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Invito alla mostra “Storia della Lingua dei Veneti”

Inaugurazione

Venerdì 12 Aprile, ore 12.00 a Venezia, Palazzo Ferro Fini sede del Consiglio regionale del Veneto, verrà inaugurata una mostra dedicata alla Lingua Veneta!


Si tratta di un’esposizione composta da 24 pannelli che attraversa 3000 anni di Storia alla scoperta della Lingua dei Veneti, dal venetico delle iscrizioni su pietra, al veneto storico dei trattati e della letteratura fino agli scritti del veneto moderno, con i dizionari, le grammatiche e le app.

Una rassegna documentale mai concepita prima

Ogni tappa è spiegata in quattro lingue: Italiano, Veneto, Inglese e Portoghese brasiliano. Inoltre è possibile ascoltare l’audiolettura delle didascalie in veneto grazie ai QR code.

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“Storia della Lingua dei Veneti” è un progetto dell’associazione culturale InfoMedia Veneto, con il contributo della Regione Veneto ed in partnership scientifica con Academia de ła Bona Creansa – Academia de ła Łengua Veneta.

La Mostra è visitabile a Palazzo Ferro Fini (San Marco – Venezia) dal 9 al 26 Aprile, dalle ore 9 alle 17.

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Istroveneto un bene del territorio

A colloquio con Suzana Todorović collaboratrice dell’Unione Italiana nell’ iter per la registrazione del dialetto quale patrimonio immateriale della Slovenia

“Una bella notizia e un bellissimo traguardo per l’Unione Italiana e per tutti gli appartenenti alla CNI, per gli autoctoni istriani che adoperano nella vita di ogni giorno il dialetto Istroveneto quale lingua materna”. Non nasconde la sua soddisfazione la professoressa Suzana Todorovićda anni impegnata in ricerche sui dialetti dell’Istria slovena e accanto a Marianna Jelicich Buić collaboratrice dell’UI nell’ iter procedurale che ha portato alla registrazione dell’Istroveneto nel patrimonio culturale immateriale della Slovenia.
“L’ idea della registrazione era partita qualche anno fa proprio dall’ attuale presidente dell’UI, Maurizio Tremul che mi aveva invitata ad occuparmi degli aspetti scientifici della vicenda” ricorda la Todorović stando alla quale la decisione ha un’importante valenza politica “significa che la Slovenia accetta la presenza multiculturale e plurilinguistica, la presenza di istriani di altre origini in questa zona. Ciò conferma che anche gli sloveni per fortuna hanno capito che la popolazione romanza è sempre vissuta in questi luoghi” dichiara la dialettologa che nella formulazione della richiesta si è avvalsa proprio delle ricerche da lei effettuate.

“Nella documentazione inoltrata al Museo etnografico sloveno che è competente per la designazione del patrimonio immateriale andava innanzitutto definito l’ ambito d’ uso dell’ Istroveneto ed in questo contesto mi sono avvalsa di una cartina che ho pubblicato nel 2015 e dove sostenevo che l’ Istroveneto si è sempre parlato a Capodistria, Isola, Pirano e nelle zone circostanti contestando i dialettologi sloveni secondo i quali invece nelle città costiere si è sempre parlato il dialetto “savrino” o quello “risano”.
Tra la documentazione presentata a Lubiana numerosi materiali a conferma che la lingua viene parlata tutt’ oggi, elementi storici sulla classificazione del dialetto, l’elenco delle opere che descrivono la parlata, l’elenco delle associazioni che si occupano della valorizzazione dell’idioma e fino alla descrizione della cultura istroveneta.

“Un lavoro complesso e minuzioso ma ne è valsa la pena” afferma Suzana Todorović e aggiunge “Dopo quasi tre anni io quasi non ci speravo più anche perché da quanto traspare dalle ricerche dei dialettologi sloveni e dall’ultimo Atlante linguistico sloveno a Capodistria, Isola e Pirano gli istriani parlano solo sloveno il che naturalmente non corrisponde né alla verità storica né alla realtà odierna”.
Per la Todorović un grande contributo alla registrazione dell’Istroveneto è stato dato indubbiamente dalle numerose ricerche scientifiche pubblicate negli ultimi anni, dai convegni e tavole rotonde volte alla valorizzazione della parlata locale. 
Ora un analogo procedimento sarà inoltrato anche in Croazia.

Lionela Pausin Acquavita

Fonte: https://capodistria.rtvslo.si

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L’Istroveneto diventa patrimonio culturale immateriale della Slovenia

Il coordinatore per la tutela del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Slovenia, dott.ssa Tanja Roženbergar, direttrice del Museo etnografico sloveno, ha comunicato che la richiesta inoltrata dall’Unione Italiana di Capodistria per la registrazione dell’Istroveneto quale patrimonio culturale immateriale della Slovenia, risponde a tutti i criteri richiesti ed è pertanto adatto per l’iscrizione nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Slovenia. La decisione è stata accolta in data 19 marzo 2019 dalla preposta Commissione scientifica per le lingue. La procedura d’iscrizione nel Registro è in capo al Ministero per la Cultura sloveno, mentre la documentazione per la sua iscrizione è di competenza del coordinatore.

Un’edizione degli anni passati del festival dell’Istroveneto a Buie


L’Unione Italiana ha posto la tutela e la registrazione del patrimonio culturale materiale, mobile e immobile e del patrimonio culturale immateriale della Comunità Nazionale Italiana in Croazia e Slovenia tra le sue priorità d’intervento: l’impegno e gli sforzi profusi in quest’ambito hanno prodotto un nuovo importante risultato.
Abbiamo contattato il presidente dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, il quale ci ha spiegato come è nato il progetto e qual è il significato dell’esito ottenuto per la Comunità nazionale italiana.

Un importantissimo risultato

“Nel 2015 abbiamo fatto un’operazione del genere. L’Assemblea dell’UI aveva approvato una mozione su proposta dell’allora onorevole Roberto Battelli che diceva di impegnare l’UI a intraprendere le iniziative necessarie per la registrazione e la tutela del patrimonio culturale della CNI, sia quello materiale che quello immateriale. A seguito, abbiamo iniziato a preparare la documentazione per la registrazione dell’Istroveneto in Slovenia. In Slovenia perché è più semplice qui, dato che l’Istroveneto ha le sue varietà a Capodistria, Isola e Pirano. In Croazia invece le varietà sono molteplici – ha ricordato il presidente dell’UI –.
Il 26 maggio 2016 l’Unione Italiana di Capodistria, avvalendosi della collaborazione scientifica della dott.ssa Suzana Todorovič, con il coordinamento dalla responsabile del settore Cultura della Giunta Esecutiva, Marianna Jelicich Buić, ha inoltrato la richiesta di iscrizione dell’Istroveneto nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Slovenia presso il Museo etnografico sloveno di Lubiana.
Sono passati quasi tre anni e ora ci è stato detto che la nostra richiesta soddisfa tutti i criteri per poter essere iscritta nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Slovenia. Ciò significa che tale lingua verrà riconosciuta e tutelata. La decisione è stata presa dalla competente commissione scientifica del coordinatore per la tutela dei beni culturali immateriali. Il fatto che la Slovenia riconosca che ci sia un dialetto istroveneto storico, una lingua autoctona, presente e viva, è una decisione storica.
È stato riconosciuto dunque il carattere culturale italiano-istroveneto di questo territorio. La decisione di considerare a tutti gli effetti l’Istroveneto quale patrimonio culturale immateriale della Slovenia, rappresenta un importantissimo risultato raggiunto nella conservazione e valorizzazione del ricco patrimonio culturale della Comunità nazionale italiana in Istria, Quarnero e Dalmazia”, ci è stato detto.
Richiesta per l’Istroveneto della Croazia
“L’Unione Italiana ora cercherà di completare la documentazione per la richiesta di iscrizione dell’Istroveneto nel Registro del patrimonio culturale immateriale della Repubblica di Croazia. Continueremo con quest’opera di valorizzazione, tutela e conservazione del nostro patrimonio culturale”, ha annunciato Tremul.
Infine, il presidente dell’UI ha voluto ringraziare la prof.ssa Suzana Todorovič, linguista di spicco in Slovenia, che ha preparato la parte scientifica della domanda, Marianna Jelicich Buić, la quale è stata all’epoca sua vicepresidente di Giunta che ha coordinato il progetto, e tutti i dipendenti di allora e quelli di oggi dell’Unione Italiana di Capodistria, che hanno contribuito a preparare la documentazione che ha portato di fatto a un risultato straordinario. (krb)

Fonte: http://lavoce.hr

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Da oggi la Lingua Veneta entra a scuola!

La lingua veneta arriva all’istituto Fogazzaro di Trissino (VI).

111 studenti delle medie sono infatti da oggi coinvolti nel progetto “Percorsi di lingua veneta”, per un totale di 7 lezioni. Alessandro Mocellin, direttore del dipartimento linguistico “Academia de la lingua veneta” e autore del testo pubblicato a Francoforte insieme a Horst Klein e Tilbert Stegmann, guiderà le cinque classi coinvolte nel percorso.
Ciascuna lezione durerà un’ora: «il progetto è partito grazie all’Amministrazione che ne ha riconosciuto l’importanza fin dall’inizio, credendoci e sostenendolo – spiega Mocellin -. Si partirà dallo studio generale delle origini e della diffusione lingua veneta per addentrarsi nell’esame dei suoni e nei confronti con l’italiano, il francese e il tedesco. I ragazzi scopriranno come la struttura della lingua veneta sia simile al francese per l’inversione del soggetto e del verbo nelle domande e nei verbi frasali, o come i suoni possano essere assimilati allo spagnolo. Per la prima volta potranno capire che quella lingua, che dall’ultima rilevazione Istat del 2007 è parlata al nord da 4 milioni di persone, è ricca di parole come ciao, gazzetta, arsenale che hanno assunto una risonanza internazionale». Durante l’ultimo incontro gli studenti si misureranno in traduzioni di testi come la “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948.

L’idea è partita dall’assessore all’identità veneta Gianpietro Ramina ed è stata prontamente accolta dalla scuola. «Si tratta di un progetto importante che ha l’obiettivo di far conoscere o ricordare la nostra storia – spiega il sindaco Davide Faccio -. La risposta che abbiamo ottenuto, partendo da un’iniziale adesione di due classi fino ad arrivare al coinvolgerne cinque, attesta che anche i cittadini ritengono il percorso intrapreso degno di nota. L’istituto, inserendo il programma nel Pof, ha riconosciuto il valore culturale della nostra tradizione linguistica».

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Darcy Luzzatto: una vita per la difesa del “Talian”, il veneto-brasiliano

Darcy Loss Luzzatto è l’uomo del Talian. Quel misto di dialetto veneto, lombardo, trentino, con un po’ di portoghese “venetizzato” che si parla nella Serra Gaucha, quella regione di Caxias do Sul, Bento Gonçalves e Garibaldi, nel cuore de Rio Grande do Sul, e in certe zone di Santa Catarina. L’immigrazione italiana è giunta su quelle colline del sud brasiliano, a quel tempo coperte solamente dalla Mata Atlantica, alla fine del XIX secolo, dal 1875 in poi. L’Italia era unita solo da quattro o cinque anni, ed era una congerie di parlate distinte: ad ogni 50 chilometri della penisola si confabulava in un dialetto diverso! I coloni italiani, inviati nell’interno del Rio Grande do Sul e di Santa Catarina, venivano specialmente dalle zone alle spalle di Venezia, dalle campagne di Treviso, Padova, Belluno, dai paesi dell’alta Lombardia (Bergamo, Brescia) e dalle Alpi del Trentino. Non parlavano assolutamente italiano. In Brasile, essendosi tutti mescolati fra loro senza alcuna divisione territoriale, crearono con l’andare del tempo una vera e propria lingua comune, una koinè diálektos, un nheengatu del sud invece che del nord-amazzonico, che inglobava termini dei vari dialetti trapiantati in quella regione brasiliana, più un tocco di portoghese filtrato da quegli italici linguaggi. Così è nato il Talian, che alla fine del 2014, col Guarani e l’Asurini del Tocantins, è stato fra le prime lingue riconosciute come referenza culturale brasiliana dall’Istituto del Patrimonio Storico e Artistico Nazionale (Iphan). Questo perché esistono comuni del Rio Grande do Sul e Santa Catarina (più qualche paesino dell’Espirito Santo) nei quali il Talian è lingua praticamente co-ufficiale: ossia, ha in quei luoghi e fra quella gente la stessa importanza della lingua portoghese. Per legge, una lingua brasiliana passa a far parte dell’Inventario Nazionale della Diversità Linguistica (Indl) quando è parlata continuamente in territorio nazionale da per lo meno tre generazioni, da circa 75 anni. È il caso del Talian che alla fine è stato valorizzato come “aspetto rilevante del patrimonio culturale brasiliano”. E Darcy Loss Luzzatto ha scritto l’unico dizionario Talian-Portoghese che esista sul mercato!

