora per una collocazione tra la seconda metà del II e gli inizi del III secolo d.C. nell’età romana imperiale, mentre in precedenza la datazione ha oscillato tra il IV secolo a.C. e il IV secolo d.C. L’analisi con il carbonio 14 riconduce all’inizio del II secolo a.C.
Si ipotizza che i cavalli provengano dall’edificio dell’ippodromo di Costantinopoli, inviati come bottino di guerra in occasione della IV crociata (1204) dal doge Enrico Dandolo a Venezia, dove rimasero per oltre cinquant’anni in Arsenale. Verosimilmente solo dopo la caduta dell’impero latino (1261) vengono collocati sulla basilica con ampia valenza semantica, in senso politico e religioso: eredità, simbolo di continuità con il potere imperiale di Bisanzio; immagine della Quadriga Domini, allegoria della diffusione della Parola divina attraverso l’opera dei quattro evangelisti.
“Il giorno di mercoledì 13 corrente è destinato da S.M. l’Augustissimo Nostro Sovrano per dare alla VENETA NAZIONE la più generosa testimonianza della Sua Paterna affezione col ricondurre un prezioso monumento dell’antica gloria veneziana.
I quattro celebrati cavalli ch’esistevano sulla Chiesa di San Marco, ricordando i fasti di Enrico Dandolo, e che furono in non lontana dolente epoca rapiti all’onor Nazionale, ricompariranno ….” Così si legge sul programma per la celebrazione del ripristino dei cavalli sulla Chiesa di San Marco che si trova sul volume “L’arte contesa nell’età di Napoleone, Pio VII e Canova”.
Dopo diciotto anni di esilio francese, i cavalli erano stati rimossi dalla soldataglia francese il 13 dicembre del 1797, l’imperatore d’Austria Francesco I° riconsegna alla città di Venezia e alla Veneta Nazione uno dei tanti capolavori rapinati da Napoleone; fondamentale fu, in questo contesto, l’opera del grande scultore Antonio Canova; la giornata fu immortalata dal vedutista Vincenzo Chilone in una delle sue opere più riuscite.
I famosi bigliettini dei Baci Perugina parlano anche in lingua veneta!
Dal siciliano al veneto infatti, dal genovese al romano, fino al piemontese: sono 9 le lingue locali scelte da Baci Perugina per lanciare la prima edizione di «Parla come… Baci», una serie speciale dei celebri cioccolatini per rendere omaggio all’Italia e alle sue differenti culture. Dal napoletano «Ògne scarrafne è bèll’a màmma sia» al milanese «I inamoraa guarden minga a spend», selezionati 100 tra detti e proverbi di 9 diversi idiomi italiani: pugliese, genovese, milanese, romano, veneto, siciliano, piemontese, napoletano e perugino.
Ogni cartiglio contiene un proverbio in lingua con la traduzione in italiano, mentre l’incarto del cioccolatino riporta la parola «bacio» nelle varie declinazioni. L’iniziativa intende parlare soprattutto ai giovani: secondo uno studio condotto dal marchio del gruppo Nestlè, tra i millennials la curiosità sulle lingue locali è forte: 6 ragazzi su 10 le utilizzano o sono incuriositi dalla possibilità di impararle.
Su iniziativa del Consiglio d’Europa, Strasburgo, la Giornata Europea delle Lingue è stata celebrata il 26 settembre di ogni anno a partire dal 2001.
Gli obiettivi generali della Giornata Europea delle Lingue sono:
Informare il pubblico sull’importanza dell’apprendimento delle lingue e diversificando la gamma di lingue imparate con l’obiettivo di incrementare il plurilinguismo e la comprensione interculturale;
Promuovere le ricche diversità linguistiche e culturali dell’Europa, che devono essere preservate e favorite;
Incoraggiare l’apprendimento delle lingue durante tutto l’arco della vita dentro e fuori la scuola per motivi distudio, per esigenze professionali, ai fini della mobilità o per piacere personale e di scambi.
A cosa serve la Giornata Europea delle Lingue?
Il consiglio d’Europa si augura che questa giornata verrà celebrata sia dalle autorità degli stati membri sia dai potenziali partner ai seguenti livelli:
fra i responsabili politici (misure specificheo le discussioni su questioni di politica linguistica, per esempio);
tra il pubblico in generale (disensibilizzare sugli obiettivi generali del giorno, tra cui l’importanza dell’apprendimento delle lingue durante tutto l’arco della vita, a partire da qualsiasi età, in istituti scolastici, sul lavoro, etc);
nel settore del volontariato (azioni specifiche da e / o per le ONG, associazioni, aziende, ecc.)
La celebrazione delle diversità linguistiche
La condizione umana
Sul nostro pianeta ci sono 7 miliardi di persone che parlano tra 6 000 e 7 000 lingue diverse. Alcune lingue sono parlate da centinaia di milioni di persone, come l’inglese o il cinese, ma la maggior parte sono parlate solo da poche migliaia, o anche solo da una manciata di persone. In effetti, il 96% delle lingue del mondo sono parlate solo dal 4% della popolazione. Gli europei spesso credono che il loro continente abbia un numero eccezionale di lingue, soprattutto se paragonato al Nord America o all’Australia. Ancora, solo il 3% del totale mondiale, circa 225 lingue sono nate in Europa. La maggior parte delle lingue del mondo sono parlate in una vasta area ai lati dell’equatore – nel sud-est asiatico, India, Africa e Sud America. Molti europei potrebbero pensare che, il fatto di parlare una sola lingua sia la norma, ma possiamo dire che la metà o i due terzi della popolazione mondiale sia, in un certo modo, bilingue, e un numero significativo è ‘plurilingue’. I plurilinguismo è molti più diffuso rispetto al monolinguismo. La diversità delle lingue e delle culture, come nel caso della biodiversità, viene sempre più vista come una cosa buona e bella di per sé. Ogni lingua ha il suo modo di vedere il mondo ed è il prodotto della propria particolare storia. Tutte le lingue hanno la loro identità individuale ed il loro valore, e tutte vanno ugualmente bene per esprimersi. Confrontando le percentuali di bambini che imparano a parlare, sappiamo che nessuna lingua è intrinsecamente più difficile di qualsiasi altra lingua.
La struttura del linguaggio
La Lingua è un sistema arbitrario di suoni e simboli che viene utilizzata per molti scopi da un gruppo di persone, principalmente per comunicare tra loro, per esprimere l’identità culturale, per trasmettere relazioni sociali, e per fornire una fonte di piacere (per esempio, in letteratura). Le lingue differiscono l’una dall’altra nei suoni, grammatica, vocabolario, e modelli del discorso. Ma tutte le lingue sono realtà altamente complesse. I suoni all’interno delle lingue sono divisi in vocali e consonanti e variano molto di numero: si va da meno di una dozzina a più di un centinaio. A riguardo le lingue europee si collocano più o meno a metà strada: vanno dai 25 suoni (della lingua spagnola) fino ai 60 (della lingua irlandese). Gli alfabeti riflettono questi suoni con diversi gradi di precisione: alcuni alfabeti (es. gaelico) sono molto regolati nel modo in cui simboleggiano i suoni, altri (ad esempio l’inglese) sono molto irregolari. Per quanto riguarda la grammatica, ogni lingua comprende migliaia di segni diversi per formare le parole e costruire le frasi. Ogni lingua ha un vocabolario enorme a disposizione per soddisfare le esigenze dei suoi utenti – nel caso delle lingue europee, in cui il vocabolario scientifico e tecnico è enorme, si può raggiungere centinaia di migliaia di parole e frasi. Gli individui conoscono ed utilizzano solo una parte del vocabolario totale di una lingua. Le persone con una buona educazione, possiedono un vocabolario attivo che può raggiungere circa 50.000 parole, mentre il vocabolario passivo, formato dalle parole che si sanno ma non si usano è un po’ più vasto. Nelle conversazioni quotidiane, le persone spesso usano solo poche parole, ma con grande frequenza. È stato valutato che un ragazzo di 21 anni può già pronunciare circa 50 milioni di parole. Le lingue e le culture vigenti stanno cambiando continuamente. Le persone si influenzano l’un l’altra nel modo di parlare e scrivere. I nuovi media, come Internet, offrono alle lingue nuove opportunità di crescita. Le lingue sono sempre in contatto l’una con l’altra, e si influenzano in molti modi, soprattutto prestandosi le parole. L’inglese, per esempio, ha preso in prestito durante i secoli parole da più di 350 lingue, e le lingue europee stanno prendendo in prestito molte parole dall’inglese.
L’apprendimento delle lingue
L’apprendimento della propria lingua madre avviene nei primi cinque anni di vita, anche se alcune caratteristiche della lingua (come l’acquisizione del vocabolario) continua per sempre. La lingua si sviluppa attraverso diverse fasi. Durante il primo anno il bambino emette una vasta gamma di vocalizzazioni, da cui risultano il ritmo e l’intonazione, ed anche le vocali e le consonanti. Più o meno dopo un anno pronuncia le prime parole comprensibili. Durante il secondo anno inizia la fase della combinazione di due o tre parole, per arrivare lentamente a tre o quattro. I bambini di tre anni utilizzano frasi sempre più lunghe e complesse. A 18 mesi il vocabolario cresce fino a circa 50 parole attive per poi arrivare ad un migliaio a cinque anni. Per lingua madre, s’intende solitamente la prima lingua appresa da un individuo, detta anche lingua primaria. Questa è la lingua che si conosce meglio, la lingua che si usa maggiormente o la lingua con cui ci si identifica di più. Nel caso di persone bilingui, spesso, l’apprendimento delle due lingue è avvenuto simultaneamente ed è impossibile scegliere quale sia la prima o la seconda lingua. Per molti bilingui la distinzione è più chiara visto che l’apprendimento della seconda o terza lingua è avvenuto a scuola o più avanti. Non c’è nessun limite di età perché una lingua sia impossibile da imparare. Il bilinguismo è un fenomeno complesso: un mito comune è che una persona bilingue abbia sviluppato la conoscenza di entrambe le lingue allo stesso modo. In realtà, le persone che parlano due lingue raramente mostrano un equilibrio tra le due. Un altro mito è che i bilingui abbiano tutti le stesse capacità. In realtà, mostrano diversi tipi di bilinguismo: alcuni sembrano di madrelingua in entrambe le lingue, altri hanno un forte accento straniero per una delle due. Qualcuno è in grado di leggere bene in entrambe le lingue, mentre altri possono farlo solo con una. Alcuni preferiscono scrivere in una lingua, ma possono parlare solo con l’altra. Il bilinguismo porta vari tipi di benefici. Essere bilingue può aumentare le vostre probabilità d’ imparare successivamente altre lingue. In qualche modo, l’apprendimento di una terza lingua è facilitato dalla formazione di una seconda. I bilingui possono avere alcuni vantaggi nel modo di pensare: è evidente che fanno progressi più veloci rispetto a coloro che parlano una sola lingua e in molte occasioni sono più creativi. I bilingui hanno il grande vantaggio di poter comunicare con una più ampia varietà di persone. Poiché i bilingui hanno la possibilità di sperimentare due o più culture in un modo intimo, la loro capacità può portare ad una maggiore sensibilità nella comunicazione e la disponibilità a diminuire le barriere culturali e di costruire ponti culturali. Ci possono essere anche risvolti importanti: i bilingui, possono avere un potenziale vantaggio economico perché hanno maggiori opportunità di lavoro. Inoltre è sempre più evidente che le aziende multilingui abbiano un vantaggio competitivo rispetto a quelle monolingui.
Le famiglie delle lingue
Le lingue sono imparentate come i membri di una famiglia. La maggior parte delle lingue Europee possono essere raggruppate, a causa delle origini comuni, in un unico gruppo: la grande famiglia linguistica Indo – Europea. Le famiglie in Europa che contano più lingue-membro e che sono più parlate sono le lingue germaniche, le lingue romanze e le lingue slave. La famiglia linguistica germanica ha un ramo nordico al quale appartengono il danese, il norvegese, lo svedese, l’islandese e il faroese; un ramo occidentale al quale appartengono il tedesco, l’olandese, il frisone, l’inglese e lo yiddish. La famiglia delle lingue romanze ha come membri il rumeno, l’italiano, il corsico, lo spagnolo, il portoghese, il catalano, l’occitano, il francese, il romancio, il ladino e il sardo. Alla famiglia delle lingue slave appartengono lingue come il russo, l’ucraino, il bielorusso, il polacco, il sorbian, il ceco, lo slovacco, lo sloveno, il serbo, il croato, il macedone e il bulgaro. Tra la famiglia celtica ci sono l’irlandese, il gaelico scozzese, il gallese e il bretone, con il ritorno di movimenti per il Cornish e Manx. Alla famiglia Baltica appartengono il lettone e il lituano. Famiglie separate solo con un membro sono il greco, l’albanese e l’ armeno. Il basco è un caso eccezionale, perché non appartiene alla famiglia Indo – Europea e le sue origini sono sconosciute. Anche altre famiglie linguistiche hanno membri in Europa. A nord incontriamo le lingue uraliche: il finlandese, l’estone, l’ungherese, alcune lingue Lapponi, e altre lingue della parte settentrionale della Federazione Russa non molto conosciute come Ingriano o Kareliano. Nel sud-est incontriamo rappresentanti delle lingue Altaiche, in particolare il turco e l’azero. Le lingue della famiglia caucasica si parlano in una piccola e compatta zona tra il Mar Nero e il Mar Caspio, e comprende circa 40 membri, tra loro il georgiano e Abkhaza. La famiglia afro – asiatica include il maltese, l’ebraico e il berbero. Tutte queste lingue usano un piccolo numero di caratteri alfabetici. La maggior parte delle lingue usa l’alfabeto romano (o latino). Il russo e alcune altre lingue slave usano il cirillico. Il greco, lo yiddish, l’armeno e il georgiano hanno il loro proprio alfabeto. Lingue non – europee che si usano molto nella regione di Europa sono l’arabo, il cinese e l’hindi, ognuna con il suo sistema di scrittura.
Le lingue dell’ Europa
Le stime variano, però ci sono circa di 225 lingue indigene parlate. Le cinque lingue che si parlano di più in Europa, secondo il numero dei persone di madre lingua, sono il russo, il tedesco, l’inglese, il francese e l’italiano. Però la maggior parte dei paesi europei usano anche altre lingue. Le eccezioni sono paesi piccoli come il Liechtenstein e lo stato del Vaticano, però anche in queste eccezioni si possono trovare lingue straniere in un uso significativo. I 49 paesi membri della convenzione Europea Culturale hanno 41 lingue ufficiali o nazionali e molti di accordi speciali con altre lingue. Molti paesi hanno un buon numero di lingue parlate, minoritarie o regionali. La Federazione Russa ha il numero più alto di lingue che si parlate nel suo territorio, il numero varia tra 130 e 200, dipende dei criteri. Alcune lingue regionali e minoritarie hanno acquisito uno status ufficiale, per esempio, il basco, il catalano e il galiziano presenti nelle regioni della Spagna. Il gallese, nel Regno Unito, ha acquisito i diritti della protezione delle lingue, come anche il frisone nei paesi bassi e le lingue Lapponi in Norvegia, Svezia e Finlandia. A causa dell’ afflusso di immigrati provenienti da tutto il mondo, l’Europa è diventata sempre più multilingue. Londra per esempio ha più di 300 lingue che si usano come lingua parlata in famiglia. La maggioranza delle altre grandi città, in particolare in Est Europa, hanno 100 – 200 lingue che si parlano a scuola come madre lingue. Le lingue più comuni sono l’arabo, il berbero turco, il curdo, l’ hindi, il punjabi e il cinese. Comunque, molte di queste lingue sono parlate da piccole minorità, e il loro futuro è sotto minaccia. Ogni giorno, in un modo informale, l’interazione orale tra i parenti e i bambini è cruciale per la sopravvivenza delle lingue. Esperti hanno stimato che durante questo secolo almeno la metà delle lingue del mondo, e forse di più, moriranno. Tutte le tracce di una lingua possono sparire nell’arco di due generazioni quando i bambini non crescono a contatto con essa. Le ragioni per lasciare una lingua sono molteplici, e includono la distruzione fisica (crisi ambientale e malattie) di un comune habitat, oppure antagonismo attivo di gruppi politici e, la ragione più comune, la dominazione economica e culturale delle lingue più forti e prestigiose. Qualsiasi sia la ragione, il risultato e lo stesso: l’umanità perde una risorsa unica. Grazie al lavoro del Consiglio di Europa, due strumenti internazionali e importanti sono stati creati nel 1998. La Carta Europea per le Minorità Nazionali o Regionali è attiva in 22 stati membri. La convenzione quadro per le lingue minoritarie o regionali che include alcune disposizioni per le lingue minoritarie, è attiva in 39 stati membri. Questi trattati sono importanti per proteggere e promuovere la ricchezza linguistica di Europa. (*ratifiche nel 2007). Al principio del 21° secolo tutti i cittadini europei vivono in un ambiente multilingue. Quotidianamente i cittadini si imbattono in lingue differenti, per esempio in autobus o in treno, in TV, radio o sui giornali oppure leggendo gli ingredienti di un prodotto al supermercato. C’è la necessità di aumentare la conoscenza popolare e la comprensione della diversità linguistica in Europa, e anche i fattori che influenzano il loro mantenimento e la loro crescita. C’è la necessità di generare un interesse più grande e anche curiosità sulle lingue. C’è la necessità di aumentare la tolleranza linguistica tra le nazioni. Questi erano solo alcuni degli scopi della Giornata Europea delle Lingue inaugurata nel 2001 dal Consiglio europeo e dall’Unione Europea. Alla vigilia dell’ evento conclusivo, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha deciso di continuare a celebrare la Giornata Europea delle Lingue ogni 26 settembre, con scopi similari.