“In realtà ne esiste un altro del polacco Alberto Vitor Stawinski che si intitola Dizionario Veneto-Portoghese-Italiano che però non si riferisce al Talian vero e proprio – puntualizza Darcy Luzzatto che oggi ha 82 anni – Come è nato il termine Talian? Nel 1978 mi ero riunito a Porto Alegre con i massimi esponenti di questa lingua vernacola: il frate francescano Rovílio Costa, l’architetto Júlio Posenato ed io. Cercavamo di uniformare la grafia. La pronuncia e le parole sono differenti, per esempio, da un bergamasco a un bellunese, ma nel momento di scrivere si deve scrivere alla stessa maniera. E ci chiedemmo: che nome metteremo a questa lingua? Rovílio diceva Veneto Riograndense, io parteggiavo per Veneto Brasiliano. Posenato preferiva Talian. Decidemmo che tre mesi dopo avremmo fatto una nuova riunione espressamente per il nome da dare alla nostra lingua. A Farroupilha c’era l’omaggio a padre Oscar Bertholdo, un sacerdote poeta che ha scritto ben 12 libri di poemi, e che anni dopo, nel 1991, sarebbe stato barbaramente assassinato nel corso di una rapina. Aspettavo sulla porta del comune perché ero arrivato prima. C’era solo una vecchietta con me. E allora le chiesi: nona, me capiu se ve parlo in Veneto? No caro, perdoname: forse se me parli in Talian. (nonna, mi capisci se ti parlo in Veneto? No caro, perdonami: forse solo se mi parli in Italiano). A voz do povo é a voz de Deus! Ho telefonato subito a Júlio e gli ho detto che aveva proprio ragione: che era Talian! E così è stato”. Darcy è un esperto di Talian da quando andava in giro per tutta quella vasta regione con lo zio carrettiere che lo portava con lui durante le vacanze da scuola. “Avevo 11 o 12 anni. Giravamo con un carro trainato da 8 mule. Sono andato a vagare con mio zio per anni. Nessuno come me ha una familiarità così completa con le parole e i modi di dire di tutti i discendenti dell’emigrazione italiana. Ho sfruttato queste conoscenze nel redarre il mio dizionario, che ho incominciato a scrivere a Porto Alegre, dove facevo l’editore, nel 1997. L’ho terminato solo sette anni più tardi: sono molto contento del risultato finale!”.

Darcy Luzzatto è nato a Pinto Bandeira, nel Rio Grande do Sul, il 27 ottobre 1934. A 12 anni è andato a studiare a Bento Gonçalves, e sino ai 17 a Farroupilha, che fino all’anno della sua nascita si era chiamata Nova Vicenza. Poi è arrivato a Porto Alegre dove si è laureato in matematica e fisica. Ha fatto il professore per molti anni scrivendo dei trattati di fisica. Con quei libri ha fatto irruzione nel mondo della letteratura che lo ha portato, dopo la fase di insegnamento, a diventare editore di libri scolastici per il liceo e l’università. Per quattro anni è stato editore dell’Università Federale del Rio Grande do Sul. “La mia vocazione per i libri deriva da mio nonno, Cristoforo Luzzatto. Il vecio Toffolo (il vecchio Toffolo) era una persona con studio, che sapeva parlare il bellorat (il dialetto veneto di Belluno), il francese, e che, secondo quanto diceva un vecchio prete di Pinto Bandeira, conosceva ancora più latino di lui. Parlava fluentemente l’italiano. Nessuno sapeva parlare Italiano in quegli anni. In paese c’erano sole tre persone che avevano cognizione della lingua di Dante: il vecchio Arpini, Pecoraro e Luzzatto. Tutti avevano studiato in Italia. Gli altri erano quasi tutti analfabeti e parlavano il dialetto d’origine. Mio nonno è stato molto male all’inizio vedendosi, lui colto, in mezzo a tutta questa ignoranza”. Il nonno Cristoforo è la persona che più ha influenzato Darcy nella sua vita. Era nato a Mel, un villaggio lungo il fiume Piave, in provincia di Belluno, nel 1869. Era di famiglia che stava bene, probabilmente ebrea. Avrebbe potuto fare carriera in Italia. Ma suo cognato, che aveva sposato sua sorella Marina (aveva un altro fratello di nome Bepi), lo aveva abbindolato scrivendogli cose affascinanti dal Brasile in cui era approdato qualche anno prima. Gli aveva mandato una lettera con l’assicurazione che lui, che parlava diverse lingue, avrebbe fatto soldi a palate nel Brasile di allora. Lo aveva ingannato. Lui è venuto nella Serra Gaucha pochi anni dopo, nel 1890, e subito dopo si è pentito. Ma era molto difficile tornare. E non è ritornato. “Il primo posto dove si sono fermati era Caravaggio, dove anche allora c’era il santuario della Madonna di Caravaggio, che in Italia è nei dintorni di Bergamo. Iniziò a fare il maestro, ma in Italiano. Poi venne a Pinto dove faceva lo scrivano. Gli era stato facile parlare e scrivere in portoghese: io dico sempre che chi parla una sola lingua è poco più di un muto. Con nonna Virginia hanno avuto nove figli. E quella di mia nonna è una storia ancora più incredibile!”

Lei era di Feltre, sempre vicino a Belluno, ma già in montagna. Si chiamava Virginia ma sempre si è fatta chiamare Emilia. E nessuno sa assolutamente il perché. “La sua è una storia stramba, interessantissima, da film, da telenovela…Ma molto triste. Sua madre si era sposata con un tipo che era dovuto partire subito per la guerra. Era il 1866 e infuriavano le battaglie fra l’Austria, a cui allora apparteneva il Veneto, e la Prussia. Non era più tornato. A distanza di tre anni la mia bisnonna era andata a chiedere consiglio al parroco e al sindaco. Le hanno riposto che suo marito, presumibilmente, era morto, e che facesse un po’ ciò che voleva. Allora lei si è sposata col fratello del suo primo sposo, e aveva messo al mondo una toseta (bambina), la nonna Teresa Virginia. Ma quando quella neonata aveva meno di un anno ritorna il primo marito. Qual’è il matrimonio che vale? Sono andati tutti a Belluno a parlare col prefetto e il vescovo, che alla fine hanno sentenziato che era il primo matrimonio quello che valeva. Al mio bisnonno è toccato andare via e di lui non se n’è saputo più nulla. Mia bisnonna è tornata col primo marito che ha portato subito Virginia all’orfanotrofio, l’ha messa nella roda delli esposti, l’ha lasciata con le suore. Ha vissuto così, quasi in clausura, abbandonata dalla sua famiglia, tutta la sua infanzia e adolescenza, finché non si è sposata con nonno Cristoforo. Da bambino ho chiesto a mia madre perché la nonna era sempre così cattiva. Se sapessi la sua vita saresti cattivo anche tu! è stata la sua risposta. Si è sempre fatta chiamare Emilia anche se tutti sapevano che il suo nome vero era Virginia. Chissà? Forse per cancellare qualcosa del suo passato. Un vero mistero!”.

Il nonno Cristoforo era di origini ebraiche. Darcy l’ha scoperto qualche giorno dopo la sua morte quando monsignor Luis Vitor Sartori lo ha condotto in sacrestia a Caravaggio e ha tirato fuori una lettera di proprio pugno del nonno. C’era tutta la storia della sua famiglia. I Luzzatto derivano il loro nome dalla Lusatia, che in latino indica la terra, ora divisa tra Germania e Polonia, ai confini della Cechia. Erano ebrei ed avevano cominciato a fuggire verso sud dai tempi della Peste Nera del 1348. Gli ebrei non si ammalavano come gli altri, soprattutto per le loro osservanze religiose in fatto di cibo, kosher, che proibivano di mangiare carne di porco. Chi erano i colpevoli per quell’epidemia mostruosa? Quelli che non morivano: quindi gli “odiati” ebrei! Alla fine di secoli di migrazione forzata erano approdati nel nord Italia. Qualche Luzzatto si era sposato con qualche cristiana e aveva rinnegato il credo giudaico. “A Conegliano c’è un cimitero ebraico dietro l’antico palazzo Sarcinelli. Ho chiesto se c’erano dei Luzzatto li e mi hanno indicato uno stemma sulle tombe, con un gallo che tiene con la zampa destra un fascio di frumento, e con sopra la testa una stella a cinque punte. Quelli sono Luzzatto. Era scritto tutto in sanscrito e io non capivo nulla. Ne ho trovate parecchie col medesimo simbolo. A mia zia ho rivelato la novità che siamo ebrei. Lei ha detto di smetterla con queste fandonie, che nonno Cristoforo andava a messa tutte le domeniche…Ma le ho risposto che se lui andava in chiesa, i suoi antenati erano andati in sinagoga. Amos Luzzatto, nato nel 1928 e credo ancora in vita, era un professore di Venezia che ho incontrato in uno dei miei viaggi. E’ stato presidente delle comunità ebraiche in Italia. Molti ebrei di Porto Alegre sono andati ad una conferenza che ha tenuto anni fa a Rio de Janeiro. Quando sono tornati andavano dicendo che erano andati ad ascoltare un mio parente!”.

Il padre di Darcy si chiamava Antonio ed era un figlio di mezzo di Cristoforo e Virginia/Emilia. Era nato a Caravaggio. Nella sua breve vita ha fatto di tutto: dal commerciante di cavalli e mule al salsicciaio, dal viticoltore all’albergatore. È morto a 43 anni perché a quel tempo non si sapeva quanto male facesse il metabisolfito di sodio che si attaccava come una crosta al legno delle botti di vino. “Mio padre entrava dentro alle botti senza nessuna protezione. Con uno zappettino tirava via le scagliette di metabisolfito per rivenderlo. Sono tutti morti di epatite senza sapere perché. Respiravano quella polvere e invece di mettersi una rete davanti alla bocca fumavano un sigaro, il che era peggio ancora. Mi aveva fatto una zappettina piccola e mi avrebbe portato dentro le botti senza sapere che faceva il mio male. Ma è morto prima”. Sua madre, Ester Loss, era nata a Bento Gonçalves. Loss di padre e di madre. Perché a Caoria, frazione di Canal San Bovo, nella valle trentina di Primiero da cui provengono i nonni di Darcy, si sposavano anche fra cugini. “Mi ricordo che nel 1978, quando sono andato per la prima volta in Italia, a Caoria era domenica e tutti erano nella piccola chiesetta. Ho chiesto ad un prete se in paese c’erano dei Loss. Mi ha risposto che tutti erano Loss, e se non conoscevo il nomignolo di mio nonno. Io lo sapevo: Remesor. Finiti! Il sacerdote mi ha detto che non c’erano più Remesor, come non restavano più Losset, soprannome dei Loss di mia nonna. Il nonno Loss gh’avea gli schei, era danaroso, e aveva a Bento due segherie con due mulini ad acqua. Quando sono nato abitavamo a Pinto Bandeira che a quel tempo si chiamava Nova Pompei. Qui, dove vivo di nuovo adesso, c’è il santuario della Madonna del Rosario di Pompei. Ma con l’Estado Novo, durante la dittatura Getulio Vargas, erano stati proibiti i nomi stranieri. Allora l’hanno sostituito con Pinto Bandeira. Chi era costui? Un personaggio che non ha niente a che vedere con noi. Rafael Pinto Bandeira era nel XVIII secolo un colonnello dell’esercito portoghese che faceva guerra nel sud del Brasile ogni volta che gli uruguaiani si spingevano dentro al Rio Grande do Sul. Non è mai venuto qui. Non c’entra niente con questa cittadina. Chiamiamo il nostro paese di Pinta e i pintaroi sono i suoi abitanti. Era un termine negativo che adesso è diventato positivo e ce lo godiamo. Come il vocabolo “gaucho” che in origine era sinonimo di ladro, assaltante di strada, delinquente… Ma poi, col passare del tempo, quando i gauchi hanno aiutato il governo centrale a respingere quelli che parlavano spagnolo, sono diventati rispettabili e importanti, ed oggi tutti hanno l’orgoglio di essere gauchi. Ma io dico sempre: guardate indietro!!!!”.