Il veneto è una lingua Indo-Europea, Italica, Romanza, Occidentale.
La lingua veneta è riconosciuta con codice identificativo internazionale ISO 639-3 “VEC” dall’UNESCO e classificata fra le lingue viventi nel catalogo “Ethnologue”.
Ethnologue raccoglie un l’elenco di circa 6.700 lingue parlate in 228 Stati; contiene anche un indice delle lingue organizzato secondo le famiglie e ceppi linguistici.
Si stima che la lingua veneta sia parlata da circa 3.500.000 di persone nel mondo delle quali:
– 2.109.502 nella penisola italiana (dati del 1976)
– 100.000 in Croazia e Slovenia (dati del 1994 – Tapani Salminen)
– 1.210.000 negli altri Stati del Mondo, soprattutto in Brasile.
Il veneto, come tutte le lingue, si compone di diversi dialetti/varianti, che si sono formati per conseguenza di vicende storiche e politiche, vicende umane (emigrazione ed immigrazione) e geografiche (influenze reciproche fra lingue diverse).
Di seguito vi proponiamo alcune cartine che rappresentano graficamente la diffusione e l’utilizzo della lingua veneta oggi nel mondo (realizzate da Giovanni Maistrello, che ringraziamo).
Di cosa è fatta l’identità di un popolo? Di molte cose, che si riassumono in una visione comune del mondo, con questa visione si affrontano i problemi del vivere, e si progetta il futuro, guardando sempre di non tradire il passato. E noi Veneti, di passato ne abbiamo tanto, da far impallidire persino la lunga storia di Nazioni molto importanti e grandi, quali la Francia e l’Inghilterra, ad esempio. Non è una vanteria sciocca, la nostra.
Di Veneti si parlava più di tremila anni or sono, dei Veneti del nord est dell’Italia, almeno, perché bisognerebbe considerare anche i Veneti di varie parti dell’Europa egli ‘Eneti’ del Medio Oriente che allevavano ‘bianche mule selvagge’, descritti da Omero come alleati valorosi dei troiani.
Ai Veneti antichi non piaceva la guerra: non guerreggiavano come i Celti, per vivere di saccheggio e di bottini. Ai Veneti piaceva la pace, ma si difendevano valorosamente se attaccati.
Sconfissero pure i temibili spartani, che risalirono la Brenta con delle navi i cui rostri ancora si vedevano esposti, ci racconta Tito Livio, nel tempio di Giunone (in epoca romana, probabilmente prima era dedicato alla Dea Reitia) a Padova, come prede di guerra. Gente pacifica, ma determinata a difendere la libertà. Salvarono addirittura la Roma dei re, quando Brenno, re dei Galli (Celti) la invase, invadendo a loro volta i territori celti e costringendoli a una precipitosa retromarcia dal Lazio.
Di loro, e delle loro misteriose origini ne parlano gli storici romani e greci: e ne delineano delle caratteristiche che ancor oggi troviamo ben vive. Gente valorosa in guerra (pensiamo ai nostri alpini nelle due grandi guerre), con uno spiccato senso religioso, (non dimentichiamo che questa terra era definita, fino a pochi decenni or sono, la Vandea italiana), e infatti i culti degli dei del tempo erano molto praticati e sentiti come identitari: laboriosa, perché secondo Polibio, solo da Padova, specializzata nel tessile, partivano carovane enormi cariche di stoffe dirette al mercato di Roma lavorate dai nostri avi.
Con una società priva di re, ma governata, probabilmente da assemblee popolari, divise nelle classi sociali di allora. Insomma, tutta questa eredità non sparì con la romanizzazione, ma proprio grazie ad essa, poichè godevamo di ampia autonomia municipale in quanto antichi alleati, attraversò i secoli fino a essere raccolta dalla Repubblica di Venezia che riunificò quello che ancora era considerato un territorio con una identità comune e forte: la X Regio Venetia et Histria.
Venezia e il suo stato non nacquero dal nulla, riprendevano il cammino comune ai Veneti, ma nello stesso tempo, Venezia diventava un simbolo di valori universali, che potevano essere condi visi da altre Nazioni. In questa universalità condivisa, basata su principi cristiani, ogni popolo, veneto vero e proprio o di altra etnia, era “veneto” nel senso più alto del termine.
Dominuim Venetum conservat Republica, Religione, Lege, Iustitia, Subditos, Charitate, Amore, Pietate. Cosa significa, questo “latinorum” astruso? semplicemente che la Repubblica conserva il suo stato (Dominium) attraverso la Legge (non quindi l’arbitrio del Despota), la Religione che garantiva la giustezza delle leggi ispirate a principi naturali, e la Giustizia, che era tenuta ad applicare le leggi di derivazione cristiana, mentre i suoi cittadini erano ‘conservati’ dalla Carità, dall’Amore, dalla Pietà.
Tutte virtù del Buon Governo come lo si intendeva allora, e come non lo si intende più oggi. Pare che l’amore, la pietà e la carità dello stato verso i cittadini, sia una anacronismo.
Esistono solo ‘diritti’ e carte costituzionali, ma manca l’amore di fondo, in una civiltà basata sull’egoismo.
Si prova sempre una certa impressione, positiva, di quelle che ti scaldano il cuore, quando arrivi a Buje, un paesino di poco più di 5000 abitanti situato nella parte settentrionale dell’Istria.
Definito nel passato la “Sentinella dell’Istria”, possiamo oggi definirlo, anche con un po’ di orgoglio, un “baluardo veneto”. Qui tutto ci parla della nostra plurimillenaria cultura, dai Leoni di San Marco – se ne contano tre soltanto nella piazza storica del paese – alle tradizioni ancora vive e, soprattutto, alla lingua.
Sì perché, pur essendo in uno stato straniero (Croazia), lontano nello spazio e nel tempo dalla madrepatria veneta, Buje e i suoi abitanti conservano vive le tradizioni e gli antichi legami con il Veneto.
Appena giunti a Buje non stupisce quindi di sentire il poliziotto, il panettiere, il barista o la professoressa parlare fra di loro in veneto, o per meglio dire in “istroveneto”.
Questo legame dalle antiche “raixe” vive e resta forte grazie all’impegno e all’amore per la cultura veneta di molte persone che ogni anno organizzano eventi e manifestazioni, fra i quali l’ormai famoso “Festival dell’Istroveneto – Dimela Cantando”: una settimana di dibattiti, incontri ed eventi di carattere letterario e canoro, che sfociano nella 3 giorni finale dedicata ad un vero e proprio concorso musicale.
Lo scopo della manifestazione – si legge dal sito www.istroveneto.com – è quello di tutelare e promuovere il dialetto istroveneto che, nonostante sia una “lingua viva” in quanto attivamente parlata, subisce in seguito ai naturali mutamenti socio-economici, un lento ma inesorabile impovetrimento lessicale, in particolar modo nella sfera legata degli antichi mestieri e della vita agreste.
Il Festival è promosso dell’Unione Italiana, in collaborazione, con il sostegno e con il patrocinio della Città di Buie, dell’Assessorato alla Cultura della Regione Istriana, dell’Università popolare di Trieste e della Regione Veneto. Vista l’importanza della manifestazione e il suo alto valore culturale, la stessa ha ottenuto il Patrocinio della Regione Veneto.
Possiamo dire che anche quest’anno il Festival dell’Istroveneto non ha sicuramente deluso le aspettative: durante le tre tappe del consorso canoro – a Muggia (Italia), Capodistria (Slovenia) e Buje (Croazia) – 17 artisti si sono esibiti davanti ad un pubblico partecipe e divertito, sotto l’occhio (e l’orecchio) attento di una giuria di esperti internazionali.
Vincitore del Concorso 2017 è stato Andrea Scarcia con “Ciapa fià”, secondo premio a Francesco Squarcia con la canzone “Due cuori” e terzo Ivan Bottezar con “Dame la man”.
Abbiamo il piacere di segnalarvi questo video, tratto da una poesia di Giampaolo Feriani (1938-2015), che si spese per “seminare la nobiltà della lingua veronese”.
Un viaggio alla scoperta di Venezia attraverso il vocabolario dell’isola e alcune magiche leggende.
Tra tutte le città meravigliose che ci sono in Italia, Venezia è probabilmente quella più strana e affascinante: sarà perché non ci sono le automobili e quindi, turisti e vaporetti a parte, c’è quasi sempre un silenzio irreale; sarà perché d’inverno la nebbia rende calli e campielli ancora più misteriosi e onirici; sarà per il magico Carnevale che ogni anno attira visitatori da tutto il mondo; sarà per le leggende che circolano e che spiegano l’origine di ogni angolo dell’isola… chissà! Quel che è certo è che Venezia è unica al mondo (malgrado i tentativi malriusciti di imitazione) e merita di essere visitata da tutti almeno una volta nella vita.
Oggi non vogliamo portarvi a visitare luoghi turistici arcinoti come Piazza San Marco, Rialto e il Ponte dei Sospiri (sebbene vi consigliamo caldamente di andarli a vedere prima o poi): vi porteremo a scoprire la città attraverso la sua lingua, o meglio, per essere precisi, attraverso il suo dialetto. Lo sapevate che alcune parole dialettali veneziane non solo sono entrate di diritto nella lingua italiana, ma, in alcuni casi, sono presenti anche in lingue come l’inglese e il francese?
La prima della lista è certamente la più famosa ed internazionale: ciao altro non significa che “schiavo” (s’ciavo) e sta a indicare la fedele amicizia di chi sta pronunciando il saluto. Dire “ciao” significa, infatti, comunicare a qualcuno che si è al suo servizio (si è “schiavi” di quella persona). Sorprendentemente questa forma di saluto è entrata a far parte della lingua italiana solo all’inizio del Novecento, eppure si è diffusa rapidamente ed è presente oggi in moltissime lingue, con diverse variazioni.
Altre parole, forse prevedibili e che utilizziamo tutti i giorni senza accorgercene, sono quelle strettamente legate alla storia della città: laguna (che a sua volta deriva dal latino lacuna, cioè “posto vuoto”), arsenale e darsena (che derivano a loro volta dall’arabo Dār al-ṣināʿa), lido, regata, gondola e cantiere, tanto per citare le più note. Anche senza bisogno di grandi spiegazioni etimologiche, si può facilmente dedurre che derivano tutte dalla tradizione navale veneziana, dalla storia della Serenissima quale Repubblica Marinara e, più in generale, dalla posizione insulare del capoluogo veneto.
Andiamo ora a scoprire assieme alcuni vocaboli… inaspettati. Ecco i miei esempi preferiti.
Marionetta
L’origine della marionetta è molto lontana nel tempo e risale addirittura a un evento accaduto a Venezia nell’anno 944. All’epoca i matrimoni cittadini venivano celebrati tutti nello stesso giorno e un “corteo acqueo” portava le promesse spose al cospetto dei rispettivi mariti, che attendevano alla chiesa di San Pietro in Castello. Nel 944 alcuni pirati triestini rapirono le ragazze (e le loro doti), ma vennero quasi immediatamente catturati dai valorosi veneziani, che riuscirono a riportare a casa le fanciulle senza che venisse loro fatto alcun male.
Per ringraziare la Vergine della Serenissima per il fortunato esito del rapimento, si decise di imporre ad alcune influenti famiglie nobili della città di provvedere alla dote di 12 ragazze povere che, da quel momento, diventarono “le Marie” e che, ogni anno, sfilavano per la città in ricordo della vittoriosa spedizione veneziana contro i triestini. Ben presto, tuttavia, la scelta delle Marie diventò ardua (tutte le ragazze veneziane volevano godere di un simile privilegio!) e la voglia di mettersi in mostra da parte dei patrizi si tramutò in una gara al rialzo che diventò presto economicamente insostenibile. Che fare, dunque, per mantenere la tradizione senza scontentare nessuno? Nel 1272 la Serenissima decise di sostituire le dodici ragazze con figure di legno piuttosto grandi che vennero presto ribattezzate “Marione” per la loro dimensione. I commercianti cittadini, poi, decisero di riprodurre in forma ridotta le “Marione” per metterle in vendita come… “marionette”.
Ballottaggio
La parola “ballottaggio” deriva dalla procedura complicatissima che veniva messa in atto per eleggere il Doge e per assicurarsi che la votazione fosse completamente imparziale e trasparente. Il fulcro di tutta l’operazione era costituito da alcune palline d’oro e d’argento (le “ballotte”) che venivano inserite in un’urna ed estratte dai senatori in diversi momenti. Tale procedura serviva a garantire, ad esempio, che non ci fossero due membri della stessa famiglia nel corso della medesima votazione.
Il termine viene utilizzato anche negli Stati Uniti (“ballot”) e in Francia (“ballottage”) per un motivo molto semplice: quando, nel 1700, queste giovani democrazie si trovarono a dover scegliere un sistema elettorale, scelsero come esempio l’unica democrazia (quella veneziana) presente al tempo.
Imbroglio
Fatta la legge, trovato l’inganno! Per poter truccare il sistema (presumibilmente) sicuro delle ballotte d’oro e d’argento, i membri del Consiglio si incontravano per tramare intrighi e promesse elettorali nel “Brolio”, un giardino alberato che si trovava nei pressi del Palazzo Ducale dove, appunto, avveniva la votazione. L’”imbroglio” è dunque un’italianizzazione del nome di questo luogo.
Pantaloni
Il tipico travestimento carnevalesco veneziano, spesso associato ai servitori Arlecchino e Colombina, è proprio quello dell’avaro commerciante Pantalone. Il termine “pantaloni” riferito ai calzoni lunghi che indossiamo tutti i giorni, dunque, deriva proprio dagli abiti di questo personaggio tipico. Pare che, infatti, quelle braghe fossero così diffuse tra i popolani veneziani che anche in Francia i cittadini della Serenissima venissero chiamati con il nomignolo di “pantaloni”.
Gazzetta
Quando, ogni giorno, vi recate in edicola per comprare il quotidiano, sappiate che, in un certo qual modo, state perpetuando un’antica tradizione veneziana che risale al 1500. Per aggiornare la popolazione sull’andamento della crisi con l’impero turco, infatti, la Repubblica Serenissima pubblicava dei giornali di poche pagine (un massimo di otto) che poi erano venduti al pubblico al prezzo di due soldi. E indovinate? Il nome della moneta da due soldi di Venezia era “gaxeta”, italianizzato nel corso degli anni in “gazzetta” e diventato presto sinonimo di una pubblicazione periodica con notizie utili agli abitanti di un determinato territorio.