Darcy Luzzatto, corporatura forte ed occhi pieni di simpatia, racconta un storiella che è all’origine della sua passione per la lingua Talian. “Mi sembra di vedere tutto come allora. Mia madre nella cucina dell’albergo, mia sorella più vecchia a lavare i piatti. Mio padre era appena morto. Avevo 10 anni. Io mi occupavo di quelli che bevevano qualcosa nel ristorante e nel bar. Era il 1944. C’era gente che giocava alle carte, e tre o quattro persone in piedi attorno, che stavano a guardare. All’improvviso è entrato un bell’uomo, non molto alto ma con una corporatura forte e un piglio deciso, tutto vestito di nero, con gli stivali neri, e con una camicia bianca, senza cravatta ma con un fermaglio d’oro al collo. Si è seduto tranquillo guardandosi attorno. Era l’epoca della seconda guerra mondiale: il Brasile era contro l’Asse e parlare Talian era vietato. Si vede che le persone presenti hanno suscitato la sua completa fiducia e mi ha detto: ceo, dame un cichet de cachaça! Uno che stava assistendo al gioco è uscito di soppiatto ed è ritornato poco dopo con un commissario di polizia di nome Fernando Fernandes. L’ha preso, arrestato, cacciato fuori, e rinchiuso nella cantina del municipio che fungeva da prigione perché, in quei tempi benedetti, non era necessaria la prigione. Se lui avesse voluto spaccava a metà sia il poliziotto che la spia che era di Bergamo ed era soprannominata “Magro” per il fisico minuscolo che aveva. Ma a quel tempo c’era un altro rispetto per la legge. Lo guardavo dalla finestra dell’albergo mentre andava avanti e indietro per quella prigione fasulla. Non aveva fatto nulla. Era finito là solo perché non poteva parlare la sua lingua nella sua terra. È stata una cosa impressionante che all’inizio dell’adolescenza mi ha marcato molto. Il giorno dopo è uscito, è montato a cavallo e prima di andare via ha detto: avvertite il Magro che se passa davanti a casa mia è un uomo morto! Per 50 anni il Magro, fino a quando non è mancato, non è mai passato di là tanta era la paura che gli aveva messa addosso. Questa è la storia di come era cattivo parlare Talian a quell’epoca. Quel fatto è stato la molla originaria per farmi scrivere e per cercare di far rivivere la nostra lingua. Per me è stato l’inizio di tutto!”.

Darcy si è sposato la prima volta che era molto giovane. Dice di avere sbagliato, perché non sapevano vivere assieme. Lei era tedesca. “Ho rischiato di diventare un alcolizzato. Quando sei in crisi non sai con chi parlare, non stai bene: e alora t’inciuchi (e allora ti ubriachi). Poi per fortuna è venuta Elisa che ha ridato sapore alla mia vita. Abbiamo due figli, Antonio, giornalista, e Carolina che è andata a studiare in Germania dove si è sposata. Ho due nipotini: Maximilian e Carlota, uno suona la tromba e lei il trombone a coulisse”. I due nipoti tedeschi di Darcy hanno imparato a leggere e a scrivere prima il Frankische, il dialetto tedesco della regione in cui vivono, del “Deutch”, come i cimbri e i ladini che ora apprendono prima la loro lingua dell’Italiano. Secondo Luzzatto così dovrebbe essere anche qui, su queste magnifiche colline brasiliane di selve e vigneti. Durante le celebrazioni dei 100 anni dell’emigrazione italiana, nel 1975, l’allora vice-direttore dell’Università di Caxias, Mario Gardelin, gli ha detto: Luzzatto, tu parli bene il Talian, dovresti anche scriverlo. “Quando sono ritornato a casa l’ho detto a Elisa e mi sono messo a pensare. Da qui è nato il primo libro in Talian e da allora non mi sono più fermato. Se tornassimo a 50 anni fa, tutti parlavano Talian. Tutti, proprio tutti! Le professoresse brasiliane esigevano il Portoghese e dicevano che il nostro palare era da stupidi e da ignoranti. I vecchi non ci avevano mai parlato dell’Italia. Noi non sapevamo dell’importanza di Venezia nel mondo, una città fantastica con una storia eccezionale! Se l’avessimo saputo potevamo rispondere a quelle professoresse che quando il Portogallo non esisteva ancora, che non c’era nessuna lingua portoghese, a Venezia parlavamo già il Veneziano, e si parlava Veneziano lungo tutto l’Adriatico, nelle isole del Mediterraneo orientale, fin nel Mar Nero. Ma non ci avevano mai detto nulla di tutto questo: anche mio nonno che era una persona colta ed intelligente”.

Frate Rovílio Costa, un santo secondo Luzzatto, soleva dire che “tute le lengue xè bele, ma la più bela de tutte xè quel ca g’avemo ciuccià ne tette da mama!” (tutte le lingue sono belle, ma la più bella di tutte è quella che abbiamo succhiato dai seni della mamma). La lingua materna è quella del sentimento. “La rabbia e le carezze vengono fuori sempre in Talian – conclude Luzzatto, preparando una fortaia (frittata) squisita nella sua casa di Pinto Bandeira – La lingua è dentro di noi e si manifesta senza volere. Non riesco proprio a scrivere delle poesie in portoghese. In Talian invece… Una volta ero a Murano, l’isola del vetro nella laguna di Venezia. Un soffiatore che mi ha sentito parlare mi ha detto che grosso modo mi capiva, anche se parlavo una mescola di parole trentine, bellunesi, trevigiane, e altre che non riusciva a comprendere. Ma sei di Trieste? mi ha chiesto alla fine. Non capirai mai da dove vengo, gli ho risposto. No, non sono friulano, trentino, altoatesino, lombardo, o di qualche zona sperduta del Veneto. Sono del Rio Grande do Sul, in Brasile, una landa a più di 12 ore d’aereo da qui, dove il Veneto che si chiama Talian, dopo anni di sofferte persecuzioni, ora è diventato un lingua ufficiale brasiliana: è considerato più che in Italia!”

Fonte: http://100nonni.com

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Ricordi di pionieri ad Arborea: «…ma a in casa ghemo sempre ciacolà in veneto» Conversazione con Vittoria Peterle

L’intervista che vi proponiamo di seguito fa parte di un lavoro di ricerca sulla memoria che Medda Costella sta portando avanti nell’agro di Arborea (paese della Sardegna, terra di emigrati Veneti), per rendere merito e dare voce ai figli di questa terra che col loro sacrificio hanno contribuito a far crescere questo angolo di Sardegna.

Tempo fa, sfogliando una monumentale opera sulla bonifica di Mussolinia/Arborea, mi ero imbattuto in una lettera del 1932 scritta da uno dei protagonisti di quella grandiosa epopea della storia del novecento sardo. La particolarità non stava tanto nel raccontare ai propri famigliari rimasti nella terra d’origine la vita condotta in Sardegna, quanto nella presenza nel testo della parola “barbagigio”, impiegata per indicare i frutti della pianta d’arachide. Nella piana, salvo il termine italiano, questo legume di origine brasiliana è noto come “bagigio”. Assodato che la maggior parte dei mezzadri arborensi giunsero da precise aree del Veneto dove questa parola è utilizzata, la diffusione del vocabolo “barbagigio”, per quanto intuibile nel significato, interessa invece la parte alta della provincia di Treviso e il bellunese, da dove non risultano, se non con qualche eccezione, degli arrivi. Così, alla prima occasione in cui sono potuto entrare in contatto con qualche famigliare, ho cercato di approfondire la questione.
Vittoria Peterle è la figlia di Armelindo, colui che scrisse materialmente la lettera. È nata nel 1933 e oggi vive nell’agro di Arborea, in un podere della strada 22. Ci siamo dati appuntamento in un pomeriggio d’estate, grazie al nipote Antonio, figlio di un suo fratello, lui stesso desideroso di conoscere parte della propria storia famigliare.
I Peterle sono arrivati ad Arborea da Tambre, o meglio da Tambruz, in provincia di Belluno. È il 14 luglio. Ricorre la presa della Bastiglia, ma alla televisione scorrono le immagini degli ultimi chilometri della tappa del Tour de France, che mostrano per l’occasione il sardo Fabio Aru in maglia gialla. Aspettiamo la conclusione per vedere se il campione di Villacidro potrà continuare a guidare la classifica della Grande Boucle mantenendo la maglia gialla. E cosi sarà. La televisione può essere spenta, sentenzia Vittoria. Ha molte cose da raccontare e inizia subito con un aneddoto narratole dal padre sul paese d’origine:

«Lori iera boscaioi e andavano a taiar la legna. A un certo momento si staccava un, e se portava via il fusile. E come vedeva un cunicio ghe sparava per magnarselo con la polenta. Però quei de Tambre i fa la polenta dura e invece i trevisani (zona d’origine del marito) i la fa molla. Cussì lori i la tagliava e i la sentava sora la pianta. Ma la pianta iera taiada in pendenza, e cussì la polenta ga comincià a rodolare, zo da la montagna. E alora un ga comincià a gridare ‘ciapalaciapalaciapala’…cussì quel col fusile pensava che fossi un cunicio e se ga messo a spararghe! Col fusile no? E invece iera la polenta che rodolava».