Se volete saperne di più sulla storia delle leggende veneziane, vi consiglio il libro “Misteri di Venezia” di Alberto Toso Fei, nel quale ho individuato alcuni degli aneddoti raccolti in questo articolo.
Tra ’400 e ’600 una galassia culturale unica nel suo genere
Doppi sensi, ambientazioni contadine, immagini surreali: Paccagnella pubblica il vocabolario della lingua di Ruzante.
Pare impossibile che generazioni di studiosi continuino a occuparsi assiduamente di autori della nostra letteratura che non pongono alcuna particolare difficoltà di comprensione della lettera del testo (la prima e indispensabile chiave d’accesso a qualsiasi opera letteraria) né alcun particolare sforzo di ricostruzione storica, riducendosi a semplici palestre di elucubrazione per disimpegnati stilisti. Pare impossibile soprattutto pensando che nel bel mezzo della nostra storia culturale vi è almeno un poderoso filone letterario che al vario pregio artistico dei suoi prodotti accompagna una straordinaria sfida linguistica. Parliamo della letteratura pavana: un capitolo a lungo pigramente relegato ai margini, che ha prodotto con Ruzante almeno un colosso della letteratura europea, e con la miriade dei suoi anticipatori e seguaci, tra Quattro e Seicento, una galassia culturale unica nel suo genere.
La letteratura pavana è tutta imperniata sull’impiego di una varietà linguistica che arieggia il padovano rustico, ma si discosta dalla sua realtà storica per sovraccaricarlo espressivamente: un faelare di villani e di contadine, prodotto però da autori tutt’altro che demotici, che giocano con la lingua come i grandi pittori del Rinascimento veneto giocavano col colore.
Producendo capolavori: come i teleri delle commedie, dei dialoghi e dei monologhi ruzantiani; come i quadri venezian-padovani di un Andrea Calmo, o la vertiginosa serie dei bozzetti poetici allineati dalla triade Magagnò, Menon e Begotto nelle loro raccolte di rime. Una lingua caotica, che mette a dura prova anche i lettori più esperti (tanto che di solito le edizioni di questi testi rivolte al pubblico si presentano con traduzione a fronte o a margine); ma anche, finalmente, una lingua disvelata fin nelle sue pieghe, grazie al Vocabolario del Pavano che Ivano Paccagnella ha appena pubblicato, per i tipi (padovani, ovviamente) di Esedra.
Mille pagine per esplorare, parola per parola, tutto l’immenso tesoro della lingua di Ruzante, dei pre-ruzantiani (soprattutto quattrocenteschi) e dei post-ruzantiani, fino al misterioso autore di un Dialogo che in passato fu attribuito nientemeno che a Galileo Galilei, professore allo Studio di Padova. Mille pagine, migliaia di termini su ciascuno dei quali Paccagnella – professore allo stesso ateneo patavino, e allievo di Gianfranco Folena, che un’impresa simile compì sul veneziano di Carlo Goldoni – ha sudato per vent’anni. Tanto ci è voluto per riuscire ad avere edizioni attendibili (sia pur di servizio) del corpus dei testi pavani, ma soprattutto per cercar di spiegarne chiaramente ogni singolo termine ed espressione. Ogni proverbio, ogni irriverente allusione, ogni turpe doppio senso. Di lasciarli nel vago è capace qualsiasi saltimbanco: ma il difficile è inchiodarli, su una pagina di dizionario, a un preciso significato. O almeno formulare un’ipotesi plausibile sul loro significato e sul motivo per cui sono stati impiegati. Giacché, per citare ancora Galileo, «parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».
E l’intenzione di Ruzante non era certo quella di non farsi capire: solo che il suo pubblico viveva in un ambiente culturale naturale e insomma in un tempo ormai irrimediabilmente separato dal nostro, del quale si può però tentare di ricostruire luoghi, suoni, piante, animali, abiti, concetti che non fanno più parte delle nostre abitudini. Proprio come nel Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, con cui Folena vent’anni fa aveva dischiuso il mondo del commediografo veneziano, basta atterrare su un verbo qualsiasi, anche il più familiare – che so, andare – per scoprire modi di dire, e con essi, nozioni antiche, che credevamo di aver dimenticato: andare a mario (a marito), ma prima (sperabilmente solo prima) andare a morose, andar drio (nel senso di «continuare»), andar in bando (per «esser banditi»), andar al bordello o ai bordiegi (nel senso di «in malora»), ma anche andare a ponaro (letteralmente «al pollaio»: significa «a dormire») o andar a versoro (andar nei campi spingendo l’aratro), andar int’un acqua («sciogliersi») o andar in broetto («sdilinquirsi», andare in brodo), fino ad un andare in gluoria che per i villani ha il significato terra- terra di «godere»: «co’ butto gi uocchi in te ’l to sen / a’ vago in gluoria secoloro, amen».
Dalla pagina “Venezia a tavola” la spiegazion de na maniera de dire de la lengua veneta.
Non soltanto ogni ricetta ma anche ogni modo di dire veneziano porta con sé anche un pezzetto di storia. Per esempio, i veneziani sanno che dire a una persona “ti xe seco incandìo!” vuole dire “ti vedo smagrito, un poco patito”. Ma, come mai?
In questo caso dobbiamo fare un salto indietro di oltre 350 anni e immaginarci cosa potesse essere stato l’assedio di Candia (l’attuale Creta) durante la lunga Guerra combattuta tra Venezia e l’Impero Ottomano. Siamo alla metà del ‘600 e Candia era controllata dalla Serenissima, per questo motivo subì un estenuante assedio, forse il più lungo della storia, durato oltre 22 anni, dal 1647 al 1669, terminato alla fine con la conquista turca.
Il 5 settembre 1669, dopo 29.000 caduti tra i difensori e 108.000 tra gli assedianti, il Capitano Generale da Màr Francesco Morosini, comandante delle forze veneziane, firma la resa con l’onore delle armi e la possibilità per tutti i cristiani di lasciare l’isola, ma senza portare nulla con sé.
Così ci racconta quei fatti lo scrittore Alberto Toso Fei, in un’intervista di Veneziani a Tavola di qualche tempo fa…
<< Nel 1669, quando entrarono a Candia, i turchi non vi trovarono i quattromila abitanti superstiti, che approdarono alcune settimane più tardi a Venezia. Dalle condizioni in cui li si vide arrivare presero piede in città i modi di dire “essere in Candia”, cioè “essere agli estremi”, ma anche “esser seco incandìo”, che ancora oggi si usa per indicare una persona particolarmente magra per il fatto che non mangia.
Nel 1821 (152 anni dopo l’abbandono dell’isola da parte dei veneziani) furono trovate ancora intatte e sane (anzi, di gradevole sapore!) delle gallette inviate da Venezia per rifocillare le truppe nel corso del lungo assedio. La ricetta del “frisopo” (era questo il nome del particolare pane, noto anche con l’appellativo di biscotto) era segreta, e oggi non se ne trova più traccia. Unico indizio il nome, “bis-cotto” appunto, che lascia intendere come venisse cotto due volte per ridurne al minimo il contenuto d’umidità. Le gallette venivano impastate appena fuori le mura dell’Arsenale, dove ancora oggi c’è Fondamenta dei Forni. >>
Dalla storia, alle emozioni alla politica linguistica: sono questi gli aspetti che ha toccato il professor Matteo Santipolo docente di Glottodidattica e didattica della lingua inglese presso l’università degli Studi di Padova, relativamente sul rapporto tra Italiano e Dialetto nel Veneto
CULTURA ROVIGO Il professor Matteo Santipolo è stato il relatore dell’incontro del ciclo “Veneto, Italia, Mondo”, incentrato sul tema del rapporto tra Italiano e Dialetto nel Veneto d’oggi
Rovigo – Grande attenzione al quarto incontro del ciclo Veneto, Italia, Mondo: riflessioni sul repertorio linguistico tra passato, presente e futuro organizzato dal comitato rodigino della società Dante Alighieri che ha visto il professor Matteo Santipolo, direttore scientifico dell’iniziativa, intervenire sul difficile tema del rapporto tra Italiano e Dialetto nel Veneto d’oggi: tra storia, emozioni e politica linguistica.
La conferenza ha visto una grande partecipazione e il sostegno dell’assessore alla Cultura Donzelli che ha sottolineato come “Il professor Santipolo è fra i giovani più importanti della nostra città ed il suo intervento di sicuro provocherà riflessioni utili, elemento importante per muovere la cultura rodigina, anche se – ha aggiunto – i media locali faticano a seguire questo tipo di iniziative”.
Divisa in 8 punti chiave, che hanno toccato gli aspetti storici, sociali e culturali del veneto, la conferenza del professor Santipolo, docente di Glottodidattica e didattica della lingua inglese presso l’università degli Studi di Padova, è partita da un assunto fondamentale: “Il Veneto non è un dialetto, ma una lingua con una sua storia, una sua letteratura e una sua grammatica, nata, così come l’italiano, dal contatto fra il latino e le antiche lingue presenti nella nostra regione”.
Non siamo di fronte, quindi, ad un idioma minoritario rispetto alla lingua ufficiale, bensì ad una lingua che all’interno dei nostri confini regionali è parlata da circa 3 milioni di persone, dialettofone o semi-dialettofone, etichetta che, come ha spiegato lo studioso “indica tutti i parlanti che si sono avvicinati al dialetto partendo dalla lingua materna, perchè siamo tutti capaci di comprendere il veneto e soprattutto di identificarci nella comunità veneta grazie a questa lingua”.
Punto centrale dell’incontro è stata la riflessione sulla legge 116, approvata dal consiglio regionale, ovvero la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze (linguistiche) nazionali: “L’Italia ha iniziato una politica linguistica già negli anni venti, prima del fascismo, quando partendo dai dialetti si è cercato di avvicinare i parlanti alla lingua nazionale – ha detto Santipolo – poi si è tentato dagli anni ’70 di tutelare le varie lingue presenti nella Penisola, fino alla legge 482 del 1999, che prevede la tutela di 12 minoranze linguistiche, fra cui manca il veneto”.
Non sarebbero pochi, tuttavia, i problemi portati dalla nuova normativa, che interessano i piani sociale, fiscale, giuridico ed educativo: “Non si tratta di difficoltà impossibili da risolvere – ha specificato il professore – ma di complicazioni di cui è necessario tenere conto: dalle traduzioni dei documenti ufficiali, agli interpreti nei tribunali, all’immagine dei veneti, già considerati chiusi, fino all’insegnamento e alla formazioni degli stessi insegnanti e alla domanda principale: quale fra le varietà venete verrà insegnata?”.
“Il tema è di grande attualità” ha commentato Mirella Rigobello, presidente del comitato rodigino della Società Dante Alighieri. Ringraziando il pubblico per la partecipazione, la presidente ha poi ricordato “col prossimo appuntamento si chiuderà il ciclo di seminari diretto dal professore che ha dimostrato non solo grande competenza nei suoi interventi, ma anche grande professionalità nella gestione dell’intera manifestazione”.
A chiudere gli appuntamenti de LaDante sarà la professoressa Carla Marcato dell’università di Udine con un convegno dal titolo Nomi di Luogo nel Veneto: Storia e Significato, che si terrà a Palazzo Roncale il 23 maggio alle 16.30.
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento del Prof. Giulio C. Lepschy – University College London – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
Lepschy concentrates his own remarks more on those elements associating «language» to «dialects» than on their being in contrast, because he is convinced of the fact that the opposition between the Italian language and dialects is an «illusory device», while Italian culture and civilisation can be conceived only if they coexist.
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento del Prof. Luca D’Onghia – Scuola Normale Superiore, Pisa – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
D’Onghia deals with a first map of an area in the Venetian literary production that has not been studied yet: this is the so-called «Experimental fifteenth century», with its vivid stylistic and linguistic experiences (more in the mainland than in the capital of the Most Serene Republic of Venice). Different commented specimina of Andrea Michieli (Strazzòla), Giorgio Sommariva, Paolo da Castello, Bernardino Tomitano, Sicco Polenton enrich the essay.
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento della Prof. Ronnie Ferguson – University of St Andrews, UK – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
This documentary analysis of seventeenth-century written English highlights the presence of words borrowed into English from Venetian dialect. This research field, hitherto largely unexplored, is beginning to yield important results. These indicate that a significant part of the Italian lexical and cultural heritage in English entered the language via Venetian, with an exceptional con- centration around 1600. Three key works from the period are analysed for their impact in this area: the two editions of John Florio’s dictionary A Worlde of Wordes (1598 and 1611), Coryats Crudities by Thomas Coryate (1611) and Volpone by Ben Jonson (1607).
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento del Prof. Arturo Tosi – University of London / Università degli Studi di Siena – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
The main focus is on which language could actually translate hu- man thoughts in a bilingual context. According to the scientific literature and applying the theory of J. Cummins, the author underlines that the first language (in the Italian case, the dialect) has a relevant expressive aim; on the contrary, the cognitive actions concern with the second language. The danger is to impose the learning of dialect at school, since it normally survives in the daily speaking code. In other words, «speaking the Venetian dialect means thinking in Venetian dialect» and considering the Italian language as a mandatory foreign language are two statements based more on political reasons emphasising the difference between the changes traditionally present in the Italian linguistic history, than a linguistic real situation.
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento della Prof.ssa Gianna Marcato – Università di Padova – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
Marcato offers a diachronic series of documentary and literary sources (13th-20th century) with which she briefly shows that meaning and value of linguistic variety of the Veneto depends on a long history; moreover she dem- onstrates that their current strength derives from the tranquillità linguistica («linguistic calm») produced by the condition of variety spoken in a cultural context that Venice still guarantees.
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento della Prof.ssa Flavia Ursini – Università di Padova – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
The essay starts from the fact that the unesco Atlas of the World’s Languages in Danger classifies the different «Venetian variety» (the definition preferred to the one of Venetian «dialects» or «language») as a «vulnerable» variety, which is a better status than the one of other languages of the world. Using those data coming from the most recent surveys of the Istat («Italian National Institute of Statistics») Ursini describes the linguistic situation of the Northeast Italy which is characterised by the strong presence of any local variety and by a «double image»: on the one hand, the significant tradition of the native-speaking people and their huge proficiency; on the other one, the innovative trend of young people who re-discover their dialect and spread it, though in a reduced mass. Then, Ursini analyses the different public politics for preserving and promoting the so-called «weak» languages and proposes some remarks on their efficacy (sometimes very problematic).
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento del Prof. Christopher Moseley – linguista dell’UNESCO, curatore del manuale “Atlas of the World’s Languages in Danger” – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
Abstract:
After a brief chronicle concerning the history of the Atlas of the World’s Languages in Danger edited by unesco and its first volume editions (1996, 2001), Moseley lingers over the layout and the functioning of the third edition, in its digital version (2009). Particular attention is dedicated to the filing of «degree of endargement» of languages of the world (six different degrees, starting form «Safe» up to «Extinct»), and to the linguistic situation of contemporary Italy.
Riportiamo di seguito la trascrizione dell’intervento del Prof. Giovanni Puglisi – Presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco – tenuto in occasione del Convegno internazionale “Il veneto: tradizione, tutela, continuità” – Venezia 11-12 febbraio 2011.
EuroComoRom: I Sete Tamizi – Ła ciave par capir tute łe łengue romanse, Aachen (Frankfurt), 2016, 265 pp.
Si tratta del primo manuale universitario interamente scritto in lingua veneta moderna, pubblicazione scientifica dell’Università di Francoforte, che sostiene l’iniziativa e appone anche il suo logo in copertina, affiancato da quello dell’Academia de ła Bona Creansa, ente veneto che ha collaborato nella cura degli aspetti scientifici ed empirici in merito alla lingua veneta, alle sue caratteristiche ed ai suoi parlanti, con i quali è venuta in profondo contatto grazie ai famosi Corsi di Veneto che ha tenuto in 6 province, diplomando quasi 500 persone.
Il lavoro scientifico, che si compone di 265 pagine interamente redatte in lingua veneta moderna, elabora e dimostra una teoria linguistica (quella del multistandard veneto) che si esplica nell’uso di una particolare ortografia che consente l’espressione completa ed esatta della lingua. Inoltre, ed ancor più, il manuale raffronta sul piano dell’intercomprensione linguistica il veneto con altre sei lingue romanze, ossia il francese, lo spagnolo, l’italiano, il romeno, il catalano ed il portoghese, evidenziando la natura della lingua veneta nei suoi tratti fonetico-fonologici, ortografici, morfologici, lessicali ad anche sintattici, dimostrandone la sostanziale unità proprio negli intrecci di diversità, oltre che evidenziando i molti caratteri distintivi, a volte condivisi con altre grandi lingue (quali il francese), a volte di sua propria peculiarità.
È un manuale universitario con approccio plurilingue e glottodidattico, e pertanto potrà essere utilizzato sia come libro di testo per studenti, ma anche come manuale per la formazione di insegnanti, che desiderino apprendere il veneto in un contesto plurilingue: unico requisito conoscere almeno un’altra delle altre 6 lingue in comparazione (italiano, francese, portoghese, spagnolo, catalano e romeno), e ciò amplia la possibilità anche ai venetofoni dell’emigrazione in Brasile, in Messico e altrove. Vieppiù, il manuale può essere utilizzato dai madrelingua veneti anche per sfruttare il veneto come passepartout per apprendere una o più delle altre già citate 6 lingue, in un’ottica di apertura linguistica, che vede la lingua veneta come elemento di promozione del plurilinguismo.
Merita sicuramente una menzione il libro scritto da Erik Umberto Pretto “Ła storia de Joanìn sensa paura – Memorie de un Alpin de ła Seconda Guera Mondiałe”, non solo perché narra le vicende del nonno ‘Joanìn’ e, di riflesso, del mondo Veneto di allora, ma anche perché è scritto interamente il lingua veneta.
Un’impresa sicuramente non facile, nata dopo un’attenta analisi e studi da parte dell’autore sulla lingua e grammatica veneta. Come egli stesso spiega infatti “prima di scrivere il testo è stato eseguito un attento, rigoroso ed approfondito studio della grammatica veneta, per il quale è stato necessario analizzare diversi volumi.
Tale ricerca ha impiegato molto tempo, ma si è rivelata indispensabile al fine di scrivere un libro che possa essere letto e compreso in tutte le aree linguistiche della nostra Regione. In particolare, le regole grammaticali alle quali mi sono ispirato maggiormente sono quelle contenute nella seguente bibliografia:
– S. Belloni, Grammatica veneta, Esedra editrice, Padova 2009
– M. Brunelli, Manuàl Gramaticałe Xenerałe de ła Łéngua Vèneta e łe só varianti
– Giunta regionale del Veneto, Manuale Grafia Veneta Unitaria, La Galiverna editrice, Venezia 1995
Inoltre, per facilitare la lettura a coloro che non hanno molta dimestichezza con il vernacolo, a fondo pagina sono state inserite delle note nelle quali è riportata la traduzione italiana dei termini locali oppure arcaici usati all’interno del testo”.
Riportiamo di seguito alcuni antecipazioni sulla trama e la storia narrata, riportate all’interno del sito www.joaninsensapaura.com , nel quale potete trovare anche i riferimenti per acquistare il libro, accedere alla pagina facebook ed altre interessanti curiosità.
Il libro raccoglie la testimonianza storica di Natale Turcato detto Giovanni (nato a Marano Vicentino il 17/12/1919), il quale fu Alpino dell’Esercito Italiano durante il Secondo Conflitto Mondiale e successivamente internato militare nei Lager nazisti.
L’opera è nata per volontà di un nipote di Natale, il quale ha iniziato, qualche anno fa, a raccogliere il più fedelmente possibile i ricordi del nonno nel timore che il tempo li disperdesse per sempre. Tali racconti, colti inizialmente in ordine sparso e successivamente riordinati cronologicamente, sono stati trascritti in lingua veneta così come l’autore ha avuto la fortuna di ascoltarli.
Ne è nato un racconto scorrevole, piacevole alla lettura, arricchito da svariate fotografie e da alcuni preziosi documenti d’epoca.
Il libro è organizzato in una serie di brevi capitoli consecutivi, autonomi fra loro, in ognuno dei quali viene trattato un episodio della vita del protagonista. Questa scelta narrativa rende il racconto assai gradevole, e permette eventualmente al lettore di scorrere l’intero volume per soffermarsi soltanto sui paragrafi ritenuti più interessanti.
Segnalato dalla Giuria del concorso letterario “De Cia” 2011 sulla letteratura di montagna e vincitore del 3° premio al concorso letterario internazionale “Mario Donadoni” 2012 per la prosa in lingua veneta, successivamente il testo è stato utilizzato per la produzione dell’omonimo reading a cura della compagnia teatrale professionista Ensemble Vicenza Teatro.
Il racconto narrato inizia con alcuni episodi relativi alla vita di ragazzo del protagonista – Joanìn – ambientati nella campagna vicentina.
Si affronta quindi l’esperienza della guerra. All’età di 19 anni, Natale Turcato viene chiamato alle armi e destinato al Gruppo Artiglieria Alpina “Val Isonzo” di stanza a Gorizia, facente parte della Divisione “Julia”. Dopo un breve addestramento militare, Natale verrà inviato al fronte Greco- Albanese, creatosi con l’inizio della Campagna Italiana di Grecia. Sarà poi trasferito in Montenegro, per contrastare le rivolte ad opera dei partigiani titini avversi all’occupazione Italo-Tedesca della Iugoslavia.
Tornato in Grecia, più precisamente nella regione dell’Epiro, cadrà prigioniero dei Tedeschi in seguito all’Armistizio dell’8 settembre 1943. Deportato quindi in Germania per essersi rifiutato di arruolarsi nelle truppe della nascente Repubblica Sociale Italiana, verrà internato nel Lager nazista di Wartenberg, presso Berlino. In particolare in questa parte del libro colpisce la drammaticità degli eventi; emerge però sempre la straordinaria personalità di Natale, che si dimostra in ogni occasione incapace di odiare ed ostinato nel cercare di vedere il lato positivo delle cose.
Concluso il Secondo Conflitto Mondiale, con la resa incondizionata del Terzo Reich, Natale sarà preso in consegna dalle truppe sovietiche, che lo tratterranno per quattro mesi in una località tedesca prossima al nuovo confine polacco.
Sventato il pericolo della deportazione in Siberia, verrà finalmente rimpatriato nel settembre del 1945.
Il tutto si conclude con il ritorno del protagonista al suo paese natio, più precisamente con il suo matrimonio e con il suo conseguente passaggio a nuova vita.
Beltrame: «Sarebbe un arricchimento formativo e di sviluppo cognitivo per tutti gli alunni»
VENEZIA L’eventuale introduzione per legge del «veneto» come lingua da studiare non sarebbe vista come un problema dall’Ufficio regionale scolastico. Lo precisa il direttore generale Daniela Beltrame, in riferimento al progetto di legge regionale 116, quello sul bilinguismo, che sarà votata dal Consiglio regionale la prossima settimana. «Se, come già avviene per la lingua friulana o per il ladino, l’occitano, il catalano, l’albanese, il sardo, una legge nazionale o regionale introducesse lo studio, accanto alle altre lingue straniere, anche della lingua veneta nelle scuole, ciò sarebbe un valore aggiunto e non un peso per le scuole e per gli alunni» afferma Beltrame.
«Il discorso – prosegue la dirigente scolastica – non va posto in termini di contrapposizioni o di priorità tra lingue, quelle più usate e quelle meno usate, quelle più importanti a livello commerciale e comunicativo mondiale e quelle meno, ma va assunta nella prospettiva plurilinguistica, in aderenza alle Raccomandazioni Europee, ai principi a cui tutta l’azione del Ministero dell’Istruzione in questi anni si è ispirata, ritenendo che le diversità linguistiche siano un elemento di democrazia e di rispetto dell’identità culturale delle persone». «L’integrazione nell’offerta formativa delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado dell’uso e della conoscenza di una lingua minoritaria, nel rispetto della scelta delle famiglie di avvalersi o no del relativo insegnamento – conclude Beltrame – non rappresenterebbe un aggravio ma un’opportunità di arricchimento formativo e di sviluppo cognitivo per tutti gli alunni, come sostenuto dalle ricerche internazionali di psicolinguistica e di sociolinguistica».
“El véneto (también conocido como veneciano) es una lengua indoeuropea de la familia romance, es decir, descendiente del latín. Es hablada por 7,852,500 personas (según datos de Ethnologue, 2016) en diferentes regiones del mundo, principalmente al noreste de Italia, en la península de Istria (Croacia y Eslovenia); en los estados brasileños de Rio Grande do Sul y Santa Catarina; y en la comunidad de Chipilo, en el estado de Puebla, México. Las personas pertenecientes al grupo étnico que la habla son denominados vénetos, al igual que la región de la que provienen: el Véneto, actualmente una entidad política de la República de Italia”
Così inizia la tesi di laurea sulla Lingua Veneta di Jared Galvan, con particolare riferimento al Veneto parlato a Chipilo dai discendenti dei veneti emigrati in quelle terre.
Una testimonianza preziosa della vitalità della lingua veneta, che resiste con forza nonostante la lontananza dalla madrepatria.
La contrapposizione tra lingua e dialetto è un fatto antico.
Già nel Vangelo (Matteo, 26 – 73) si legge che Pietro venne riconosciuto da un’addetta al Sinedrio a causa della sua parlata, fatto che conferma che perfino Gesù e gli Apostoli usassero con disinvoltura tale linguaggio.
Con l’apparizione del “volgare” la resistenza della lingua dotta deve essere stata tenace, a giudicare dai monumenti letterari in latino, peraltro pregevoli, risalenti ai secoli tra il X e il XIV. Altri tentativi di rivalsa furono esperiti nel XV secolo, durante l’Umanesimo. Poi il “volgare” rimase l’indiscusso interprete delle rispettive culture.
Diverso fu tuttavia l’uso che della lingua “volgare” fecero gli abitanti della città e della campagna.Entrambe le classi adattarono il linguaggio alle circostanze e finalità quotidiane, spesso impermeabili anche se conviventi nelle medesime località.
Non ne seguì una contrapposizione come al tempo della comparsa del “volgare”, bensì un consolidamento di due modi di parlare, che si concretò anche in una generale dimensione di derisione, e spesso di disprezzo, nei confronti di quanti usavano il linguaggio parlato nella campagna.
E’prova di quanto sopra la comparsa, verso il XII secolo, del termine francese “patois”, che divenne successivamente sinonimo di “dialetto”. Anche il linguista francese Albert Dauzat (1877 – 1955) concorda che la parola “patois” deriva dal francese “pattes”, cioè “piedi”. Sarebbe come dire che gli abitanti della campagna parlano con i piedi.
Gli abitanti della campagna parlano invece, come tutti gli esseri umani, con gli organi della fonazione sapientemente e senza discriminazioni elargiti da madre natura!
CARATTERISTICHE DELLA LINGUA
Lo spagnolo, il francese, l’italiano, l’inglese… sono lingue. E che sarebbero mai il veneto, il bergamasco, il romagnolo? Si tratta forse di banali grugniti, di ragli sonori oppure di sommessi belati?
Il glottologo Angelo Monteverdi (1886 – 1967) sostenne che un linguaggio che servisse a scrivere poesie, prosa di svago (racconti, fiabe, romanzi, canzoni…), prosa devozionale (prediche, vite di santi, catechismi), nonché atti giuridici e notarili, non è una lingua. Soltanto quando un linguaggio dimostrerà la sua idoneità in tutti i campi culturali, compresi i settori politico e amministrativo, può essere considerato una lingua.
Ne consegue che il francese del XII secolo, il prestigioso linguaggio della Chanson de Roland, non era una lingua. Nemmeno l’italiano di Dante, Petrarca, Boccaccio era una lingua!- Bisognerà attendere il Quattrocento, quando il dialetto toscano penetrerà anche nell’Italia Settentrionale, nonché la sua normalizzazione condotta da Pietro Bembo (1470 – 1547) e dai teorici successivi. Anche il catalano sarebbe una lingua da poco tempo.
Se questa considerazione vale per lo sviluppo, essa deve valere anche per il declino delle lingue, comprese quelle che sono ritenute eterne.
Le caratteristiche necessarie per definire una lingua possono essere sintetizzate come segue:
1. Originalità grammaticale:
a) nella fonetica,
b) nella morfologia,
c) nel lessico;
Originalità della genesi storica
3. Secolare tradizione letteraria
4. Coiné linguistica
5. La coscienza di parlare una lingua
6. L’esistenza di un corpo sociale che la consideri come espressione di cultura.
LA LINGUA VENETA
Le prime cinque caratteristiche sono pacificamente presenti nel linguaggio veneto. Troppo lunga sarebbe l’elencazione dei loro tratti, ma basti pensare alla presenza dei suoni come “dh”, “th” e “zh”, all’assenza del passato remoto e alla mutilazione del futuro, al cospicuo contingente di vocaboli assolutamente originali, alla vasta serie di voci latine semanticamente differenziatesi dai continuatori delle stesse basi nelle altre lingue romanze.
Il veneto fu per secoli una vera lingua che servì negli atti notarili, nei rapporti diplomatici, nella storiografia, nella poesia, nel teatro, nella conversazione colta dei ceti più elevati, nelle transazioni internazionali.
Da un’indagine sul Veneto, redatta per ordine di Napoleone nel 1806 da estensori impazienti di poter dimostrare che nulla era il resto del mondo di fronte ai lumi della ragione di estrazione francese, risulta inoltre che “il notissimo bel dialetto tuona maestoso nel Foro”.
Quanto alla coscienza di parlare una lingua, l’esatta dimensione di questa realtà può desumersi dall’alto grado di ostilità contro il veneto, che non sarebbe tale qualora l’avversario da smentire non fosse così grande.
Viene spontaneo chiedersi come mai una tale lingua, come la veneta, possa essere improvvisamente declassata a dialetto per cedere il passo ad un altro dialetto, quello toscano. Nessuna giustificazione è valida, se non quella della costrizione o del gioco di potere. Ma, come si sa, il potere può anche disgregarsi col tempo.
L’attuale situazione e la mentalità che ne deriva riservano dunque al riconoscimento dello Stato l’ultima parola in fatto di classificazione di una parlata come lingua o come dialetto. Se ciò fosse logico, non è da escludere che il romagnolo parlato anche a San Marino possa diventare lingua ufficiale a tutti gli effetti, se il Governo di quella Repubblica lo deliberasse. Ciò è peraltro già avvenuto in Vaticano, dove l’italiano ha soppiantato il latino.
Ritorna spontaneo chiedersi se, con tali presupposti, la differenza tra lingua e dialetto esista davvero, oppure sia solo strumentale a questo o quel potere.
LA CONGIURA CONTRO IL VENETO
Per secoli la contrapposizione linguistica tra città e campagna in Veneto fu molto lieve: tutte le classi parlavano veneto. Più recentemente si manifestò il disegno di imporre il toscano, peraltro già superato dal linguaggio dei politici (l’italiese) e da quello televisivo anche nelle circostanze in cui tale veicolo è tutt’altro che indispensabile, come l’ambito familiare, le comunità agricole, l’artigianato…, settori da sempre ancorati ad una dimensione veneta che ha delineato l’inconfondibile identità di queste colonne della società veneta.
Forse il vero bersaglio non è il modo di parlare veneto (a chi gioverebbe ?), ma la società veneta colpevole di essere dinamica, disciplinata, non incline a subire ricatti ed ottica mafiosi. Si vuole eliminare in fin dei conti un modello di società diverso da quello che si desidera avere.
Le metodiche per realizzare la congiura contro il veneto sono le solite:
– derisione mediante stereotipi di involontaria subalternità (la classica serva!) appartenenti al passato prossimo;
– discriminazione nella scuola e nella pubblica amministrazione;
– svalutazione dei contenuti linguistici propri del popolo veneto.
E’qui il caso di ricordare per analogia il comportamento dei francesi in Algeria durante la colonizzazione. Per convincere gli algerini a rinnegare la propria lingua araba e adottare il francese dei colonizzatori, quest’ultimi ripetevano (a mò di lavaggio del cervello) che l’arabo non era adatto ai tempi moderni, in quanto lingua medioevale sorpassata e incapace di adeguarsi al mondo industrializzato. Ora, stranamente, Parigi è la città con il più alto numero di scuole di arabo in Europa. Come coerenza, non c’è male.