Il suo veneto è ancora vivo, forse un po’ italianizzato, ma la cosa straordinaria è che alla sua pronuncia è intercalato un sardissimo “eja” per annuire. Scopro che Armelindo non è mai stato mezzadro della Società Bonifiche Sarde, la s.p.a. che ha realizzato la bonifica della piana di Arborea, e che ha reclutato le famiglie da insediare nei poderi. Egli aveva infatti preso in affitto un appezzamento, vicino a quello che è oggi il campo sportivo, per diventare il primo ortolano del paese, pagando direttamente all’azienda un corrispettivo. Questo motiva l’assenza della famiglia Peterle dal manifesto dei pionieri della “Bonifica Sarda” che la SBS realizzò al tempo e che oggi fa bella mostra in tantissime case dell’agro. Vittoria non ricorda esattamente in che anno il padre sia giunto a Mussolinia, ma è certa che arrivò in Sardegna come carpentiere, insieme ai suoi fratelli Toni e Treo, lavorando per la costruzione del villaggio e in particolar modo del silos. «Gavevo anca le fotografie con lu davanti, coi ciodi e il martello, ma go perso tutto. Lori iera gente che andava in giro per il mondo per lavoro. Andavano tanto in Belgio e i l’è andai anca in Sicilia. Mentre i miei zii ze poi ripartii, lu se ga fermà», dice rimarcando la loro abitudine a spostarsi dove il lavoro lo richiedeva. E prosegue «De là a Tambruz iera tutto un altro ambiente rispetto a qua. […] Me pupà ga fato de tuto de più. Gaveva anca una trattoria che ancora oggi esiste e se ciama “All’Alba”». Cerca di far mente locale per ricordare i racconti ricevuti, tanto più quelli riguardanti i suoi compaesani ed è certa che molti di loro facevano cucchiai e mestoli di legno per essere venduti nella bassa, verso Treviso. «Me disea sempre che lori iera simberli (cimbri) e quando che iera arrabià disea delle parole in tedesco. A noantri ghe vegneva da ridere, ma no se podeva, se no partiva sciaffe, […] ma a in casa ghemo sempre ciacolà in veneto». Leggenda vuole che le comunità cimbre siano originarie dello Jutland in Danimarca e che a seguito della sconfitta subita a opera dei romani a Vercelli guidati da Gaio Mario nel 101 a.C. si siano poi rifugiate nelle Prealpi Venete. In realtà secondo studi più contemporanei, queste popolazioni dalla parlata germanica sono arrivate da una zona della Baviera intorno al 1200 d.C. La comunità dell’Alpago è per giunta di recente costituzione, formatasi da un esodo migratorio da Roana, nell’Altipiano di Asiago (storico insediamento cimbro), incentivato agli inizi dell’800 dall’Arsenale di Venezia, per il recupero del legname nella foresta del Cansiglio, fondamentale per la costruzione degli scafi e gli stessi pali di legno della Laguna.
Nella famiglia di Vittoria erano in nove tra fratelli e sorelle. «Alora ischei no ghi n’era. I spetava che la gaina fasea ‘cheocheo’ per tirarghe el collo e far el brodo». Vita non facile per quei tempi e il lavoro era sempre in avanzo alla strada 19, tanto che ai Peterle serviva parecchia manodopera: «Allora no iera trattori e se dovea far tuto a man». Prendevano così qualche operaio del posto, ma anche dai paesi limitrofi e per le esigenze straordinarie non si risparmiavano nemmeno i bambini di casa: «anca noi fioi de nove e diese ani ghe tocava lavorare come che tornavimo dalla scuola. Ancora me ricordo quel che se dovea far par la semina». Qualche anno dopo, nello stesso caseggiato colonico arrivò la famiglia Favalessa (da Cessalto), con un figlio di nome Giordano (Cilo), futuro sposo di Vittoria.
Più nitidi i ricordi della guerra e dei soldati che bussavano alla porta della loro casa per chiedere da mangiare. «I tedeschi gavea sempre fame, ma quando zè rivai gli americani l’è sta tutta un’altra roba. I vegneva a tor la verdura, però i portava scatolette, formajo e tanto altro». Poi però un giorno Armelindo tornò a casa per avvertire tutti che rimanere lì era pericoloso. La possibilità di uno sbarco alleato non era ipotesi remota e il vicino campo sportivo era pieno di militari, bersaglio appetibile per l’aviazione nemica. Si decise quindi il trasferimento nella casa della famiglia della moglie (Cenghialta da Brendola), che all’epoca viveva dove oggi sorge il centro fieristico. Ricevettero due coperte e un paio di sacchi da stendere in terra per poter dormire, con un orecchio sul cuscino e l’altro proteso verso l’esterno, pronto a cogliere qualsiasi vibrazione che poteva annunciare un attacco. Così una notte gli anglo-americani iniziarono a lanciare i bengala per avere più luce e poter eventualmente bombardare, costringendo tutti quanti a cercare rifugio nell’improvvisato riparo antiaereo che si era costruito vicino al canale.
I ricordi di Vittoria bambina non si fermano qui e proseguono con il sabato fascista, quando da “piccola italiana” andava a marciare nell’impianto della GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Era presente anche alla seconda visita di Benito Mussolini nel 1942. Un’altra volta invece, pensando di accogliere il duce, la fecero esercitare per giorni e giorni, per un saggio ginnico nel campo di atletica in cui insieme a tante altre compagne avrebbe dovuto formare la scritta “Viva il Duce”. Ma arrivò il triestino Aldo Vidussoni, all’epoca segretario del PNF, e che sarebbe tornato nella piana alla fine della guerra per trasferirsi con la propria famiglia.
Nel 1944 con la caduta del regime anche Mussolinia deve essere defascistizzata. Nasce Arborea. In onore del glorioso giudicato sardo, in linea con quelli che sono i nuovi sentimenti nazionali. L’avvicendamento politico non riguarda soltanto il cambio del nome al centro, ma anche lo smantellamento dei simboli che hanno caratterizzato l’intero territorio italiano per un ventennio. «Allora si aveva la foto nel duce nelle case. Quando l’è vignu zo il regime quei de la SBS i la cavae via. Ricordo anche il busto del duce, quelo de la GIL, che è stato portato via col carrello. La gente i ghe buttava sterco, ghe spudava». Sono cosi buttati giù a colpi di martello anche i fasci littori dalle case coloniche e dalle stalle, oltre che dagli altri edifici maggiormente rappresentativi della piana, in preda a una furia iconoclasta che non esenta neanche la cittadina che si era fregiata del capo del fascismo.
L’Italia repubblicana spazzò via, con molta calma, anche l’entourage della vecchia dirigenza SBS e i terreni poterono così essere finalmente riscattati dai mezzadri che, a partire dal 1955, divenuti assegnatari si associarono in più cooperative. Nel 1967 Vittoria si trasferì nella strada 22, insieme al marito Cilo, quando in seguito all’abbandono delle campagne di moltissime famiglie che ripartirono per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia, ebbe la possibilità di prendere un podere e mettere su famiglia.
Peterle è oggi un nome conosciuto in tutta la Sardegna. La famiglia continua a fare, con fatica e professionalità, ciò che il nonno Armelindo da pioniere dell’orticoltura aveva avviato. Alcuni nipoti negli anni ’90 hanno perfino aperto un vivaio, oggi leader nell’isola per la produzione di piante e all’avanguardia in Europa per l’utilizzo di tecnologie e sistemi di produzione, senza aver mai dimenticato da dove tutto ebbe inizio, quando quella polenta cominciò a rotolare nei boschi dell’Alpago…ciapila! Ciapila!

Il nipote Antonio, citato nell’intervista, oltre a lavorare nell’azienda è anche socio fondatore del circolo Veneti nel Mondo-Sardegna con sede in Arborea.

di Alberto Medda Costella

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I Baci Perugina parlano veneto: arrivano i bigliettini con i proverbi nelle lingue locali

I famosi bigliettini dei Baci Perugina parlano anche in lingua veneta!

Dal siciliano al veneto infatti, dal genovese al romano, fino al piemontese: sono 9 le lingue locali scelte da Baci Perugina per lanciare la prima edizione di «Parla come… Baci», una serie speciale dei celebri cioccolatini per rendere omaggio all’Italia e alle sue differenti culture. Dal napoletano «Ògne scarrafne è bèll’a màmma sia» al milanese «I inamoraa guarden minga a spend», selezionati 100 tra detti e proverbi di 9 diversi idiomi italiani: pugliese, genovese, milanese, romano, veneto, siciliano, piemontese, napoletano e perugino.

Ogni cartiglio contiene un proverbio in lingua con la traduzione in italiano, mentre l’incarto del cioccolatino riporta la parola «bacio» nelle varie declinazioni. L’iniziativa intende parlare soprattutto ai giovani: secondo uno studio condotto dal marchio del gruppo Nestlè, tra i millennials la curiosità sulle lingue locali è forte: 6 ragazzi su 10 le utilizzano o sono incuriositi dalla possibilità di impararle.

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Lingua Veneta: classificazione e diffusione

Il veneto è una lingua Indo-Europea, Italica, Romanza, Occidentale.

La lingua veneta è riconosciuta con codice identificativo internazionale ISO 639-3 “VEC” dall’UNESCO e classificata fra le lingue viventi nel catalogo “Ethnologue”.
Ethnologue raccoglie un l’elenco di circa 6.700 lingue parlate in 228 Stati; contiene anche un indice delle lingue organizzato secondo le famiglie e ceppi linguistici.

Si stima che la lingua veneta sia parlata da circa 3.500.000 di persone nel mondo delle quali:

– 2.109.502 nella penisola italiana (dati del 1976)

– 100.000 in Croazia e Slovenia (dati del 1994 – Tapani Salminen)

– 1.210.000 negli altri Stati del Mondo, soprattutto in Brasile.

Il veneto, come tutte le lingue, si compone di diversi dialetti/varianti, che si sono formati per conseguenza di vicende storiche e politiche, vicende umane (emigrazione ed immigrazione) e geografiche (influenze reciproche fra lingue diverse).

Di seguito vi proponiamo alcune cartine che rappresentano graficamente la diffusione e l’utilizzo della lingua veneta oggi nel mondo (realizzate da Giovanni Maistrello, che ringraziamo).

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Festival dell’Istroveneto 2017, un successo fra lingua, musica e antiche tradizioni

Si prova sempre una certa impressione, positiva, di quelle che ti scaldano il cuore, quando arrivi a Buje, un paesino di poco più di 5000 abitanti situato nella parte settentrionale dell’Istria.
Definito nel passato la “Sentinella dell’Istria”, possiamo oggi definirlo, anche con un po’ di orgoglio, un “baluardo veneto”. Qui tutto ci parla della nostra plurimillenaria cultura, dai Leoni di San Marco – se ne contano tre soltanto nella piazza storica del paese – alle tradizioni ancora vive e, soprattutto, alla lingua.
Sì perché, pur essendo in uno stato straniero (Croazia), lontano nello spazio e nel tempo dalla madrepatria veneta, Buje e i suoi abitanti conservano vive le tradizioni e gli antichi legami con il Veneto.

Appena giunti a Buje non stupisce quindi di sentire il poliziotto, il panettiere, il barista o la professoressa parlare fra di loro in veneto, o per meglio dire in “istroveneto”.

Questo legame dalle antiche “raixe” vive e resta forte grazie all’impegno e all’amore per la cultura veneta di molte persone che ogni anno organizzano eventi e manifestazioni, fra i quali l’ormai famoso “Festival dell’Istroveneto – Dimela Cantando”: una settimana di dibattiti, incontri ed eventi di carattere letterario e canoro, che sfociano nella 3 giorni finale dedicata ad un vero e proprio concorso musicale.

Lo scopo della manifestazione – si legge dal sito www.istroveneto.com – è quello di tutelare e promuovere il dialetto istroveneto che, nonostante sia una “lingua viva” in quanto attivamente parlata, subisce in seguito ai naturali mutamenti socio-economici, un lento ma inesorabile impovetrimento lessicale, in particolar modo nella sfera legata degli antichi mestieri e della vita agreste.

Il Festival è promosso dell’Unione Italiana, in collaborazione, con il sostegno e con il patrocinio della Città di Buie, dell’Assessorato alla Cultura della Regione Istriana, dell’Università popolare di Trieste e della Regione Veneto. Vista l’importanza della manifestazione e il suo alto valore culturale, la stessa ha ottenuto il Patrocinio della Regione Veneto.

Possiamo dire che anche quest’anno il Festival dell’Istroveneto non ha sicuramente deluso le aspettative: durante le tre tappe del consorso canoro – a Muggia (Italia), Capodistria (Slovenia) e Buje (Croazia) – 17 artisti si sono esibiti davanti ad un pubblico partecipe e divertito, sotto l’occhio (e l’orecchio) attento di una giuria di esperti internazionali.

Vincitore del Concorso 2017 è stato Andrea Scarcia con “Ciapa fià”, secondo premio a Francesco Squarcia con la canzone “Due cuori” e terzo Ivan Bottezar con “Dame la man”.

Per tutti coloro che desiderassero ascoltare le canzoni del Festival, segnaliamo il link ufficiale: www.istroveneto.com/dimela-cantando.html

Buon ascolto e… lunga vita all’istroveneto!

PRIMO CLASSIFICATO:
Andrea Scarcia -” Ciapa fià”

SECONDO CLASSIFICATO:
Francesco Squarcia – “Due cuori”

TERZO CLASSIFICATO:
Ivan Bottezar – “Dame la man”

Davide Guiotto

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5 parole veneziane che vengono usate ovunque

Un viaggio alla scoperta di Venezia attraverso il vocabolario dell’isola e alcune magiche leggende.

Tra tutte le città meravigliose che ci sono in Italia, Venezia è probabilmente quella più strana e affascinante: sarà perché non ci sono le automobili e quindi, turisti e vaporetti a parte, c’è quasi sempre un silenzio irreale; sarà perché d’inverno la nebbia rende calli e campielli ancora più misteriosi e onirici; sarà per il magico Carnevale che ogni anno attira visitatori da tutto il mondo; sarà per le leggende che circolano e che spiegano l’origine di ogni angolo dell’isola… chissà! Quel che è certo è che Venezia è unica al mondo (malgrado i tentativi malriusciti di imitazione) e merita di essere visitata da tutti almeno una volta nella vita.

Oggi non vogliamo portarvi a visitare luoghi turistici arcinoti come Piazza San Marco, Rialto e il Ponte dei Sospiri (sebbene vi consigliamo caldamente di andarli a vedere prima o poi): vi porteremo a scoprire la città attraverso la sua lingua, o meglio, per essere precisi, attraverso il suo dialetto. Lo sapevate che alcune parole dialettali veneziane non solo sono entrate di diritto nella lingua italiana, ma, in alcuni casi, sono presenti anche in lingue come l’inglese e il francese?

La prima della lista è certamente la più famosa ed internazionale: ciao altro non significa che “schiavo” (s’ciavo) e sta a indicare la fedele amicizia di chi sta pronunciando il saluto. Dire “ciao” significa, infatti, comunicare a qualcuno che si è al suo servizio (si è “schiavi” di quella persona). Sorprendentemente questa forma di saluto è entrata a far parte della lingua italiana solo all’inizio del Novecento, eppure si è diffusa rapidamente ed è presente oggi in moltissime lingue, con diverse variazioni.

Altre parole, forse prevedibili e che utilizziamo tutti i giorni senza accorgercene, sono quelle strettamente legate alla storia della città: laguna (che a sua volta deriva dal latino lacuna, cioè “posto vuoto”), arsenale e darsena (che derivano a loro volta dall’arabo Dār al-ṣināʿa), lido, regata, gondola e cantiere, tanto per citare le più note. Anche senza bisogno di grandi spiegazioni etimologiche, si può facilmente dedurre che derivano tutte dalla tradizione navale veneziana, dalla storia della Serenissima quale Repubblica Marinara e, più in generale, dalla posizione insulare del capoluogo veneto.

Andiamo ora a scoprire assieme alcuni vocaboli… inaspettati. Ecco i miei esempi preferiti.

marionetta

Marionetta

L’origine della marionetta è molto lontana nel tempo e risale addirittura a un evento accaduto a Venezia nell’anno 944. All’epoca i matrimoni cittadini venivano celebrati tutti nello stesso giorno e un “corteo acqueo” portava le promesse spose al cospetto dei rispettivi mariti, che attendevano alla chiesa di San Pietro in Castello. Nel 944 alcuni pirati triestini rapirono le ragazze (e le loro doti), ma vennero quasi immediatamente catturati dai valorosi veneziani, che riuscirono a riportare a casa le fanciulle senza che venisse loro fatto alcun male.

Per ringraziare la Vergine della Serenissima per il fortunato esito del rapimento, si decise di imporre ad alcune influenti famiglie nobili della città di provvedere alla dote di 12 ragazze povere che, da quel momento, diventarono “le Marie” e che, ogni anno, sfilavano per la città in ricordo della vittoriosa spedizione veneziana contro i triestini. Ben presto, tuttavia, la scelta delle Marie diventò ardua (tutte le ragazze veneziane volevano godere di un simile privilegio!) e la voglia di mettersi in mostra da parte dei patrizi si tramutò in una gara al rialzo che diventò presto economicamente insostenibile. Che fare, dunque, per mantenere la tradizione senza scontentare nessuno? Nel 1272 la Serenissima decise di sostituire le dodici ragazze con figure di legno piuttosto grandi che vennero presto ribattezzate “Marione” per la loro dimensione. I commercianti cittadini, poi, decisero di riprodurre in forma ridotta le “Marione” per metterle in vendita come… “marionette”.

ballottaggio

Ballottaggio

La parola “ballottaggio” deriva dalla procedura complicatissima che veniva messa in atto per eleggere il Doge e per assicurarsi che la votazione fosse completamente imparziale e trasparente. Il fulcro di tutta l’operazione era costituito da alcune palline d’oro e d’argento (le “ballotte”) che venivano inserite in un’urna ed estratte dai senatori in diversi momenti. Tale procedura serviva a garantire, ad esempio, che non ci fossero due membri della stessa famiglia nel corso della medesima votazione.

Il termine viene utilizzato anche negli Stati Uniti (“ballot”) e in Francia (“ballottage”) per un motivo molto semplice: quando, nel 1700, queste giovani democrazie si trovarono a dover scegliere un sistema elettorale, scelsero come esempio l’unica democrazia (quella veneziana) presente al tempo.
imbroglio

Imbroglio

Fatta la legge, trovato l’inganno! Per poter truccare il sistema (presumibilmente) sicuro delle ballotte d’oro e d’argento, i membri del Consiglio si incontravano per tramare intrighi e promesse elettorali nel “Brolio”, un giardino alberato che si trovava nei pressi del Palazzo Ducale dove, appunto, avveniva la votazione. L’”imbroglio” è dunque un’italianizzazione del nome di questo luogo.

pantaloni

Pantaloni

Il tipico travestimento carnevalesco veneziano, spesso associato ai servitori Arlecchino e Colombina, è proprio quello dell’avaro commerciante Pantalone. Il termine “pantaloni” riferito ai calzoni lunghi che indossiamo tutti i giorni, dunque, deriva proprio dagli abiti di questo personaggio tipico. Pare che, infatti, quelle braghe fossero così diffuse tra i popolani veneziani che anche in Francia i cittadini della Serenissima venissero chiamati con il nomignolo di “pantaloni”.

gazzetta

Gazzetta

Quando, ogni giorno, vi recate in edicola per comprare il quotidiano, sappiate che, in un certo qual modo, state perpetuando un’antica tradizione veneziana che risale al 1500. Per aggiornare la popolazione sull’andamento della crisi con l’impero turco, infatti, la Repubblica Serenissima pubblicava dei giornali di poche pagine (un massimo di otto) che poi erano venduti al pubblico al prezzo di due soldi. E indovinate? Il nome della moneta da due soldi di Venezia era “gaxeta”, italianizzato nel corso degli anni in “gazzetta” e diventato presto sinonimo di una pubblicazione periodica con notizie utili agli abitanti di un determinato territorio.

Se volete saperne di più sulla storia delle leggende veneziane, vi consiglio il libro “Misteri di Venezia” di Alberto Toso Fei, nel quale ho individuato alcuni degli aneddoti raccolti in questo articolo.

Fonte: https://it.babbel.com

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Pavano, ossia il dialetto del caos

Tra ’400 e ’600 una galassia culturale unica nel suo genere
Doppi sensi, ambientazioni contadine, immagini surreali: Paccagnella pubblica il vocabolario della lingua di Ruzante.

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Pare impossibile che generazioni di studiosi continuino a occuparsi assiduamente di autori della nostra letteratura che non pongono alcuna particolare difficoltà di comprensione della lettera del testo (la prima e indispensabile chiave d’accesso a qualsiasi opera letteraria) né alcun particolare sforzo di ricostruzione storica, riducendosi a semplici palestre di elucubrazione per disimpegnati stilisti. Pare impossibile soprattutto pensando che nel bel mezzo della nostra storia culturale vi è almeno un poderoso filone letterario che al vario pregio artistico dei suoi prodotti accompagna una straordinaria sfida linguistica. Parliamo della letteratura pavana: un capitolo a lungo pigramente relegato ai margini, che ha prodotto con Ruzante almeno un colosso della letteratura europea, e con la miriade dei suoi anticipatori e seguaci, tra Quattro e Seicento, una galassia culturale unica nel suo genere.

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La letteratura pavana è tutta imperniata sull’impiego di una varietà linguistica che arieggia il padovano rustico, ma si discosta dalla sua realtà storica per sovraccaricarlo espressivamente: un faelare di villani e di contadine, prodotto però da autori tutt’altro che demotici, che giocano con la lingua come i grandi pittori del Rinascimento veneto giocavano col colore.

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Producendo capolavori: come i teleri delle commedie, dei dialoghi e dei monologhi ruzantiani; come i quadri venezian-padovani di un Andrea Calmo, o la vertiginosa serie dei bozzetti poetici allineati dalla triade Magagnò, Menon e Begotto nelle loro raccolte di rime. Una lingua caotica, che mette a dura prova anche i lettori più esperti (tanto che di solito le edizioni di questi testi rivolte al pubblico si presentano con traduzione a fronte o a margine); ma anche, finalmente, una lingua disvelata fin nelle sue pieghe, grazie al Vocabolario del Pavano che Ivano Paccagnella ha appena pubblicato, per i tipi (padovani, ovviamente) di Esedra.

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Mille pagine per esplorare, parola per parola, tutto l’immenso tesoro della lingua di Ruzante, dei pre-ruzantiani (soprattutto quattrocenteschi) e dei post-ruzantiani, fino al misterioso autore di un Dialogo che in passato fu attribuito nientemeno che a Galileo Galilei, professore allo Studio di Padova. Mille pagine, migliaia di termini su ciascuno dei quali Paccagnella – professore allo stesso ateneo patavino, e allievo di Gianfranco Folena, che un’impresa simile compì sul veneziano di Carlo Goldoni – ha sudato per vent’anni. Tanto ci è voluto per riuscire ad avere edizioni attendibili (sia pur di servizio) del corpus dei testi pavani, ma soprattutto per cercar di spiegarne chiaramente ogni singolo termine ed espressione. Ogni proverbio, ogni irriverente allusione, ogni turpe doppio senso. Di lasciarli nel vago è capace qualsiasi saltimbanco: ma il difficile è inchiodarli, su una pagina di dizionario, a un preciso significato. O almeno formulare un’ipotesi plausibile sul loro significato e sul motivo per cui sono stati impiegati. Giacché, per citare ancora Galileo, «parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».

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E l’intenzione di Ruzante non era certo quella di non farsi capire: solo che il suo pubblico viveva in un ambiente culturale naturale e insomma in un tempo ormai irrimediabilmente separato dal nostro, del quale si può però tentare di ricostruire luoghi, suoni, piante, animali, abiti, concetti che non fanno più parte delle nostre abitudini. Proprio come nel Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, con cui Folena vent’anni fa aveva dischiuso il mondo del commediografo veneziano, basta atterrare su un verbo qualsiasi, anche il più familiare – che so, andare – per scoprire modi di dire, e con essi, nozioni antiche, che credevamo di aver dimenticato: andare a mario (a marito), ma prima (sperabilmente solo prima) andare a morose, andar drio (nel senso di «continuare»), andar in bando (per «esser banditi»), andar al bordello o ai bordiegi (nel senso di «in malora»), ma anche andare a ponaro (letteralmente «al pollaio»: significa «a dormire») o andar a versoro (andar nei campi spingendo l’aratro), andar int’un acqua («sciogliersi») o andar in broetto («sdilinquirsi», andare in brodo), fino ad un andare in gluoria che per i villani ha il significato terra- terra di «godere»: «co’ butto gi uocchi in te ’l to sen / a’ vago in gluoria secoloro, amen».

Lorenzo Tomassin

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“Esser séco incandìo” – l’origine di un modo di dire veneto. Il misterioso ‘biscoto’ venezian.

Dalla pagina “Venezia a tavola” la spiegazion de na maniera de dire de la lengua veneta.

Non soltanto ogni ricetta ma anche ogni modo di dire veneziano porta con sé anche un pezzetto di storia. Per esempio, i veneziani sanno che dire a una persona “ti xe seco incandìo!” vuole dire “ti vedo smagrito, un poco patito”. Ma, come mai?

In questo caso dobbiamo fare un salto indietro di oltre 350 anni e immaginarci cosa potesse essere stato l’assedio di Candia (l’attuale Creta) durante la lunga Guerra combattuta tra Venezia e l’Impero Ottomano. Siamo alla metà del ‘600 e Candia era controllata dalla Serenissima, per questo motivo subì un estenuante assedio, forse il più lungo della storia, durato oltre 22 anni, dal 1647 al 1669, terminato alla fine con la conquista turca.
Il 5 settembre 1669, dopo 29.000 caduti tra i difensori e 108.000 tra gli assedianti, il Capitano Generale da Màr Francesco Morosini, comandante delle forze veneziane, firma la resa con l’onore delle armi e la possibilità per tutti i cristiani di lasciare l’isola, ma senza portare nulla con sé.
Così ci racconta quei fatti lo scrittore Alberto Toso Fei, in un’intervista di Veneziani a Tavola di qualche tempo fa…

(Marco Boschini, Incisione in rame tratta da “Il regno tutto di Candia delineato” – Venezia,1651. Da: libreriaperini)

<< Nel 1669, quando entrarono a Candia, i turchi non vi trovarono i quattromila abitanti superstiti, che approdarono alcune settimane più tardi a Venezia. Dalle condizioni in cui li si vide arrivare presero piede in città i modi di dire “essere in Candia”, cioè “essere agli estremi”, ma anche “esser seco incandìo”, che ancora oggi si usa per indicare una persona particolarmente magra per il fatto che non mangia.
Nel 1821 (152 anni dopo l’abbandono dell’isola da parte dei veneziani) furono trovate ancora intatte e sane (anzi, di gradevole sapore!) delle gallette inviate da Venezia per rifocillare le truppe nel corso del lungo assedio. La ricetta del “frisopo” (era questo il nome del particolare pane, noto anche con l’appellativo di biscotto) era segreta, e oggi non se ne trova più traccia. Unico indizio il nome, “bis-cotto” appunto, che lascia intendere come venisse cotto due volte per ridurne al minimo il contenuto d’umidità. Le gallette venivano impastate appena fuori le mura dell’Arsenale, dove ancora oggi c’è Fondamenta dei Forni. >>

fonte: venetostoria.com

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“Quella veneta è una lingua vera”

Dalla storia, alle emozioni alla politica linguistica: sono questi gli aspetti che ha toccato il professor Matteo Santipolo docente di Glottodidattica e didattica della lingua inglese presso l’università degli Studi di Padova, relativamente sul rapporto tra Italiano e Dialetto nel Veneto


CULTURA ROVIGO Il professor Matteo Santipolo è stato il relatore dell’incontro del ciclo “Veneto, Italia, Mondo”, incentrato sul tema del rapporto tra Italiano e Dialetto nel Veneto d’oggi

Rovigo – Grande attenzione al quarto incontro del ciclo Veneto, Italia, Mondo: riflessioni sul repertorio linguistico tra passato, presente e futuro organizzato dal comitato rodigino della società Dante Alighieri che ha visto il professor Matteo Santipolo, direttore scientifico dell’iniziativa, intervenire sul difficile tema del rapporto tra Italiano e Dialetto nel Veneto d’oggi: tra storia, emozioni e politica linguistica.