Si traggano le debite deduzioni anche per quanto riguarda l’attuale denigrazione del veneto, intesa a classificare come cittadini di categoria inferiore coloro che lo parlano.
LA PRETESA SUPERIORITA’ DELLE LINGUE MAGGIORITARIE
Si dimentica troppo spesso che l’italiano fu il dialetto di Firenze, come il francese fu il dialetto di Parigi.
Nessun termine di cultura appartiene originariamente a queste lingue, in quanto la quasi totalità dei termini della cultura moderna provengono dal greco, dal latino, dall’inglese o da altre lingue. Parole come “teologia”, “chimica”, “computer”, “scienza”, “nevralgia”…erano parole sconosciute a quanti parlavano toscano qualche secolo fa.
La Columbia University ha compiuto un’indagine sorprendente su un vocabolario etimologico francese contenete ben 4.635 vocaboli base. Eccone i risultati: 2’028 termini provengono dal latino, 925 termini derivano dal greco, 604 vocaboli sono di origine germanica, 154 parole derivano dall’inglese, 96 dal celtico, 285 dall’italiano, 119 dallo spagnolo, 146 dall’arabo, 10 dal portoghese,, 36 dall’ebraico, 4 dall’ungherese, 25 dallo slavo, 6 da lingue africane, 34 dal turco, 99 da differenti lingue asiatiche, 62 da lingue indigene americane, 2 dall’Australia e Polinesia. Parole francesi: zero.
Vocaboli derivati dal latino: il 43%. Poco per una lingua che si definisce neolatina.- E’stato intenzionalmente scelto un esperimento riguardante il francese per non urtare suscettibilità e per amore dell’imparzialità, ma chiunque può, per analogia, giungere a ben altre conclusioni anche rispetto all’italiano.
Dove risiedono, dunque,le motivazioni di una pretesa superiorità di altre lingue su quella veneta? Perché mai la lingua veneta dovrebbe avere un complesso di inferiorità?
RISULTATI DELLA CONGIURA CONTRO IL VENETO
Gli spropositi linguistici ottenuti con lo stemperamento del veneto ad opera dell’italiano sono innumerevoli.Parte di tali risultati è stato purtroppo raggiunta grazie alla passività, alla collaborazione o alla complicità di taluni veneti, il cui autolesionismo supera in ciò perfino la loro tradizionale laboriosità.
I seguenti tre casi possono dare un’idea dei risultati ottenuti:
a) Una mammina rimprovera bonariamente il proprio figlio per aver indossato il pullover in maniera sbagliata: “Ma, Pierino, non vedi che hai infilato su il davanti per il di dietro?”
b) Una zitella in partenza per fare la conoscenza con i futuri parenti, compari,ecc., chiede al ferroviere: “A che ora parte la stazione?”
c) Uno scolaro, con riferimento ai bachi da seta (i mitici “cavalièr”!), che quando diventano gialli non fanno bozzolo, vanno cioè “in vàca”: “Tutti i cavalieri della mia mamma sono andati a puttane”.
d) Un cittadino trevisano, richiesto se gli piacesse la domenica senza automobili, rispose: “piacissimo!” (TG1, 23.01.2005).
CONCLUSIONI
Esiste un interesse estraneo affinché i Veneti siano laboriosi (in modo da pagare tante tasse), stupidi (in modo che altri facciano ciò che vogliono), rinunciatari (in maniera che altri abbiano radio, televisione, giornali, scuole), rassegnati quando la fabbrica chiude (in modo da emigrare senza creare problemi alla gerarchia stabile importata).
Esiste un interesse dei Veneti affinché:
– la lingua materna dei veneti e di ogni altro popolo rimanga lo specchio dell’uomo e il veicolo verbale di ogni gente;
– non si verifichino l’alienazione di se stessi, il naufragio del singolare e il sacrificio dell’identità primigenia;
– i titolari della parlata veneta e di altri linguaggi non diventino tributari del neoimperialismo linguistico, cui corrisponde la crisi del rigetto psichico;
– venga rispettato da tutti il diritto alla parlata locale come momento espressivo prioritario;
– non intervenga la servitù culturale, che non sarà mai origine di miglioramento;
– il linguaggio pubblico non separi dal mondo dei sentimenti, dalla legge del cuore e dalla saggezza della coscienza;
– il monolinguismo alienante non turbi le leggi biologiche ed i limiti ecologici.
Abbandonare la propria lingua materna non significa sbagliare un calcolo, ma deviare la destinazione della vita.
OSSERVAZIONE FINALE
Gli avversari della lingua e dell’identità venete conoscono perfettamente la teoria della penetrazione indolore. Essi sanno anche che cosa significherebbe il risveglio di un popolo di oltre cinque milioni di individui e procedono, perciò, con estrema cautela, fermandosi in caso di resistenza.
La narcosi fa parte della tattica ed è condizione indispensabile durante questa operazione di amputazione, cui il popolo veneto è sottoposto. La narcosi è il nemico da battere, altrimenti si verificherà una perdita ancora maggiore di quella sofferta dal popolo veneto, quando la sua parte migliore fu mandata a morire sul fronte russo…
una finestra aperta sulla storia, la cultura, la tradizioni e la realtà veneta.
Una storia plurimillenaria che non si identifica solo ed esclusivamente nella pur straordinaria e bellissima parabola della Repubblica di Venezia ma che spazia dal Paleolitico ai giorni nostri, dalla Grotta di Fumane con le frequentazioni dell’uomo di Neandhertal sino alle imprese a tecnologia avanzata che caratterizzano il tessuto socio-economico contemporaneo: non è di certo una bizzarria se il racconto di questa epopea avvenga anche in Veneto, una lingua che mantiene una straordinaria vitalità e che è specchio e prodotto di un mondo aperto al mondo, una società capace di andare oltre le frontiere degli stati e le barriere, che non s’afferma o s’impone con le armi ma stabilisce legami culturali, economici , sociali in una sorta di simbiosi e di reciproco arricchimento e non è un caso se nella nostra lingua non esista la parola “straniero”, etimologicamente legata all’estraneo concetto che sottintende freddezza e sospetto, bensì il foresto, cioè colui che viene da fuori e che qui è pur sempre bene accolto se viene in pace e con fare onesto: milioni di persone giungono ogni anno nelle nostre città e contrade e vengono qui attratte dalla nostra arte, cultura, dall’enogastronomia, dalle città d’arte alle spiagge, dalle bellissime Dolomiti al Lago di Garda e dalle Terme, sino ai patrimoni ambientali intatti della montagna e del Delta del Po.
Benvenuti in questa pagine, con la speranza che per chi è già stato in Veneto di ritrovare lo spirito della nostra gente, per chi non c’è mai stato scoprire la voglia di venire a trovarci e per i Veneti tutti, a cui questo lavoro in continua evoluzione principalmente è dedicato, ritrovare l’orgoglio di una nazione antica protagonista della storia e della realtà contemporanea.
Servo vostro,
Roberto Ciambetti
Presidente del Consiglio Regionale del Veneto
Il veneto è una lingua, riconosciuta dalla Regione del Veneto nel 2007 con apposita Legge Regionale e, di recente, anche dall’intero Stato del Brasile (ove si parla il “Talian”, o veneto-brasiliano).
Manca ancora però il riconoscimento della lingua veneta da parte dello Stato italiano, che già tutela e riconosce 12 lingue “minoritarie” sul suo territorio: l’albanese, il catalano, il germanico, il greco, lo sloveno, il croato, il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.
Di seguito riproponiamo l’intervento di Davide Guiotto tenuto al Convegno internazionale promosso dalla Regione del Veneto e dalla Commissione Nazionale dell’UNESCO sul tema “Il veneto: tradizione, tutela, continuità”, che si è tenuto nel 2011.
Registriamo purtroppo che il riconoscimento ufficiale della lingua veneta da parte dello Stato italiano non è ancora arrivato.
Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo importante convegno dedicato alla lingua veneta, in particolare l’UNESCO e la Regione del Veneto.
Anche l’Europa si era espressa in passato in merito alla lingua veneta: il commissario europeo per il multilinguismo Leonard Orban aveva espresso infatti vivo apprezzamento per le numerose ed importanti attività che la Regione Veneto stava promuovendo a sostegno della lingua veneta, rassicurando del suo sostegno per il futuro in tutte le azioni riguardanti il multilinguismo. Il commissario Orban aveva dichiarato inoltre, in quell’occasione, che riteneva personalmente il veneto una lingua ma che, per godere di forme di sostegno da parte delle istituzioni europee, tale lingua doveva essere prima ufficializzata e riconosciuta dallo Stato italiano.
Se il parlamento italiano ancora, ahimè, non si è espresso favorevolmente in tal senso, il veneto può comunque già fregiarsi di importanti riconscimenti istituzionali: ricordo ad esempio la (già citata) legge 8/2007, legge regionale che ha di fatto riconosciuto il veneto come vera e propria lingua a livello istituzionale. Ma il veneto è lingua riconosciuta anche in Brasile: attraverso la LEGGE 13.178 il Talian, o veneto brasiliano, è diventato infatti “(Léngua Talian) Patrimònio Stòrico e Cultural del stato del Rio Grande do Sul”, e successivemente analogo riconoscimento è arrivato anche dallo Stato di “Santa Catarina”. Ora è al vaglio dell’intero Stato del Brasile la proposta di riconoscere “El Talian” come “Léngua de Riferensa Nassional e Património Cultural e Imaterial del Brasile”.
L’UNESCO stesso ha di fatto riconosciuto il veneto come lingua nel 1999, a seguito di uno studio dell’Università di Helsinky, inserendola nell’ormai famoso “Libro rosso sulle lingue in pericolo di estinzione”.
Secondo un linguista non esiste differenza fra dialetto e lingua; semmai, come recita il famoso aforisma, “una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina”. La differenza quindi si basa sul peso, sociale e politico, che le si vuole attribuire o al contrario negare.
Quanto si sta discutendo qui in questa prestigiosa sede dovrebbe dunque ruotare attorno il seguente interrogativo: “siamo pronti finalmente a dare valore – sul piano sociale, politico e culturale – anche alla lingua veneta, a fianco delle 12 lingue già riconosciute dallo Stato italiano”?
Siamo finalmente maturi per capire l’assurdità di continuare a trattare il veneto come “dialetto dell’italiano” e a riconoscerne invece, finalmente, l’importanza sociale che riveste nella nostra società?
Vogliamo dare il giusto valore ad una lingua dall’illustre tradizione storica, per secoli lingua franca, del commercio e della diplomazia in tutto il mondo di allora?
Siamo finalmente maturi ed obiettivi per capire, senza più tergiversare dietro magari a sterili polemiche, che quella differenza fra dialetto e lingua altro non è che una convenzione frutto di scelte precise di alcune persone?
Il veneto è una lingua, minoritaria in Italia ma maggioritaria nella nostra Regione. La nostra gente, per il 70% della popolazione, secondo dati Istat, pensa in veneto e parla in veneto, ma non ha il diritto di apprenderla e studiarla all’interno dei programmi scolastici, ne’ di vederla degnamente rappresentata nella societa e sui mass-media. E, si sa, trattare una lingua come un dialetto, quasi come fosse un italiano parlato male o una lingua di serie B, genera in chi la parla un senso di inferiorità se non addirittura di vero e proprio rifiuto. Pensiamo solamente a che effetti dannosi e incredibilmente deleteri ha portato un simile condizionamento psicologico fra i parlanti veneti dagli anni ’70 in avanti, con i genitori che addirittura sono arrivati a vergognarsi o a rifiutarsi di insegnare la loro lingua madre ai propri figli. Ebbene, se questo atteggiamento continuerà, se questo tipo di mentalità non cambierà, probabilmente questo potrebbe essere l’ultimo Convegno internazionale dedicato alla lingua veneta.
Una lingua destinata in pochi anni ad una inevitabile estinzione, anche grazie ad un’italianizzazione continua, se non verranno attuate le giuste forme di sostegno e di valorizzazione. Sostegno e valorizzazione che devono partire per prime dalle istituzioni e che vedano finalmente come prima, importante e fondamentale azione il riconoscimento pieno del veneto come vera e propria lingua.
L’invito e l’auspicio che oggi vorrei portare agli organizzatori e ai relatori di questo importante Convegno, è che al termine dei lavori si arrivi alla stesura di un documento unitario attraverso il quale invitare ufficialmente tutte le forze politiche in parlamento a farsi carico e a riconoscere quanto prima la lingua veneta. Un documento sottoscritto da persone di cultura, autorevoli esperti del settore, persone coscienti che esiste l’esigenza di una tutela linguistica anche per il veneto.
E’ un invito non solo mio, personale, ma di tutta la “Commissione Regionale per la lingua e la grafia veneta” di cui sono membro e del “Coordinamento associazioni venete” che rappresento.
Una volta riconosciuta la lingua veneta da parte dello stato italiano sarà possibile intervenire in maniera più continuativa e con un rinnovato slancio per tutte quelle attività finalizzate non solo a mantenere vivo il nostro patrimonio culturale e linguistico veneto – evitandone quindi l’estinzione – ma per dare linfa ed impulso a nuove iniziative fino ad ora insperabili.
Quella del riconoscimento presso il parlamento è un’esigenza e una richiesta forte che nasce dal territorio, trasversale alle ideologie o agli schieramenti.
Una richiesta attorno alla quale ci auguriamo di vedere, da qui in avanti, tutte le forze politiche che ci rappresentano, da destra a sinistra, unite e concordi.
In un’Europa sempre più attenta alle parlate locali e alle diversità culturali, il riconoscimento della lingua veneta sarà una vittoria di tutti.
Grazie.
Anche il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia interviene in merito al dibattito che in questo periodo è nato attorno alla Legge regionale – recentemente approvata – che riconosce i veneti come “minoranza nazionale”, garantendo così nuove forme di tutela anche in merito all’utilizzo e all’insegnamento della lingua veneta.
“Ci vuole rispetto per i veneti. Sette persone su dieci parlano e pensano in veneto, trasversalmente alle classi sociali”; “è ovvio che l’inglese bisogna saperlo, i nostri ragazzi già lo imparano”, nessun problema quindi se i veneti decidono de imparare anche la propria lingua madre all’interno dei programmi scolastici.
Per motivi ideologici, magari non evidenti neanche all’intellettuale che si pronuncia contro l’ipotesi dell’esistenza di una “lengua veneta” (che pur esiste e gode ottima salute dato che è usata da milioni di venetofoni)) si può dimenticare anche il fatto storico di cui ad esempio parla la studiosa Bruna Mozzi nel suo libro “Venezia e i Turchi”, riedito di recente dal Gazzettino.
L’Autrice ci descrive una situazione durata per secoli, che è continuata anche dopo il tramonto drammatico con l’arrivo della soldataglia napoleonica. L’uso della lingua veneta nell’area adriatica e mediterranea, anche tra etnie diverse, per cui essa divenne una specie di inglese usato per intendersi tra turchi, “greghi”, levantini in genere, oltre ai dalmatini della costa e ai veneti veri e propri. Si usava un veneziano, è vero, ma adattato poi alla località di provenienza di chi lo parlava, per cui era un veneziano spurio, una “lengua veneta” vera e propria.
“Se ti vedi el Gran Turco, parlighe in venezian”, era un motto comune nella Costantinopoli del 500, dove diplomatici ed interpreti potevano comunicare con il Sultano in veneziano, “l’inglese” del Mediterraneo.
Tra il Medio Evo e l’età moderna la progressiva affermazione della Serenissima nel Mediterraneo Orientale era responsabile di una diffusione senza precedenti del veneziano, che veniva capito e spesso parlato e scritto non solo nelle colonie direttamente amministrate da Venezia (come Zara, le Isole Ionie e Creta), ma anche nei territori limitrofi, quindi anche nei possedimenti degli Ottomani.