La conferenza ha visto una grande partecipazione e il sostegno dell’assessore alla Cultura Donzelli che ha sottolineato come “Il professor Santipolo è fra i giovani più importanti della nostra città ed il suo intervento di sicuro provocherà riflessioni utili, elemento importante per muovere la cultura rodigina, anche se – ha aggiunto – i media locali faticano a seguire questo tipo di iniziative”.

Divisa in 8 punti chiave, che hanno toccato gli aspetti storici, sociali e culturali del veneto, la conferenza del professor Santipolo, docente di Glottodidattica e didattica della lingua inglese presso l’università degli Studi di Padova, è partita da un assunto fondamentale: “Il Veneto non è un dialetto, ma una lingua con una sua storia, una sua letteratura e una sua grammatica, nata, così come l’italiano, dal contatto fra il latino e le antiche lingue presenti nella nostra regione”.

Non siamo di fronte, quindi, ad un idioma minoritario rispetto alla lingua ufficiale, bensì ad una lingua che all’interno dei nostri confini regionali è parlata da circa 3 milioni di persone, dialettofone o semi-dialettofone, etichetta che, come ha spiegato lo studioso “indica tutti i parlanti che si sono avvicinati al dialetto partendo dalla lingua materna, perchè siamo tutti capaci di comprendere il veneto e soprattutto di identificarci nella comunità veneta grazie a questa lingua”.

Punto centrale dell’incontro è stata la riflessione sulla legge 116, approvata dal consiglio regionale, ovvero la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze (linguistiche) nazionali: “L’Italia ha iniziato una politica linguistica già negli anni venti, prima del fascismo, quando partendo dai dialetti si è cercato di avvicinare i parlanti alla lingua nazionale – ha detto Santipolo – poi si è tentato dagli anni ’70 di tutelare le varie lingue presenti nella Penisola, fino alla legge 482 del 1999, che prevede la tutela di 12 minoranze linguistiche, fra cui manca il veneto”.

Non sarebbero pochi, tuttavia, i problemi portati dalla nuova normativa, che interessano i piani sociale, fiscale, giuridico ed educativo: “Non si tratta di difficoltà impossibili da risolvere – ha specificato il professore – ma di complicazioni di cui è necessario tenere conto: dalle traduzioni dei documenti ufficiali, agli interpreti nei tribunali, all’immagine dei veneti, già considerati chiusi, fino all’insegnamento e alla formazioni degli stessi insegnanti e alla domanda principale: quale fra le varietà venete verrà insegnata?”.

“Il tema è di grande attualità” ha commentato Mirella Rigobello, presidente del comitato rodigino della Società Dante Alighieri. Ringraziando il pubblico per la partecipazione, la presidente ha poi ricordato “col prossimo appuntamento si chiuderà il ciclo di seminari diretto dal professore che ha dimostrato non solo grande competenza nei suoi interventi, ma anche grande professionalità nella gestione dell’intera manifestazione”.

A chiudere gli appuntamenti de LaDante sarà la professoressa Carla Marcato dell’università di Udine con un convegno dal titolo Nomi di Luogo nel Veneto: Storia e Significato, che si terrà a Palazzo Roncale il 23 maggio alle 16.30.

Fonte: Rovigo Oggi – 11 maggio 2017
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“I Sete Tamizi”, primo manuale universitario in lingua veneta

Autori: A. Mocellin, H.G. Klein, T.D. Stegmann

EuroComoRom: I Sete Tamizi – Ła ciave par capir tute łe łengue romanse, Aachen (Frankfurt), 2016, 265 pp.

Si tratta del primo manuale universitario interamente scritto in lingua veneta moderna, pubblicazione scientifica dell’Università di Francoforte, che sostiene l’iniziativa e appone anche il suo logo in copertina, affiancato da quello dell’Academia de ła Bona Creansa, ente veneto che ha collaborato nella cura degli aspetti scientifici ed empirici in merito alla lingua veneta, alle sue caratteristiche ed ai suoi parlanti, con i quali è venuta in profondo contatto grazie ai famosi Corsi di Veneto che ha tenuto in 6 province, diplomando quasi 500 persone.

Il lavoro scientifico, che si compone di 265 pagine interamente redatte in lingua veneta moderna, elabora e dimostra una teoria linguistica (quella del multistandard veneto) che si esplica nell’uso di una particolare ortografia che consente l’espressione completa ed esatta della lingua. Inoltre, ed ancor più, il manuale raffronta sul piano dell’intercomprensione linguistica il veneto con altre sei lingue romanze, ossia il francese, lo spagnolo, l’italiano, il romeno, il catalano ed il portoghese, evidenziando la natura della lingua veneta nei suoi tratti fonetico-fonologici, ortografici, morfologici, lessicali ad anche sintattici, dimostrandone la sostanziale unità proprio negli intrecci di diversità, oltre che evidenziando i molti caratteri distintivi, a volte condivisi con altre grandi lingue (quali il francese), a volte di sua propria peculiarità.

È un manuale universitario con approccio plurilingue e glottodidattico, e pertanto potrà essere utilizzato sia come libro di testo per studenti, ma anche come manuale per la formazione di insegnanti, che desiderino apprendere il veneto in un contesto plurilingue: unico requisito conoscere almeno un’altra delle altre 6 lingue in comparazione (italiano, francese, portoghese, spagnolo, catalano e romeno), e ciò amplia la possibilità anche ai venetofoni dell’emigrazione in Brasile, in Messico e altrove. Vieppiù, il manuale può essere utilizzato dai madrelingua veneti anche per sfruttare il veneto come passepartout per apprendere una o più delle altre già citate 6 lingue, in un’ottica di apertura linguistica, che vede la lingua veneta come elemento di promozione del plurilinguismo.

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“Ła storia de Joanìn sensa paura”, un libro veneto… scritto in veneto!

Merita sicuramente una menzione il libro scritto da Erik Umberto Pretto “Ła storia de Joanìn sensa paura – Memorie de un Alpin de ła Seconda Guera Mondiałe”, non solo perché narra le vicende del nonno ‘Joanìn’ e, di riflesso, del mondo Veneto di allora, ma anche perché è scritto interamente il lingua veneta.

Un’impresa sicuramente non facile, nata dopo un’attenta analisi e studi da parte dell’autore sulla lingua e grammatica veneta. Come egli stesso spiega infatti “prima di scrivere il testo è stato eseguito un attento, rigoroso ed approfondito studio della grammatica veneta, per il quale è stato necessario analizzare diversi volumi.

Tale ricerca ha impiegato molto tempo, ma si è rivelata indispensabile al fine di scrivere un libro che possa essere letto e compreso in tutte le aree linguistiche della nostra Regione. In particolare, le regole grammaticali alle quali mi sono ispirato maggiormente sono quelle contenute nella seguente bibliografia:

– S. Belloni, Grammatica veneta, Esedra editrice, Padova 2009

– M. Brunelli, Manuàl Gramaticałe Xenerałe de ła Łéngua Vèneta e łe só varianti

– Giunta regionale del Veneto, Manuale Grafia Veneta Unitaria, La Galiverna editrice, Venezia 1995

http://www.linguaveneta.it

Inoltre, per facilitare la lettura a coloro che non hanno molta dimestichezza con il vernacolo, a fondo pagina sono state inserite delle note nelle quali è riportata la traduzione italiana dei termini locali oppure arcaici usati all’interno del testo”.

Riportiamo di seguito alcuni antecipazioni sulla trama e la storia narrata, riportate all’interno del sito www.joaninsensapaura.com , nel quale potete trovare anche i riferimenti per acquistare il libro, accedere alla pagina facebook ed altre interessanti curiosità.

Il libro raccoglie la testimonianza storica di Natale Turcato detto Giovanni (nato a Marano Vicentino il 17/12/1919), il quale fu Alpino dell’Esercito Italiano durante il Secondo Conflitto Mondiale e successivamente internato militare nei Lager nazisti.

L’opera è nata per volontà di un nipote di Natale, il quale ha iniziato, qualche anno fa, a raccogliere il più fedelmente possibile i ricordi del nonno nel timore che il tempo li disperdesse per sempre. Tali racconti, colti inizialmente in ordine sparso e successivamente riordinati cronologicamente, sono stati trascritti in lingua veneta così come l’autore ha avuto la fortuna di ascoltarli.

Ne è nato un racconto scorrevole, piacevole alla lettura, arricchito da svariate fotografie e da alcuni preziosi documenti d’epoca.

Il libro è organizzato in una serie di brevi capitoli consecutivi, autonomi fra loro, in ognuno dei quali viene trattato un episodio della vita del protagonista. Questa scelta narrativa rende il racconto assai gradevole, e permette eventualmente al lettore di scorrere l’intero volume per soffermarsi soltanto sui paragrafi ritenuti più interessanti.

Segnalato dalla Giuria del concorso letterario “De Cia” 2011 sulla letteratura di montagna e vincitore del 3° premio al concorso letterario internazionale “Mario Donadoni” 2012 per la prosa in lingua veneta, successivamente il testo è stato utilizzato per la produzione dell’omonimo reading a cura della compagnia teatrale professionista Ensemble Vicenza Teatro.

Il racconto narrato inizia con alcuni episodi relativi alla vita di ragazzo del protagonista – Joanìn – ambientati nella campagna vicentina.

Si affronta quindi l’esperienza della guerra. All’età di 19 anni, Natale Turcato viene chiamato alle armi e destinato al Gruppo Artiglieria Alpina “Val Isonzo” di stanza a Gorizia, facente parte della Divisione “Julia”. Dopo un breve addestramento militare, Natale verrà inviato al fronte Greco- Albanese, creatosi con l’inizio della Campagna Italiana di Grecia. Sarà poi trasferito in Montenegro, per contrastare le rivolte ad opera dei partigiani titini avversi all’occupazione Italo-Tedesca della Iugoslavia.

Tornato in Grecia, più precisamente nella regione dell’Epiro, cadrà prigioniero dei Tedeschi in seguito all’Armistizio dell’8 settembre 1943. Deportato quindi in Germania per essersi rifiutato di arruolarsi nelle truppe della nascente Repubblica Sociale Italiana, verrà internato nel Lager nazista di Wartenberg, presso Berlino. In particolare in questa parte del libro colpisce la drammaticità degli eventi; emerge però sempre la straordinaria personalità di Natale, che si dimostra in ogni occasione incapace di odiare ed ostinato nel cercare di vedere il lato positivo delle cose.

Concluso il Secondo Conflitto Mondiale, con la resa incondizionata del Terzo Reich, Natale sarà preso in consegna dalle truppe sovietiche, che lo tratterranno per quattro mesi in una località tedesca prossima al nuovo confine polacco.

Sventato il pericolo della deportazione in Siberia, verrà finalmente rimpatriato nel settembre del 1945.

Il tutto si conclude con il ritorno del protagonista al suo paese natio, più precisamente con il suo matrimonio e con il suo conseguente passaggio a nuova vita.

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Bilinguismo, la direttrice scolastica: «Veneto in classe? Un’opportunità»

Beltrame: «Sarebbe un arricchimento formativo e di sviluppo cognitivo per tutti gli alunni»

VENEZIA L’eventuale introduzione per legge del «veneto» come lingua da studiare non sarebbe vista come un problema dall’Ufficio regionale scolastico. Lo precisa il direttore generale Daniela Beltrame, in riferimento al progetto di legge regionale 116, quello sul bilinguismo, che sarà votata dal Consiglio regionale la prossima settimana. «Se, come già avviene per la lingua friulana o per il ladino, l’occitano, il catalano, l’albanese, il sardo, una legge nazionale o regionale introducesse lo studio, accanto alle altre lingue straniere, anche della lingua veneta nelle scuole, ciò sarebbe un valore aggiunto e non un peso per le scuole e per gli alunni» afferma Beltrame.

«Il discorso – prosegue la dirigente scolastica – non va posto in termini di contrapposizioni o di priorità tra lingue, quelle più usate e quelle meno usate, quelle più importanti a livello commerciale e comunicativo mondiale e quelle meno, ma va assunta nella prospettiva plurilinguistica, in aderenza alle Raccomandazioni Europee, ai principi a cui tutta l’azione del Ministero dell’Istruzione in questi anni si è ispirata, ritenendo che le diversità linguistiche siano un elemento di democrazia e di rispetto dell’identità culturale delle persone». «L’integrazione nell’offerta formativa delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado dell’uso e della conoscenza di una lingua minoritaria, nel rispetto della scelta delle famiglie di avvalersi o no del relativo insegnamento – conclude Beltrame – non rappresenterebbe un aggravio ma un’opportunità di arricchimento formativo e di sviluppo cognitivo per tutti gli alunni, come sostenuto dalle ricerche internazionali di psicolinguistica e di sociolinguistica».