Complesse ed affascinati sono state le dinamiche delle irradiazioni nell’Adriatico orientale e nel Levante. Complessa è la storia del veneziano che fu una lingua internazionale fino al primo Ottocento, un po’ come l’inglese nell’Ottocento.
Era la lingua internazionale della navigazione, degli scambi internazionali e persino della diplomazia: lo testimoniano da un lato i numerosi documenti conservati all’archivio di Venezia e in molti altri archivi; dall’altro le numerose parole di origine veneziana passate al croato, all’albanese, al greco, all’arabo e al turco.
Ancora oggi, del resto, i turisti veneti in vacanza in Grecia, restano spesso sorpresi dall’aria familiare di molti vocaboli, da ‘karekla’ (sedia) , a ‘katsavidi’, cacciavite, fino a pirouni che nel dialetto greco di Cipro indica ‘forchetta’, cioè il veneziano ‘piron’.
Le recenti dichiarazioni rilasciate ai giornali dalla professoressa Gianna Marcato sulla la lingua veneta, mi danno lo spunto per approfondire l’argomento. Rispetto la sua opinione, ma vi spiego perché dissento.
Primo punto. Secondo la professoressa, «Il dialetto si impara vivendo in una comunità che lo parla». Io considero che oggi molti giovani non hanno l’opportunità di imparare il veneto in famiglia perché non hanno genitori venetofoni. Ci sono genitori veneti che non parlano veneto; ci sono genitori provenienti da diverse parti del mondo dove si parlano altre lingue. Imparare il veneto solo in famiglia/comunità significa «tajar fora» – escludere – chi proviene da ambienti dove non si parla veneto. Noto inoltre che la nostra epoca è l’epoca della parola scritta: email, sms, cartelli, documenti cartacei e digitali. Relegare il veneto al solo ambito orale significa azzopparlo: vuol dire negargli metà della realtà.
Secondo punto. La dialettologa pone la questione della varietà e della codifica di una lingua: «esiste un mosaico di dialetti veneti» dichiara. Ciò sembrerebbe essere un problema. Io noto che anche altre lingue hanno varietà interne. Qui l’argomento si fa necessariamente tecnico, ma cercherò di spiegarmi con tre esempi. 1) In vèneto è un problema l’esistenza della doppia forma «fornaro/fornèr» o della coppia «parlemo/parlòn»? Bene, la lingua spagnola ha doppie forme per il congiuntivo di tutti i verbi: «durmiera/durmiese» (dormissi io), «durmieran/durmiesen» (dormissero) e cosi via per tutte le persone. La lingua ufficiale le accetta: ci sono varianti che possono convivere. 2) In veneto c’è chi dice «tuto» e c’è chi dice «tut». Anche nel piccolo Portogallo esistono variazioni simili: “tudu/tud”. I Portoghesi hanno brillantemente risolto il problema: scrivono «tudo», poi la o finale puoi pronunicarla [tudu] oppure non pronunciarla [tud]. 3) In veneto il numero 100 ha tre pronuncie: «sento», «thento», «tsento». Bene, in spagnolo il 100 suona “sjen” e anche “thjen”. Gli Spagnoli hanno conciliato le due pronunce in un solo segno: scrivono «cien», poi la c puoi pronunciarla [th] oppure [s].
In conclusione, la situazione del veneto è analoga a quella di altre lingue ufficiali. Ci sono variazioni che possono coesistere e variazioni che possono essere conciliate nella grafia senza che una forma “schiacci” le altre. La presenza di varietà non è di per sé un ostacolo alla scrittura, né all’insegnamento. Colgo piuttosto l’occasione per evidenziare una cosa: la ricchezza linguistica del veneto non si esprime solo nella varietà del suo lessico. Il veneto ha anche una sorprendente ricchezza grammaticale: ci sono molte curiosità nascoste nel modo con cui combiniamo queste parole. Regole che noi utilizziamo spontaneamente, ma che costituiscono un’opportunità di riflessione per gli studenti una volta che esse vengono rese “visibili” presentandole e discutendole in classe.
Dott. Michele Brunelli
membro Commissione regionale per la grafia – le opinioni da me presentate in questo articolo sono espresse a titolo personale
link consigliato: il libro di Brunelli sulla grammatica veneta
[replica ad un intervento Gianna Marcato; replica inviata a La Nuova in data 3 dicembre 2016] La prof.ssa Gianna Marcato, per declassare la lingua veneta a «mosaico di dialetti», ha recentemente affermato che «L’italiano è diventato tale nel Cinquecento perché alcuni grammatici, supportati da chi gestiva la cultura, hanno decretato che alcuni usi andavano bene e altri no». In effetti, continua la docente patavina di Dialettologia, «Codificare una lingua, significa fissare con una norma esterna chi parla bene e chi parla male».
Ebbene, la prof.ssa Marcato parla male. E’ sufficiente ascoltare un qualunque suo intervento pubblico per accorgersi che non sa parlare italiano corretto: non usa regolarmente il passato remoto, non usa il raddoppiamento fonosintattico, scempia le consonanti, non utilizza le vocali toniche secondo la dizione standard della lingua italiana: in due parole, la prof.ssa Gianna Marcato parla quello che scientificamente è definibile “il dialetto veneto”. Una vera e propria corruzione dell’Italiano standard, un non-italiano e non-veneto contemporaneamente.
A cosa serve definire uno standard imperativo, come pretende la Marcato, se poi nessuno lo usa? Crede forse che Benigni parli lo standard italiano, visto che usa continuamente le aspirate toscane, l’interdentale toscana, e la “g toscana”, che è quella del francese, non dell’italiano? Poi prosegue la prof.ssa Marcato: «una lingua è qualcosa che ha una propria unitarietà codificabile, i dialetti invece sono mille». Mi risulta francamente misterioso comprendere come mai allora il ladino, il friulano ed il sardo, notoriamente ricchissimi di varietà interne, siano stati riconosciuti come lingue dalla legge 482/1999: o la prof.ssa Marcato ha da ridire anche su questo?
Si faccia avanti. La illustre docente vorrà oltretutto spiegarci come mai il veneto è codificato come lingua dall’UNESCO ed è dotato di codice linguistico internazionale: VEC. In realtà, la professoressa Marcato è molto chiara ad esprimere le sue personali motivazioni di contrarietà: «Se voglio codificare un dialetto, devo per forza imporre una varietà sacrificando le altre», e poi aggiunge, «perché è impossibile insegnare un dialetto». In sostanza, la sua è più che altro un’ammissione di incapacità a risolvere la questione dal punto di vista scientifico e glottodidattico, scaricando la responsabilità alla politica.
Spero sinceramente che ella sappia che in area scandinava, per esempio in Norvegia, si è proceduto ad una codifica multistandard della lingua e a scuola la si insegna, cioè si insegna la variante locale e si spiegano gli elementi di diversità delle altre varietà. E’ così difficile da capire? La professoressa Marcato ovviamente non sa, perché probabilmente non le interessa, che quest’anno l’Università di Francoforte ha patrocinato lo studio e la pubblicazione scientifica del primo manuale universitario interamente scritto in lingua veneta, quella “lengua veneta” che la prof. Marcato definisce addirittura «orribile» mostrando la psicologia di un inquietante “odio di sé”, così grave e penetrante da inficiare l’imparzialità del suo giudizio scientifico.
Non saprà nemmeno, che ormai già 500 veneti (e anche stranieri) hanno frequentato il Primo Corso di Veneto, tenutosi in 26 edizioni in 6 province diverse. Sappia che gli allievi hanno utilizzato tutti la stessa dispensa del Corso, hanno studiato il veneto in prospettiva comparatistica, hanno tutti fatto lo stesso test finale e hanno tutti tradotto in veneto, nella propria variante, brani dal De Brevitate Vitae di Seneca. Infine, la invitiamo al Primo Convegno Internazionale sulla Lingua Veneta, che si terrà a Camposampiero in febbraio, patrocinato dal Rotary Triveneto, e con l’intervento di molti suoi colleghi, quali il prof. Moseley (primo linguista dell’Unesco), il prof. Balboni, il prof. Serragiotto, il prof. Ferguson, il prof. Stegmann, il prof. Bertolissi, ed altri docenti da 12 diverse università d’Europa.
Perché se i linguisti veneti vogliono rinunciare al proprio ruolo scientifico e preferiscono fare politica locale, la società veneta prende da sé l’iniziativa e fa cultura vera, fa scienza linguistica, e lo fa in prospettiva internazionale. La aspettiamo al convegno.
dott. Alessandro Mocellin
autore veneto del Primo Manuale Universitario Veneto, pubblicazione scientifica dell’Università di Francoforte
docente dei Corsi di Veneto
Vicepresidente dell’Academia de ła Bona Creansa – Direttore dell’Academia de ła Łengua Veneta
Ho letto con ritardo l’intervento del 6 maggio di Ugo Suman, il quale sostiene che la lingua veneta non esiste perché vi sono delle differenze fra una città e l’altra, e alla fine sembra pensare che non possiamo parlare neppure di una cultura e di un’identità del popolo veneto. È come affermare che non esisteva un’identità greca perché i dialetti della Grecia antica erano simili ma non identici. Per fortuna quella che viene ricordata come la coinè, cioè l’unificazione dei vari dialetti, ha dato vita al greco antico e a una civiltà millenaria.
I vocabolari di greco antico che si usano a scuola sono la fotografia di questa convergenza di più dialetti in una lingua unitaria, e confesso che questa situazione era la mia disperazione quando studiavo e traducevo dal greco, perché molto spesso le parole avevano due o tre significati (e viceversa), diversi appunto perché provenienti, all’origine, da dialetti differenti. Per questa ragione uno stesso testo finiva per essere tradotto in maniera completamente diversa da studenti differenti.
Con il dominio romano l’identità culturale e linguistica si trasformò in un’unificazione politica che permise ad uno stato greco unitario di essere capace di durare altri mille anni, cioè fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi.
Ma per sostenere la tesi che non esiste un popolo veneto, Suman porta degli argomenti che se fossero validi condurrebbero alla conclusione che non esistono popoli con una loro identità. Ma per fortuna lui stesso osserva che “la storia può essere raccontata in tante maniere, ognuno ne coglie la parte che ritiene più adeguata alla sua verità o alla sua ‘supposta’ verità”. Ho sempre apprezzato e spesso ammirato la difesa di Suman del dialetto padovano, ma anche per questo non capisco il suo desiderio di rifiutare al popolo del Triveneto un’identità culturale, una parziale identità linguistica, una forte presenza nella società europea e mediterranea.
Non so se i veneti si sono mai sentiti un popolo, ma credo che comunque lo fossero. Mi ricordano un po’ la vicenda dei rumeni che, quando nacque la Romania, dovettero scoprire la propria identità latina dopo aver trascorso secoli interi senza rendersi conto della propria origine e del significato dei secoli più lontani della loro storia. Inoltre, non so se gli abitanti delle campagne del Veneto erano più in miseria, come sembra ritenere Suman, di quelli della Catalogna, della Provenza, della Baviera, ecc., non so se avevano più o meno coscienza di essere un popolo, ma penso che oggi questa coscienza si faccia strada da molti punti dei vista. La costruzione dell’Europa unita, come tutti sanno, passa attraverso la riscoperta dell’identità delle culture regionali preesistenti all’emergere devastante dei nazionalismi dell’800 e del ‘900. In quei due secoli le culture di singole regioni divennero culture nazionali, e quindi andarono parzialmente distrutte o soffocate molte culture e lingue regionali come quelle basca, catalana, provenzale, veneta e via dicendo.
Ha ragione Suman, il popolo spesso viveva nella miseria, molte volte sfruttato, dimenticato, ma mi auguro che parli del popolo europeo, anzi dei popoli d’Europa, non soltanto di quello veneto. Oggi il popolo veneto, che prende coscienza della sua identità, come altri popoli europei lavora per costruire al proprio interno una coinè linguistica, e così partecipare alla costruzione dell’Europa dei popoli contro ogni nazionalismo, e ha diritto anche ad una sua lingua unitaria. Ricordo quel che mi diceva mio padre a proposito dei soldati italiani che occuparono la Dalmazia nel 1941: un suo amico veneto andò al ristorante chiedendo una forchetta, nessuno capiva l’italiano, nè sapeva cosa portare, ma quando chiese un piron il cameriere, che era un veneto-dalmata, comprese immediatamente. Tutti i presenti percepirono l’esistenza dell’unità linguistica dei veneti con i dalmati di allora. Certamente, il vicentino è diverso dal triestino, il veronese dallo zaratino che (con la guerra ridotto a poca cosa) ancora sopravvive, ma nell’essenziale sono eguali e sono espressione di una cultura e di un’identità che li unisce, e per questa ragione torno a chiedere che la lingua veneta venga insegnata a scuola. Non so se i vocabolari potranno tener conto delle differenze locali, se una coinè potrà riferirsi soprattutto al veneziano, sono però certo che anche questo lavoro di unificazione linguistica servirà a rafforzare l’identità di un popolo, di chi fece parte di una repubblica che è stata per secoli una grande potenza, di una letteratura che ha avuto in Ruzante e Goldoni due figure particolarmente significative, di una società che possiede caratteri che sono espressione della sua capacità industriale e commerciale, di un livello tecnologico ed economico che ha antiche radici nella storia ed è, anch’esso, parte dell’identità di quel popolo. Adoperiamoci per la nascita degli Stati Uniti d’Europa, ma ricordando che l’unificazione dei popoli del continente richiede anche l’indebolirsi delle identità nazionali e dei nazionalismi, che tanto sangue ci hanno obbligato a versare, e sono ancora un pesante ostacolo alla realizzazione del sogno di un’Europa unita nel nome dei popoli che la compongono.
«A meza strada dela vita umana/ Me son trovà drento una selva scura,/ Chè persa mi g’avea la tramontana»: ecco il testo originale della Divina Commedia tradotta per intero in dialetto veneziano, cioè in lingua veneta. E’ un vero e proprio tesoro: non solo perchè si tratta di un volume edito nel 1875, ma soprattutto perché, da una prima verifica alla Società Dantesca, è l’unico esempio al mondo di traduzione in “lingua minoritaria” dell’intero capolavoro di Dante.
Eccolo lì il gioiello: 481 pagine a doppia colonna con la «Comedia» a sinistra e la traduzione in veneziano a destra. Sotto, una miriade di note che fanno capire come Cappelli avesse dedicato alla traduzione la sua vita. Lo scrive, del resto, lui stesso dando anche conto delle ragioni di questa impresa: «La versione della Divina Commedia da me fatta in dialetto veneziano, non già per i dotti, ma per coloro che a tale ordine non appartengono, non esclusi quelli che quantunque di coltura forniti, non vogliono affaticare la mente applicandosi ad uno studio più serio, ha per iscopo di rendere, per quant’è possibile, popolare un’opera astrusa alle volte persino nell’esteriore sua forma, e dai pochi studiosi soltanto compresa, nonché ad agevolarne la intrinseca intelligenza: al quale fine ho corredata la versione stessa di note storiche, sacre, profane e mitologiche e della spiegazione ben anco delle più interessanti allegorie, ed a comodo dei lettori non veneziani, vi agiunsi la dichiarazione nella lingua italiana delle frasi veneziane e dei termini meno comuni». Risultato: qualcosa di straordinario.
E’ possibile consultare integralmente il volume in formato PDF dal sito della Lingua Veneta, alla pagina:
Il famoso poema eroico di Torquato Tasso tradotto in lingua veneta (var. veneziano) da Tomaso Mondini – 1693 – disponibile per la consultazione nella sezione dedicata alla Letteratura.
Nella sezione dedicata alla Storia pubblicato in PDF il testo “Storia Veneta” – 33 pagine a cura di “Raixe Venete”, autore Gabriele Riondato.
I Veneti sono uno dei popoli più antichi del Continente europeo, come è dimostrato dai ritrovamenti e da documenti di autori greci e latini.
Omero li definiva “Evetoy”, e già con Tito Livio (Gens universa Veneti appellati = genti universalmente chiamate Venete), Tacito, Polibio, Virgilio e altri, essi venivano chiamati Veneti.
Questo glossario è dato dalle voci veneziane parte ancora in uso e parte no.