Fonte: Corriere del Veneto

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Tesi di laurea sulla lingua veneta… dal Messico

“El véneto (también conocido como veneciano) es una lengua indoeuropea de la familia romance, es decir, descendiente del latín. Es hablada por 7,852,500 personas (según datos de Ethnologue, 2016) en diferentes regiones del mundo, principalmente al noreste de Italia, en la península de Istria (Croacia y Eslovenia); en los estados brasileños de Rio Grande do Sul y Santa Catarina; y en la comunidad de Chipilo, en el estado de Puebla, México. Las personas pertenecientes al grupo étnico que la habla son denominados vénetos, al igual que la región de la que provienen: el Véneto, actualmente una entidad política de la República de Italia”

Così inizia la tesi di laurea sulla Lingua Veneta di Jared Galvan, con particolare riferimento al Veneto parlato a Chipilo dai discendenti dei veneti emigrati in quelle terre.
Una testimonianza preziosa della vitalità della lingua veneta, che resiste con forza nonostante la lontananza dalla madrepatria.

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Il Veneto è lingua, non dialetto

La contrapposizione tra lingua e dialetto è un fatto antico.

Già nel Vangelo (Matteo, 26 – 73) si legge che Pietro venne riconosciuto da un’addetta al Sinedrio a causa della sua parlata, fatto che conferma che perfino Gesù e gli Apostoli usassero con disinvoltura tale linguaggio.
Con l’apparizione del “volgare” la resistenza della lingua dotta deve essere stata tenace, a giudicare dai monumenti letterari in latino, peraltro pregevoli, risalenti ai secoli tra il X e il XIV. Altri tentativi di rivalsa furono esperiti nel XV secolo, durante l’Umanesimo. Poi il “volgare” rimase l’indiscusso interprete delle rispettive culture.
Diverso fu tuttavia l’uso che della lingua “volgare” fecero gli abitanti della città e della campagna.Entrambe le classi adattarono il linguaggio alle circostanze e finalità quotidiane, spesso impermeabili anche se conviventi nelle medesime località.
Non ne seguì una contrapposizione come al tempo della comparsa del “volgare”, bensì un consolidamento di due modi di parlare, che si concretò anche in una generale dimensione di derisione, e spesso di disprezzo, nei confronti di quanti usavano il linguaggio parlato nella campagna.
E’prova di quanto sopra la comparsa, verso il XII secolo, del termine francese “patois”, che divenne successivamente sinonimo di “dialetto”. Anche il linguista francese Albert Dauzat (1877 – 1955) concorda che la parola “patois” deriva dal francese “pattes”, cioè “piedi”. Sarebbe come dire che gli abitanti della campagna parlano con i piedi.
Gli abitanti della campagna parlano invece, come tutti gli esseri umani, con gli organi della fonazione sapientemente e senza discriminazioni elargiti da madre natura!

CARATTERISTICHE DELLA LINGUA

Lo spagnolo, il francese, l’italiano, l’inglese… sono lingue. E che sarebbero mai il veneto, il bergamasco, il romagnolo? Si tratta forse di banali grugniti, di ragli sonori oppure di sommessi belati?
Il glottologo Angelo Monteverdi (1886 – 1967) sostenne che un linguaggio che servisse a scrivere poesie, prosa di svago (racconti, fiabe, romanzi, canzoni…), prosa devozionale (prediche, vite di santi, catechismi), nonché atti giuridici e notarili, non è una lingua. Soltanto quando un linguaggio dimostrerà la sua idoneità in tutti i campi culturali, compresi i settori politico e amministrativo, può essere considerato una lingua.
Ne consegue che il francese del XII secolo, il prestigioso linguaggio della Chanson de Roland, non era una lingua. Nemmeno l’italiano di Dante, Petrarca, Boccaccio era una lingua!- Bisognerà attendere il Quattrocento, quando il dialetto toscano penetrerà anche nell’Italia Settentrionale, nonché la sua normalizzazione condotta da Pietro Bembo (1470 – 1547) e dai teorici successivi. Anche il catalano sarebbe una lingua da poco tempo.
Se questa considerazione vale per lo sviluppo, essa deve valere anche per il declino delle lingue, comprese quelle che sono ritenute eterne.

Le caratteristiche necessarie per definire una lingua possono essere sintetizzate come segue:
1. Originalità grammaticale:
a) nella fonetica,
b) nella morfologia,
c) nel lessico;

Originalità della genesi storica
3. Secolare tradizione letteraria
4. Coiné linguistica
5. La coscienza di parlare una lingua
6. L’esistenza di un corpo sociale che la consideri come espressione di cultura.

LA LINGUA VENETA

Le prime cinque caratteristiche sono pacificamente presenti nel linguaggio veneto. Troppo lunga sarebbe l’elencazione dei loro tratti, ma basti pensare alla presenza dei suoni come “dh”, “th” e “zh”, all’assenza del passato remoto e alla mutilazione del futuro, al cospicuo contingente di vocaboli assolutamente originali, alla vasta serie di voci latine semanticamente differenziatesi dai continuatori delle stesse basi nelle altre lingue romanze.
Il veneto fu per secoli una vera lingua che servì negli atti notarili, nei rapporti diplomatici, nella storiografia, nella poesia, nel teatro, nella conversazione colta dei ceti più elevati, nelle transazioni internazionali.

Da un’indagine sul Veneto, redatta per ordine di Napoleone nel 1806 da estensori impazienti di poter dimostrare che nulla era il resto del mondo di fronte ai lumi della ragione di estrazione francese, risulta inoltre che “il notissimo bel dialetto tuona maestoso nel Foro”.
Quanto alla coscienza di parlare una lingua, l’esatta dimensione di questa realtà può desumersi dall’alto grado di ostilità contro il veneto, che non sarebbe tale qualora l’avversario da smentire non fosse così grande.
Viene spontaneo chiedersi come mai una tale lingua, come la veneta, possa essere improvvisamente declassata a dialetto per cedere il passo ad un altro dialetto, quello toscano. Nessuna giustificazione è valida, se non quella della costrizione o del gioco di potere. Ma, come si sa, il potere può anche disgregarsi col tempo.
L’attuale situazione e la mentalità che ne deriva riservano dunque al riconoscimento dello Stato l’ultima parola in fatto di classificazione di una parlata come lingua o come dialetto. Se ciò fosse logico, non è da escludere che il romagnolo parlato anche a San Marino possa diventare lingua ufficiale a tutti gli effetti, se il Governo di quella Repubblica lo deliberasse. Ciò è peraltro già avvenuto in Vaticano, dove l’italiano ha soppiantato il latino.
Ritorna spontaneo chiedersi se, con tali presupposti, la differenza tra lingua e dialetto esista davvero, oppure sia solo strumentale a questo o quel potere.

LA CONGIURA CONTRO IL VENETO

Per secoli la contrapposizione linguistica tra città e campagna in Veneto fu molto lieve: tutte le classi parlavano veneto. Più recentemente si manifestò il disegno di imporre il toscano, peraltro già superato dal linguaggio dei politici (l’italiese) e da quello televisivo anche nelle circostanze in cui tale veicolo è tutt’altro che indispensabile, come l’ambito familiare, le comunità agricole, l’artigianato…, settori da sempre ancorati ad una dimensione veneta che ha delineato l’inconfondibile identità di queste colonne della società veneta.

Forse il vero bersaglio non è il modo di parlare veneto (a chi gioverebbe ?), ma la società veneta colpevole di essere dinamica, disciplinata, non incline a subire ricatti ed ottica mafiosi. Si vuole eliminare in fin dei conti un modello di società diverso da quello che si desidera avere.
Le metodiche per realizzare la congiura contro il veneto sono le solite:
– derisione mediante stereotipi di involontaria subalternità (la classica serva!) appartenenti al passato prossimo;
– discriminazione nella scuola e nella pubblica amministrazione;
– svalutazione dei contenuti linguistici propri del popolo veneto.
E’qui il caso di ricordare per analogia il comportamento dei francesi in Algeria durante la colonizzazione. Per convincere gli algerini a rinnegare la propria lingua araba e adottare il francese dei colonizzatori, quest’ultimi ripetevano (a mò di lavaggio del cervello) che l’arabo non era adatto ai tempi moderni, in quanto lingua medioevale sorpassata e incapace di adeguarsi al mondo industrializzato. Ora, stranamente, Parigi è la città con il più alto numero di scuole di arabo in Europa. Come coerenza, non c’è male.
Si traggano le debite deduzioni anche per quanto riguarda l’attuale denigrazione del veneto, intesa a classificare come cittadini di categoria inferiore coloro che lo parlano.

LA PRETESA SUPERIORITA’ DELLE LINGUE MAGGIORITARIE

Si dimentica troppo spesso che l’italiano fu il dialetto di Firenze, come il francese fu il dialetto di Parigi.
Nessun termine di cultura appartiene originariamente a queste lingue, in quanto la quasi totalità dei termini della cultura moderna provengono dal greco, dal latino, dall’inglese o da altre lingue. Parole come “teologia”, “chimica”, “computer”, “scienza”, “nevralgia”…erano parole sconosciute a quanti parlavano toscano qualche secolo fa.
La Columbia University ha compiuto un’indagine sorprendente su un vocabolario etimologico francese contenete ben 4.635 vocaboli base. Eccone i risultati: 2’028 termini provengono dal latino, 925 termini derivano dal greco, 604 vocaboli sono di origine germanica, 154 parole derivano dall’inglese, 96 dal celtico, 285 dall’italiano, 119 dallo spagnolo, 146 dall’arabo, 10 dal portoghese,, 36 dall’ebraico, 4 dall’ungherese, 25 dallo slavo, 6 da lingue africane, 34 dal turco, 99 da differenti lingue asiatiche, 62 da lingue indigene americane, 2 dall’Australia e Polinesia. Parole francesi: zero.
Vocaboli derivati dal latino: il 43%. Poco per una lingua che si definisce neolatina.- E’stato intenzionalmente scelto un esperimento riguardante il francese per non urtare suscettibilità e per amore dell’imparzialità, ma chiunque può, per analogia, giungere a ben altre conclusioni anche rispetto all’italiano.
Dove risiedono, dunque,le motivazioni di una pretesa superiorità di altre lingue su quella veneta? Perché mai la lingua veneta dovrebbe avere un complesso di inferiorità?

RISULTATI DELLA CONGIURA CONTRO IL VENETO

Gli spropositi linguistici ottenuti con lo stemperamento del veneto ad opera dell’italiano sono innumerevoli.Parte di tali risultati è stato purtroppo raggiunta grazie alla passività, alla collaborazione o alla complicità di taluni veneti, il cui autolesionismo supera in ciò perfino la loro tradizionale laboriosità.
I seguenti tre casi possono dare un’idea dei risultati ottenuti:
a) Una mammina rimprovera bonariamente il proprio figlio per aver indossato il pullover in maniera sbagliata: “Ma, Pierino, non vedi che hai infilato su il davanti per il di dietro?”
b) Una zitella in partenza per fare la conoscenza con i futuri parenti, compari,ecc., chiede al ferroviere: “A che ora parte la stazione?”
c) Uno scolaro, con riferimento ai bachi da seta (i mitici “cavalièr”!), che quando diventano gialli non fanno bozzolo, vanno cioè “in vàca”: “Tutti i cavalieri della mia mamma sono andati a puttane”.
d) Un cittadino trevisano, richiesto se gli piacesse la domenica senza automobili, rispose: “piacissimo!” (TG1, 23.01.2005).

CONCLUSIONI

Esiste un interesse estraneo affinché i Veneti siano laboriosi (in modo da pagare tante tasse), stupidi (in modo che altri facciano ciò che vogliono), rinunciatari (in maniera che altri abbiano radio, televisione, giornali, scuole), rassegnati quando la fabbrica chiude (in modo da emigrare senza creare problemi alla gerarchia stabile importata).

Esiste un interesse dei Veneti affinché:
– la lingua materna dei veneti e di ogni altro popolo rimanga lo specchio dell’uomo e il veicolo verbale di ogni gente;
– non si verifichino l’alienazione di se stessi, il naufragio del singolare e il sacrificio dell’identità primigenia;
– i titolari della parlata veneta e di altri linguaggi non diventino tributari del neoimperialismo linguistico, cui corrisponde la crisi del rigetto psichico;
– venga rispettato da tutti il diritto alla parlata locale come momento espressivo prioritario;
– non intervenga la servitù culturale, che non sarà mai origine di miglioramento;
– il linguaggio pubblico non separi dal mondo dei sentimenti, dalla legge del cuore e dalla saggezza della coscienza;
– il monolinguismo alienante non turbi le leggi biologiche ed i limiti ecologici.
Abbandonare la propria lingua materna non significa sbagliare un calcolo, ma deviare la destinazione della vita.