Molte parole non hanno una traduzione in Italiano: nemmeno nel significato […]
Alla pagina di Storia pubblicato in PDF un interessante intervento di Aldo Rozzi Marin – Presidente dell’Associazione Veneti nel Mondo – sull’epopea dell’emigrazione veneta.
Le parole chiave di quelle storie sono identità, tradizione e fierezza, che prendono forma in una cultura vissuta in famiglia, nella scuola, nelle feste, nel lavoro e in Chiesa. Tante storie di oriundi, rappresentanti di tutte le province del Veneto. Sono nonni, padri e madri, figli, nipoti che hanno un pezzo di Veneto nel cuore; famiglie, oggi perfettamente integrate, che hanno contribuito negli anni a fare la storia di ogni paese in cui si trovano, ma con uno sguardo rivolto sempre alle proprie radici. […]
Alla pagina di Storia pubblicata in PDF una interessante Tesi di laurea dal titolo “LA REPUBBLICA DI VENEZIA – tra politica, religione e battaglie (XV-XVI secolo)”, di Stefano Danieli.
Introduzione
Nel XIV secolo la Repubblica di Venezia si afferma nello scenario italiano e mondiale,
consolidando il suo dominio in numerosi porti ed isole del Mediterraneo orientale,
creandosi così una forte economia. Allo stesso tempo allargò i suoi confini anche verso
l’entroterra veneto, grazie a patti di dedizione e vittorie militari. Venezia a fine 1400 è
al massimo della sua espansione territoriale.
La ricchezza della Serenissima era incalcolabile, tanto da far invidia alle maggiori
potenze europee.
Venezia poteva inoltre vantare di essere la capitale europea dell’arte, dove trovarono
luce artisti del calibro del Giorgione, del Tiziano e del Bellini. L’arte prometteva essere
uno dei maggiori articoli di esportazione per il commercio veneziano. Principalmente
era il vetro di Murano, il quale aveva raggiunto la massima espressione, ad essere
sinonimo dell’arte veneziana.
È quindi capibile la meraviglia che ci mostra il diarista Marin Sanudo, quando nella sua
cronaca del 1490 ci parla della ricchezza e della bellezza della sua patria,
dell’abbondanza degli alimenti, del buon mercato e del gran consumo che si faceva di
ogni bene. Per quanto da mangiare ci fosse a Venezia “com’è sera non ve n’è”, e questo
perché “tutti compera e vive da signori”.
Ed è proprio per tal magnificenza che il Veneto inizia a far paura ai potentati d’Europa,
i quali volevano far pagare le spese dell’ingrandimento territoriale della Serenissima in
Italia. Riemersero così le vecchie accuse: Venezia mirava a una monarchia italiana e
universale, volendo così far rivivere l’impero romano e impossessandosi della sua
gloria.
Quello stato così ricco e disposto a tutto per difendere la propria indipendenza, non era
ben accetto nel nuovo ordine europeo, era un elemento di disturbo che bisognava
eliminare, ma Venezia si dimostrò un osso troppo duro da rodere.
In questo intervento il dr. Michele Brunelli analizza e risponde a comuni osservazioni erronee che si sentono spesso pronunciare per delegittimare il veneto come lingua e per minimizzarne l’importanza.
Capire l’infondatezza di certi luoghi comuni, frutto spesso di una scarsa conoscenza dell’argomento e a volte di malafede, aiuta non soltanto ad avere una visione più obbiettiva del tema trattato, ma a rapportarci con esso in maniera più positiva e costruttiva.
1) Ci sono tanti veneti diversi, non c’è il veneto. Per esempio i vicentini dicono te magni, i trevigiani te magna ; a Venezia e nelle città padovane e vicentine dicono ‘a scóea mentre a Verona, Belluno e nei piccoli paesi dicono la scóla…
Sbagliato: ci sono tante varianti venete che in realtà hanno in comune la gran parte delle caratteristiche. Queste caratteristiche comuni a tutte le varianti venete sono, invece, ben diverse da quelle dell’italiano. Per esempio si può dire te magni, te magna, ti magna… ma comunque resta il fatto che tutte le varianti venete hanno il soggetto obbligatorio alla 2nda persona singolare e alla 3rza sing/plur. : cosa che in italiano non succede.
Inoltre, molte differenze tra varianti sono solo apparenti. Spesso sono solo delle pronuncie diverse che si possono rappresentare con una grafia unica. Per esempio la scóla e ‘a scóea si possono scrivere nello stesso modo: la scóla con la L-tajà che si pronuncia in due modi diversi.
2) Però è anche vero che in vicentino-padovano-rovigotto e veneziano preferiscono dire el ga parlà, la ga parlà mentre a Verona, Belluno e in altri posti usano una forma unica l’à parlà ; i primi dicono el xe, la xe mentre i secondi dicono l’è…: visto che ci sono tanti veneti, e non uno solo?
Sbagliato: anche in inglese ci sono dei verbi con forme doppie: si può dire you have oppure you’ve ; he is/he has oppure he’s ecc… e nessuno si è mai sognato di dire che l’inglese non è una lingua unica… Ma lo spagnolo fa anche peggio: si può dire hablase, hablases, hablásemos… o anche hablara, hablaras, habláramos (=parlassi, [tu] parlassi, parlassimo…) cioè ha doppie forme per tutte le persone del condizionale di tutti i verbi regolari: ma nessuno ha mai detto che ci sono due lingue spagnole.
3) Ma, certe volte, le varie parlate venete hanno parole completamente diverse per indicare una stessa cosa. Per esempio alcuni dicono sórzxe mentre altri preferiscono rato e altri ancora morécia (o moréja) : queste non sono semplici differenze di pronuncia.
Vero: ma questo è un fenomeno che si può trovare anche in altre lingue: i famosi sinonimi. Col tempo, poi, alcuni diventeranno più frequenti di altri, o acquisteranno un significato più “elegante” come è capitato tempo fa in italiano. Ma spesso gli scrittori litigano per poche differenze mandando in estinzione tantissime caratteristiche linguìstiche comuni a tutto il veneto.
4) Anche se ci sono differenze, è facile unificare il veneto perché esiste già una “koinè”: quella che si parla nelle città.
Attenzione: il veneto parlato nelle città è abbastanza unificato…ma è poco veneto e tanto italianizzato. In città tendono a dire chiùdeme la porta invece della forma corretta sàrame la porta. I giovani dicono i sta rivando invece della forma giusta i xe drio rivar ; si sente dire i ce dixe / ce vedémo invece che le forme giuste i ne dixe / se vedémo; e ancora el se xe conprà na màchina invece della forma corretta el se ga conprà na màchina… Se fate caso, invece, tra gli anziani (che conoscono meno l’italiano) e nei paesetti (dove l’italiano è meno parlato), si usa un veneto più genuino e meno corrotto.
Quindi spesso la koinè veneta delle città è un italiano “travestito” da veneto.
5) Ma è inevitabile che il veneto venga sempre più influenzato dall’italiano; che le forme italiane prendano il posto di quelle venete. E` un fenomeno che avviene anche con altre lingue, come per esempio tra italiano e inglese: in italiano si trovano sempre più parole inglesi (e francesi). Non si può pretendere di tornare indietro.
Sbagliato: pensateci. Lo scambio linguistico tra italiano e inglese è uno scambio naturale tra due lingue riconosciute ufficialmente, utilizzate in televisione per film e conferenze, insegnate obbligatoriamente nelle scuole (una in Italia, l’altra in G.Bretagna). Il veneto, invece, non ha questo supporto. Non ha una forma ufficiale, non viene utilizzato nei giornali, non viene insegnato obbligatoriamente a scuola, non ha neanche un canale televisivo ufficiale. Quindi lo scambio tra italiano e veneto non è uno scambio naturale tra due lingue paritarie, ma uno scambio sbilanciato a favore dell’italiano che gode di facilitazioni e del supporto ufficiale dello Stato, della televisione, della scuola. Ma tanti, pensando che questo fenomeno di decadenza sia inevitabile, rinunciano a diffondere il veneto e così contribuiscono ancora di più alla sua estinzione: trasformano una conseguenza in causa. Il famoso “gatto che si mangia la coda”.
6) In ogni caso, che importanza ha la diffusione del veneto? In fin dei conti l’italiano è una lingua più raffinata, più nobile mentre parlare veneto è meno prestigioso.
Sbagliato: la diversità linguistica, in teoria, potrebbe derivare da due cause. 1) da diversità di tipo “grammaticale”, ossìa il fatto di avere regole grammaticali diverse. 2) di tipo “lessicale”, ossìa il fatto di avere magari regole uguali, ma diverse parole per indicare una stessa cosa.
Bene, guardiamo: le differenze grammaticali non rendono una lingua più o meno nobile. Per esempio, l’ italiano non ha il soggetto obbligatorio (si dice canta) ma è lo stesso una lingua di un certo prestigio; l’ inglese e il francese, invece, hanno il soggetto obbligatorio (si deve dire he sings, il chante) proprio come il veneto (si dice el canta) ma nonostante questo non sono meno prestigiose delll’italiano.
Per quanto riguarda le differenze lessicali si può dire la stessa cosa: non producono differenze di prestigio. Per esempio tanti veneti dicono bicier perché credono che goto sia un termine troppo volgare: invece, una lingua europea ufficialmente riconosciuta (il catalano) usa proprio il vocabolo got per tradurre l’italiano “bicchiere”. Anche l’aggetivo inbriaga (inbriago), in veneto è una parola di uso normale mentre il corrispondente catalano embriaga (embriac) appartiene allo stile alto, fa parte di un modo di parlare molto ricercato. Quindi se parole praticamente identiche possono avere “eleganze” diverse in lingue diverse vuol dire che il lessico non è per forza collegato al prestigio. Ancora: tanti ragazzi si vergognano di dire verto, ma in francese si dice tranquillamente ouvert. Il verbo tastar (con il senso di”assaggiare”) ha un corrispondente inglese to taste… Un altro esempio è la parola culo che è apparentemente volgare. Ma in veneto si può anche dire el culo de la màchina, el culo de la botilia dove questo termine ha semplicemente il significato di parte posteriore. (non succede solo in veneto: in fin dei conti di dietro in italiano può aver due signifcati: uno normale ma anche uno più volgare: “dare un calcio nel di dietro” dove di dietro=culo…). E` l’italiano che spesso dà una sola traduzione volgare alle parole venete, mentre in veneto possono esserci due significati, uno volgare e l’altro no.
7) Però l’italiano ha molti termini per indicare oggetti e stili di vita moderni; al veneto mancano. E in generale l’italiano è ricco di parole, il veneto no.
Solo questione di tempo, voglia e onestà: pensate davvero che al tempo dei Romani o di Dante i dizionari contenessero la parola automobile ? E` stata creata quando ce n’è stato bisogno. In vèneto si può fare lo stesso ma spesso, invece, la gente preferisce utilizzare vocaboli italiani perché pensa che siano più eleganti e dopo si lamenta che il veneto non ha parole e che deve prenderle in prestito dall’italiano: gatto che si mangia la coda! Anche perché come si vede al punto (5), molte volte, le varianti venete danno la possibilità di scegliere tra diversi sinonimi per lo stesso oggetto: altro che vocabolario povero! Solo che le differenze dell’italiano vengono considerate ricchezze, quelle del veneto vengono considerate un segno di poca unità: due pesi due misure!
8) Parlare veneto è segno di campanilismo e di chiusura: bisogna aprirsi al mondo.
Proprio per questo: i nostri bisnonni dicevano in veneto butiro / butiéro (=burro). Questo termine è collegato al greco boutyros e che si ritrova in termini moderni come acido butirrico / butyric acid. Addirittura una lingua globale come l’inglese moderno dice tutt’ora butter. I nostri genitori invece ci hanno insegnato che è meglio burro (più simile all’italiano). Avevamo un termine moderno e internazionale e ci hanno insegnato a preferire l’italiano. Cos’è più aperto e internazionale? Il termine veneto (collegato al greco antico, ai moderni neologismi e all’inglese globale) o l’italiano ?
Una lingua è la sua oralità, in quanto nasce orale, si trasforma per via orale ed è dichiarata morta quando non ci sono più parlanti (madrelingua). I documenti che essa ha lasciato scritti o registrati nel tempo sono solamente le sue vestigia: ogni registrazione scritta è un’orma, una traccia del passaggio di quella lingua in quel territorio ed in quel tempo. Le difficoltà della paleolinguistica, infatti, sono paragonabili –mutatis mutandis– a quelle della paleontologia: da orme coerenti di un dinosauro possiamo ricavare alcune preziose informazioni, quali la sua struttura (bipede o quadrupede) e la sua stazza, tramite un calcolo dello sprofondamento nel terreno; così un documento può lasciarci testimonianza di un registro linguistico, o comunque notizie lessicali etc…. Trovare invece un fossile intero è paragonabile al rinvenimento di un testo metalinguistico, cioè un testo che va oltre la lingua, generalmente che “spiega” la lingua: si potrà rinvenire magari un trattato di fonetica, un dizionario di lessico e pronuncia, un manuale di grammatica, etc… Insomma, si tratta di inferire da dati non sistematici (linguistici o biologici) le caratteristiche di un sistema che non si conosce, anche con la comparazione con altri sistemi già noti (per esempio verificando la compatibilità di alcune caratteristiche del sistema incognito con le evoluzioni di esso che si trovano nei sistemi presenti, biologici o linguistici, da esso derivanti).
Ecco, dunque, l’importanza scientifica di una strumentazione grafica che sappia produrre impronte fedeli ed univoche del sistema linguistico, altrimenti una lucertola può venir scambiata per un dinosauro e viceversa (cioè si possono ingigantire o sminuire alcuni nodi problematici, della fonetica specialmente).
Venendo invece a trattare di quale sia il ruolo di una lingua “nel presente”, è appena il caso di far notare come una lingua sia in realtà il primo sistema espressivo complesso con il quale l’essere umano neonato si scontra, appena dopo le forme di gestualità e di espressione non articolata (es. pianto, singhiozzo, suzione digitale, etc…). Le capacità e le modalità espressive di ciascuno, insomma, si plasmano tramite la sua lingua madre, e con esse anche lo sviluppo di determinate abilità intellettuali e comportamentali: in parole più semplici, una lingua è di per sé una mentalità. Ciò non comporta che alcune abilità non si sviluppino o si ultrasvilppino, ma che vi sia meno o più terreno fertile in una lingua per tale abilità o mentalità. Si tratta insomma, non di implicazioni logiche o di altre leggi scientifiche esatte, bensì di fattori tendenziali, verificabili e sindacabili unicamente (ove possibile) sul dato aggregato dei parlanti.
Ma veniamo alla domanda di questo capitolo: “lingua o dialetto?”. Beh, in vero, dal punto di vista scientifico, non v’è alcuna differenza. Ogni “sistema concluso di regole grammaticali, sintattiche e morfologiche che si serve di un set lessicale e di un set fonetico” è una lingua. Semmai, sono fattori comparatistici che ci possono far parlare di “dialetto”. Un dialetto, però, non è una “lingua minore/minoritaria”. Un dialetto è, per dirlo con un termine meno esecrato e stereotipato negativamente, una variante di una lingua. Preso, dunque, un fascio (cioè un insieme) di tali suddetti “sistemi linguistici conclusi”, li si può raggruppare secondo canoni di “minor varianza”: minore sarà la varianza, maggiore sarà la vicinanza tra “sistemi linguistici”, fino alla comunione di uno zoccolo così consistente da far tranquillamente parlare di “varianti della stessa lingua”. Ovviamente, tale valutazione deve essere un “tutto sommato”, e ponderata a seconda della rilevanza dei vari fattori, che possono essere non solo grammaticali, morfologici, sintattici, lessicali e fonetici, ma anche geografici e storici: per esempio una forte immigrazione (vedi la lingua veneta negli Stati del Sud del Brasile); la soggezione alla stessa entità politica per un certo periodo (es. bresciano e bergamasco nella Serenissima); il monopolio linguistico di una lingua in un certo settore della conoscenza (es. l’inglese per l’informatica); ed altri simili fattori, raccolti e valutati con una dose di realismo e di buon senso.
Perché, qualcuno si sarà chiesto, specificare queste “quasi-ovvietà”? L’Autore ritiene che si debba mettere un po’ di ordine, non tanto ai concetti accademici, quanto alle conoscenze del cittadino medio, abbandonate a stereotipi che dire ottocenteschi è ancora poco. Vi è però un ostacolo enorme per raggiungere un generale riconoscimento del valore delle lingue locali, ancora scelleratamente definite “dialetti” in senso spregiativo, forse solo in Italia. I Veneti, così come gli altri italofoni, si sono abituati ad un errato esempio di lingua: l’italiano non solo ha una grafia ed una dizione standard, ma anche è una lingua canonizzata e smussata fin dalla creazione, in quanto è una lingua di creazione intellettuale, cioè una lingua nata scritta prima che parlata: artificiale, in una parola. […]
Insomma, il canone ideale di “lingua” non può essere l’italiano, in quanto esso è stato creato, è frutto di un atto volontaristico di pochi, ed è sincretismo intellettuale di altre lingue (principalmente toscano-fiorentino, veneto-veneziano e siciliano, anche se è tutto da vedere, ed uno studio di tenore scientifico non sembra essere mai stato approntato). In poche parole, l’italiano può essere definito, con idea moderna, un “esperanto italico”. Purtroppo, questa mentalità non viene smentita con lo studio scolastico di lingue straniere, in quanto non si dà mai notizia delle variabilità, soprattutto fonetiche e lessicali, che vivono in ogni lingua: studiando l’inglese, giusto per parlare di una lingua straniera “obbligatoria” nelle scuole italiane, allo studente viene insegnato solo l’assetto standard della lingua (nel caso dell’inglese, si insegna la parlata Londinese, cioè della capitale), senza mai nemmeno accennare discorsivamente all’esistenza profusa di varianti. Questo spesso avviene a causa dell’ignoranza del fenomeno da parte dell’insegnante stesso, ma in altri casi viene taciuto (in buona o mala fede): purtroppo, la mentalità linguistica dominante in Italia è che la varietà e la variabilità siano dei difetti, delle degenerazioni, che portino una lingua a “sporcarsi”, ad imbastardirsi. Ecco, nulla di più deviato ed irreale può dirsi di una lingua. Tale mentalità è la più distruttiva in assoluto per la scienza linguistica e per la didattica e l’assimilazione consapevole delle lingue. Questa croce è anche la causa (e l’effetto, in un circolo vizioso) di un insegnamento linguistico troppo incentrato sulla nozionistica lessicale e grammaticale (in senso lato), invece che sulla conversazione in lingua.
Che dire, insomma, del veneto? Dialetto o Lingua? Beh, evidentemente si deve parlare di Lingua Veneta, per ragioni scientifiche, per ragioni storiche, per ragioni sociali. Diamo ora le notizie fondamentali che sostengono la consistenza di tale asserzione (vd. Parte 2).
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Il presente brano è tratto, su autorizzazione dell’Autore, da “Libera Grafia Universale & Dossier sulla Lingua Veneta” (2010), di Alessandro Mocellin, Ed. Scantabauchi. Tutti i diritti restano riservati all’Autore. Qualora si intenda riprodurre altrove brani del testo qui riprodotto, contattare l’Autore scrivendo una mail a liberagrafiauniversale@gmail.com.
Non ci sono solo le guerre in quanto tali, le guerre di religione o quelle economiche ma, anche, QUELLE LINGUISTICHE, messe in atto da alcuni popoli o da alcuni gruppi di potere che, DALL’AFFERMAZIONE DELLA PROPRIA LINGUA, traggono energie e potere per dominare sugli altri.
Il New York Times ha pubblicato un lungo articolo sulla drammatica situazione della lingua indonesiana a causa della scelta della classe dirigente indonesiana di usare l’inglese a livello d’una seconda lingua madre. La “question” è come si faccia ad avere due madri, infatti la prima, l’indonesiano, “As English Spreads, Indonesians Fear for Their Language”, sta morendo. In Italia c’è chi si preoccupa della politica d’insegnamento dell’inglese come prima ed unica lingua straniera, in competizione diretta con l’italiano, al punto da insegnare materie curricolari e attivare interi corsi di laurea in lingua inglese. Questa politica è considerata demenziale e autolesionista per l’Italia e la sua identità perché, come si evince dall’articolo, l’italiano non è meno a rischio dell’indonesiano. Di fronte a questi effetti dirompenti e distruttivi si grida contro queste leggi RITENUTE DI TIPO QUASI RAZZIALE PERCHÉ ISPIRATE AD UNA SORTA DI “MANIFESTO SULLA SUPERIORITÀ DELLA RAZZA ANGLOFONA”.
Secondo me anche questo allarme per la possibile scomparsa dell’italiano è di tipo quasi razziale nonché monco: parla solo dell’Italiano come se esistesse solo l’Italiano e non le varie Lingue madri d’Italia: se il principio universale deve essere la salvaguaria della Lingua madre, allora prima di preoccuparci dell’italiano dobbiamo preoccuparci di salvare la Lingua veneta (e le altre Lingue madri degli altri italiani). Forse che l’italiano è una lingua madre?
Il Dr.Gianfranco Cavallin spiega in sintesi in questo estratto perché il Veneto è Lingua e non dialetto.
Affermano i testi scolastici scritti secondo i programmi ministeriali d’Italia che una lingua, per essere considerata “lingua”, deve possedere:
1 – una codificazione: l’insieme di parole che noi usiamo per comunicare il contenuto del nostro pensiero ad un’altra persona. Se tra parlanti ed ascoltatori esiste uno stesso codice, chi ascolta capisce il contenuto del pensiero espresso da chi sta parlando, in caso contrario parlanti ed ascoltatori non si capiranno mai.
2 – un uso scritto: quando la lingua usata per comunicare il contenuto del proprio pensiero viene usata anche in forma scritta (Letteratura, Poesia, Storia, Romanzi, Giornali, Atti notarili, Atti amministrativi, Verbali, ecc.).
3 – un prestigio sociale: quando la lingua è usata a tutti i livelli (fino alle più alte cariche dello Stato).
4 – una dignità culturale: quando una lingua possiede una Letteratura, una Storia, un Teatro. La Lingua Veneta possiede: codice, uso scritto, prestigio sociale, dignità culturale: /…/ il veneto e il napoletano, che hanno subito una codificazione, possiedono un uso scritto e una grande dignità culturale (si pensi all’opera del Goldoni e del Basile) (M. DARDANO/P. TRIFONE, “Grammatica Italiana con nozioni di linguistica”, Zanichelli, Firenze 1988, p. 30).
Nella Venezia (Triveneto) ci sono più lingue riconosciute che nel resto del mondo: 8 lingue: 3 ufficiali e 5 riconosciute: Carinziano (UD), 2.000 parlanti, 0,38% della popolazione di Udine è riconosciuto “lingua”; Carnico (BL), 1.400 parlanti, 0,66% della popolazione di Belluno, è riconosciuto “lingua”; Cimbro (VR-VI-TN), 650 parlanti; Friulano, (Regione Friuli), 526.000 parlanti, 56,32% della popolazione della Regione, è riconosciuto “lingua”; Ladino (TN-BZ-BL), 55.000 parlanti, 4,19% della popolazione di Bolzano, 1,69 di quella di Trento, 10% di quella di Belluno, è riconosciuto “lingua”; Mocheno a Trento: 1.000 parlanti. Sloveno (TS-GO-UD), 70.000 parlani a Trieste, 9,6% della popolazione di Trieste, 8% di quella di Gorizia, 3% di quella di Udine, è riconosciuto “lingua”; Tedesco, (BZ e molte zone delle Alpi e Prealpi venete), 282.000 parlanti a Bolzano, 65,43 della popolazione di Bolzano, è riconosciuto “lingua”;
In cosa consiste la differenza tra tutte queste lingue che, tutte assieme assommano a meno di un milione di parlanti e la Lingua Veneta che conta 5 milioni di parlanti nella sola Italia e non meno di 15 milioni di venetofoni nel mondo?
Cosa parlavano i Veneti se udirono per la prima volta l’Italiano nel 1915?: “/…/ (nel Veneto) si cominciò a sentire un nuovo strano modo di parlare, l’Italiano, soltanto nel 1915-18, durante la guerra combattuta sul territorio veneto in seguito all’aggressione italiana all’Austria” (G. MARCATO, Il dialetto come problema sociale e politico, in Schema, n.5, III-1980, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova).
Cosa aveva parlato per mille anni il popolo dello Stato forse più importante d’Italia?: “Naturalmente non posso considerare l’avventura di questa città dal momento in cui essa ebbe la sorte di non essere più capitale di uno Stato che fu politicamente ed economicamente forse il più importante d’Italia per circa un millennio” (Feliciano BENVENUTI, “Venezia Ancora”, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Tomo CXL (1981 – 82), Venezia 1982, p.223).
… Codificazione, uso scritto, prestigio sociale, dignità culturale: “/…/ (il Veneziano) era la sola lingua parlata a Venezia, da tutte le classi sociali, ed era persino la lingua ufficiale negli affari di Stato, nelle arringhe nel Gran Consiglio ed era la lingua dei tribunali – persino le leggi si stampavano in Veneziano. Il Veneziano non era un dialetto, era una lingua, la sola lingua parlata” (T. W. ELWERT, Studi di Letteratura Veneziana, Venezia 1958, p.165).
Dr.Gianfranco Cavallin
Autore del libro “Gli Ultimi Veneti”
Questa la definizione che la legge approvata dal Consiglio Regionale dà della lingua veneta che intende tutelare, valorizzare e promuovere.
Una lingua fatta di tante parlate e di tanti dialetti che hanno in comune la stessa radice linguistica.
Un patrimonio culturale da tutelare e valorizzare in adesione e nel rispetto del dettato della Corte europea delle lingue regionali o minoritarie, e di cui la Regione si impegna a favorirne la conoscenza e la diffusione con tutta una serie di attività dirette.
Il veneto (nome nativo vèneto) è una lingua romanza usata da alcuni milioni di parlanti in sei stati diversi. Circa la metà dei parlanti si trova nella penisola italiana, nella “Terraferma” della ex-Repubblica di Venezia e principalmente nella regione del Veneto, ma anche in Trentino e Friuli-Venezia Giulia. La metà rimanente si trova all’estero, principalmente in Istria, con comunità minori in Dalmazia, Romania, Brasile, Messico e in varie altre località oggetto di emigrazione.
È tutelata come lingua dalla Regione Veneto (che pure ne riconosce il carattere composito) ma non dallo Stato italiano, che non la annovera tra le minoranze linguistiche, pur essendo compresa fra le lingue minoritarie dall’UNESCO.
La lingua veneta potrebbe essere ritenuta una lingua regionale o minoritaria ai sensi della Carta europea per le lingue regionali e minoritarie, che all’art. 1 afferma che per “lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue … che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”. Bisogna ricordare che in Europa varianti della lingua veneta sono attualmente parlate, oltre che in Italia, anche in Slovenia, Croazia, Montenegro e Romania.
Il veneto deriva dalla fusione tra latino volgare ed il venetico parlato nella regione, il quale era del resto affine al latino stesso.
Testi in volgare che presentano chiare affinità con il veneto sono rintracciabili già a partire dal XIII secolo, quando in Italia non esisteva ancora un’egemonia linguistica del toscano.
Il veneto, in particolare nella sua variante veneziana, ha goduto di ampia diffusione internazionale grazie ai commerci della Repubblica Veneta, soprattutto nel Rinascimento, diventando per un certo periodo una delle lingue franche di buona parte del Mar Mediterraneo, soprattutto in ambito commerciale. Tuttora molte parole del gergo marinaro sono di origini venete.
Il veneto tuttavia non si impose come lingua letteraria in quanto, già nel XIII secolo, doveva confrontarsi con esponenti letterari di grosso rilievo sia di origine toscana che di origine provenzale. A riprova di ciò è il fatto che Marco Polo dettò a Rustichello da Pisa il Milione scegliendo la lingua d’oïl, allora diffusa nelle corti quanto il latino. Le opere in veneto più significative furono scritte da autori quali il Ruzante (Angelo Beolco) nel XVI secolo, Giacomo Casanova e Carlo Goldoni; in quest’ultimo caso l’uso del veneto era limitato a buona parte delle commedie teatrali, soprattutto per rappresentare il popolo e la borghesia.
Di particolare rilievo per l’utilizzo in ambito scientifico è la stampa nel 1478 de L’Arte dell’abbaco, opera meglio nota in ambito accademico come Treviso Arithmetic, scritta da un anonimo insegnante in lingua veneta, primo testo stampato conosciuto del mondo occidentale di insegnamento dell’aritmetica e della matematica ed uno dei primi testi stampati scientifici di tutta Europa. Esso era rivolto particolarmente all’educazione della classe media e in particolare al mondo mercantile.
La diffusione di questo idioma al di fuori dell’area storica dei veneti si ebbe con il progressivo sviluppo della Repubblica Veneta, che lo utilizzava come lingua ordinaria assieme al latino e all’italiano.
Con il dissolversi della Repubblica, il vèneto progressivamente venne sostituito da altre lingue per gli atti ufficiali e amministrativi. Il suo uso tuttavia perse progressivamente, almeno in parte, i registri letterari e aulici restando sempre come lingua storica e naturale del popolo, riuscendo comunque a raggiungere vette liriche mirabili con poeti come Biagio Marin di Grado. Bisogna anche ricordare il poeta triestino Virgilio Giotti, che poetava in triestino e ordinariamente scriveva in italiano. Inoltre bisogna ricordare Nereo Zeper che ha tradotto l’Inferno di Dante Alighieri in dialetto triestino (variante del veneziano). Si ricorda, tra l’altro, l’Iliade di Omero tradotta in veneto da Francesco Boaretti e in veneziano da Giacomo Casanova; nonché l’opera in veneto padovano intitolata Dialogo de Cecco da Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella Nova che tratta delle nuove teorie galileiane sul sistema solare, che taluni attribuirebbero a Galileo Galilei con lo pseudonimo di Cecco da Ronchitti. Altri letterati del Novecento che hanno utilizzato il veneto nelle loro opere sono i poeti Giacomo Noventa e Andrea Zanzotto come anche Attilio Carminati ed Eugenio Tomiolo. Si segnalano negli ultimi decenni – per la qualità della loro ricerca anche Sandro Zanotto, Luigi Bressan, GianMario Villalta, Ivan Crico. Notevoli inserti in veneto sono presenti anche nelle opere dello scrittore Luigi Meneghello.
Il progetto concepito da Giuseppe Lombardo Radice di sviluppare ed impiegare testi scolastici in lingua nell’ambito Veneto (come in altri contesti regionali), non ebbe completa attuazione poiché coincise con il periodo fascista, il cui regime era notoriamente impegnato, nella sua opera di forte centralizzazione dello Stato, a promuovere l’apprendimento della lingua italiana in un disegno complessivamente repressivo delle culture locali.
In anni recenti numerosi cantanti e gruppi musicali hanno adottato la lingua veneta per la loro produzione artistica: negli anni sessanta hanno raggiunto una buon successo Gualtiero Bertelli e il suo gruppo Canzoniere Popolare Veneto. Negli anni novanta si sono distinti i Pitura Freska, guidati da Sir Oliver Skardy, che hanno partecipato anche al Festival di Sanremo con la canzone Papa nero, scritta in dialetto veneziano. Più di recente hanno ottenuto una certa notorietà artisti come il rapper Herman Medrano, i Catarrhal Noise e i Rumatera.
Con la Legge Regionale n. 8 del 13 aprile 2007 “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto”, che si richiama ai principi della Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie, pur non riconoscendo alcuna ufficialità giuridica all’impiego del veneto, la lingua veneta diviene oggetto di tutela e valorizzazione, quale componente essenziale dell’identità culturale, sociale, storica e civile del Veneto.
(LA) « [Venetus est] pulcherrimus et doctissimus omnium sermo, in quo redolet tota linguae Grecae maiestas! » (IT)« [Il veneto è] la lingua più bella e più dotta di tutte, nella quale esala tutta la grandezza della lingua greca! » Pontico Virunio, umanista ed erudito bellunese (ca. 1460-1520)