OSSERVAZIONE FINALE

Gli avversari della lingua e dell’identità venete conoscono perfettamente la teoria della penetrazione indolore. Essi sanno anche che cosa significherebbe il risveglio di un popolo di oltre cinque milioni di individui e procedono, perciò, con estrema cautela, fermandosi in caso di resistenza.
La narcosi fa parte della tattica ed è condizione indispensabile durante questa operazione di amputazione, cui il popolo veneto è sottoposto. La narcosi è il nemico da battere, altrimenti si verificherà una perdita ancora maggiore di quella sofferta dal popolo veneto, quando la sua parte migliore fu mandata a morire sul fronte russo…

Prof. Nerio De Carlo

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Lingua Veneta: discorso alla Commissione UNESCO

poster_lingua_venetaIl veneto è una lingua, riconosciuta dalla Regione del Veneto nel 2007 con apposita Legge Regionale e, di recente, anche dall’intero Stato del Brasile (ove si parla il “Talian”,  o veneto-brasiliano).

Manca ancora però il riconoscimento della lingua veneta da parte dello Stato italiano, che già tutela e riconosce 12 lingue “minoritarie” sul suo territorio: l’albanese, il catalano, il germanico, il greco, lo sloveno, il croato, il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.

Di seguito riproponiamo l’intervento di Davide Guiotto tenuto al Convegno internazionale promosso dalla Regione del Veneto e dalla Commissione Nazionale dell’UNESCO sul tema “Il veneto: tradizione, tutela, continuità”, che si è tenuto nel 2011.

Registriamo purtroppo che il riconoscimento ufficiale della lingua veneta da parte dello Stato italiano non è ancora arrivato.


Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questo importante convegno dedicato alla lingua veneta, in particolare l’UNESCO e la Regione del Veneto.
Anche l’Europa si era espressa in passato in merito alla lingua veneta: il commissario europeo per il multilinguismo Leonard Orban aveva espresso infatti vivo apprezzamento per le numerose ed importanti attività che la Regione Veneto stava promuovendo a sostegno della lingua veneta, rassicurando del suo sostegno per il futuro in tutte le azioni riguardanti il multilinguismo. Il commissario Orban aveva dichiarato inoltre, in quell’occasione, che riteneva personalmente il veneto una lingua ma che, per godere di forme di sostegno da parte delle istituzioni europee, tale lingua doveva essere prima ufficializzata e riconosciuta dallo Stato italiano.

Se il parlamento italiano ancora, ahimè, non si è espresso favorevolmente in tal senso, il veneto può comunque già fregiarsi di importanti riconscimenti istituzionali: ricordo ad esempio la (già citata) legge 8/2007, legge regionale che ha di fatto riconosciuto il veneto come vera e propria lingua a livello istituzionale. Ma il veneto è lingua riconosciuta anche in Brasile: attraverso la LEGGE 13.178 il Talian, o veneto brasiliano, è diventato infatti “(Léngua Talian) Patrimònio Stòrico e Cultural del stato del Rio Grande do Sul”, e successivemente analogo riconoscimento è arrivato anche dallo Stato di “Santa Catarina”. Ora è al vaglio dell’intero Stato del Brasile la proposta di riconoscere “El Talian” come “Léngua de Riferensa Nassional e Património Cultural e Imaterial del Brasile”.

L’UNESCO stesso ha di fatto riconosciuto il veneto come lingua nel 1999, a seguito di uno studio dell’Università di Helsinky, inserendola nell’ormai famoso “Libro rosso sulle lingue in pericolo di estinzione”.

Secondo un linguista non esiste differenza fra dialetto e lingua; semmai, come recita il famoso aforisma, “una lingua è un dialetto con un esercito ed una marina”. La differenza quindi si basa sul peso, sociale e politico, che le si vuole attribuire o al contrario negare.

Quanto si sta discutendo qui in questa prestigiosa sede dovrebbe dunque ruotare attorno il seguente interrogativo: “siamo pronti finalmente a dare valore – sul piano sociale, politico e culturale – anche alla lingua veneta, a fianco delle 12 lingue già riconosciute dallo Stato italiano”?
Siamo finalmente maturi per capire l’assurdità di continuare a trattare il veneto come “dialetto dell’italiano” e a riconoscerne invece, finalmente, l’importanza sociale che riveste nella nostra società?
Vogliamo dare il giusto valore ad una lingua dall’illustre tradizione storica, per secoli lingua franca, del commercio e della diplomazia in tutto il mondo di allora?

Siamo finalmente maturi ed obiettivi per capire, senza più tergiversare dietro magari a sterili polemiche, che quella differenza fra dialetto e lingua altro non è che una convenzione frutto di scelte precise di alcune persone?

Il veneto è una lingua, minoritaria in Italia ma maggioritaria nella nostra Regione. La nostra gente, per il 70% della popolazione, secondo dati Istat, pensa in veneto e parla in veneto, ma non ha il diritto di apprenderla e studiarla all’interno dei programmi scolastici, ne’ di vederla degnamente rappresentata nella societa e sui mass-media. E, si sa, trattare una lingua come un dialetto, quasi come fosse un italiano parlato male o una lingua di serie B, genera in chi la parla un senso di inferiorità se non addirittura di vero e proprio rifiuto. Pensiamo solamente a che effetti dannosi e incredibilmente deleteri ha portato un simile condizionamento psicologico fra i parlanti veneti dagli anni ’70 in avanti, con i genitori che addirittura sono arrivati a vergognarsi o a rifiutarsi di insegnare la loro lingua madre ai propri figli. Ebbene, se questo atteggiamento continuerà, se questo tipo di mentalità non cambierà, probabilmente questo potrebbe essere l’ultimo Convegno internazionale dedicato alla lingua veneta.
Una lingua destinata in pochi anni ad una inevitabile estinzione, anche grazie ad un’italianizzazione continua, se non verranno attuate le giuste forme di sostegno e di valorizzazione. Sostegno e valorizzazione che devono partire per prime dalle istituzioni e che vedano finalmente come prima, importante e fondamentale azione il riconoscimento pieno del veneto come vera e propria lingua.

L’invito e l’auspicio che oggi vorrei portare agli organizzatori e ai relatori di questo importante Convegno, è che al termine dei lavori si arrivi alla stesura di un documento unitario attraverso il quale invitare ufficialmente tutte le forze politiche in parlamento a farsi carico e a riconoscere quanto prima la lingua veneta. Un documento sottoscritto da persone di cultura, autorevoli esperti del settore, persone coscienti che esiste l’esigenza di una tutela linguistica anche per il veneto.
E’ un invito non solo mio, personale, ma di tutta la “Commissione Regionale per la lingua e la grafia veneta” di cui sono membro e del “Coordinamento associazioni venete” che rappresento.

Una volta riconosciuta la lingua veneta da parte dello stato italiano sarà possibile intervenire in maniera più continuativa e con un rinnovato slancio per tutte quelle attività finalizzate non solo a mantenere vivo il nostro patrimonio culturale e linguistico veneto – evitandone quindi l’estinzione – ma per dare linfa ed impulso a nuove iniziative fino ad ora insperabili.

Quella del riconoscimento presso il parlamento è un’esigenza e una richiesta forte che nasce dal territorio, trasversale alle ideologie o agli schieramenti.
Una richiesta attorno alla quale ci auguriamo di vedere, da qui in avanti, tutte le forze politiche che ci rappresentano, da destra a sinistra, unite e concordi.

In un’Europa sempre più attenta alle parlate locali e alle diversità culturali, il riconoscimento della lingua veneta sarà una vittoria di tutti.
Grazie.

Davide Guiotto

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Il Presidente Zaia: “Ci vuole rispetto per i veneti. Sette persone su dieci parlano e pensano in veneto”

Anche il Presidente della Regione del Veneto Luca Zaia interviene in merito al dibattito che in questo periodo è nato attorno alla Legge regionale – recentemente approvata – che riconosce i veneti come “minoranza nazionale”, garantendo così nuove forme di tutela anche in merito all’utilizzo e all’insegnamento della lingua veneta.
“Ci vuole rispetto per i veneti. Sette persone su dieci parlano e pensano in veneto, trasversalmente alle classi sociali”; “è ovvio che l’inglese bisogna saperlo, i nostri ragazzi già lo imparano”, nessun problema quindi se i veneti decidono de imparare anche la propria lingua madre all’interno dei programmi scolastici.

 

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Veneto, quando era considerato il moderno inglese

Per motivi ideologici, magari non evidenti neanche all’intellettuale che si pronuncia contro l’ipotesi dell’esistenza di una “lengua veneta” (che pur esiste e gode ottima salute dato che è usata da milioni di venetofoni)) si può dimenticare anche il fatto storico di cui ad esempio parla la studiosa Bruna Mozzi nel suo libro “Venezia e i Turchi”, riedito di recente dal Gazzettino.
L’Autrice ci descrive una situazione durata per secoli, che è continuata anche dopo il tramonto drammatico con l’arrivo della soldataglia napoleonica. L’uso della lingua veneta nell’area adriatica e mediterranea, anche tra etnie diverse, per cui essa divenne una specie di inglese usato per intendersi tra turchi, “greghi”, levantini in genere, oltre ai dalmatini della costa e ai veneti veri e propri. Si usava un veneziano, è vero, ma adattato poi alla località di provenienza di chi lo parlava, per cui era un veneziano spurio, una “lengua veneta” vera e propria.

“Se ti vedi el Gran Turco, parlighe in venezian”, era un motto comune nella Costantinopoli del 500, dove diplomatici ed interpreti potevano comunicare con il Sultano in veneziano, “l’inglese” del Mediterraneo.

Tra il Medio Evo e l’età moderna la progressiva affermazione della Serenissima nel Mediterraneo Orientale era responsabile di una diffusione senza precedenti del veneziano, che veniva capito e spesso parlato e scritto non solo nelle colonie direttamente amministrate da Venezia (come Zara, le Isole Ionie e Creta), ma anche nei territori limitrofi, quindi anche nei possedimenti degli Ottomani.
Complesse ed affascinati sono state le dinamiche delle irradiazioni nell’Adriatico orientale e nel Levante. Complessa è la storia del veneziano che fu una lingua internazionale fino al primo Ottocento, un po’ come l’inglese nell’Ottocento.

Era la lingua internazionale della navigazione, degli scambi internazionali e persino della diplomazia: lo testimoniano da un lato i numerosi documenti conservati all’archivio di Venezia e in molti altri archivi; dall’altro le numerose parole di origine veneziana passate al croato, all’albanese, al greco, all’arabo e al turco.

Ancora oggi, del resto, i turisti veneti in vacanza in Grecia, restano spesso sorpresi dall’aria familiare di molti vocaboli, da ‘karekla’ (sedia) , a ‘katsavidi’, cacciavite, fino a pirouni che nel dialetto greco di Cipro indica ‘forchetta’, cioè il veneziano ‘piron’.

Pubblicato da Millo Bozzolan

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Dibattito sulla lingua veneta: alcune considerazioni di Michele Brunelli

Le recenti dichiarazioni rilasciate ai giornali dalla professoressa Gianna Marcato sulla la lingua veneta, mi danno lo spunto per approfondire l’argomento. Rispetto la sua opinione, ma vi spiego perché dissento.
Primo punto. Secondo la professoressa, «Il dialetto si impara vivendo in una comunità che lo parla». Io considero che oggi molti giovani non hanno l’opportunità di imparare il veneto in famiglia perché non hanno genitori venetofoni. Ci sono genitori veneti che non parlano veneto; ci sono genitori provenienti da diverse parti del mondo dove si parlano altre lingue. Imparare il veneto solo in famiglia/comunità significa «tajar fora» – escludere – chi proviene da ambienti dove non si parla veneto. Noto inoltre che la nostra epoca è l’epoca della parola scritta: email, sms, cartelli, documenti cartacei e digitali. Relegare il veneto al solo ambito orale significa azzopparlo: vuol dire negargli metà della realtà.

Secondo punto. La dialettologa pone la questione della varietà e della codifica di una lingua: «esiste un mosaico di dialetti veneti» dichiara. Ciò sembrerebbe essere un problema. Io noto che anche altre lingue hanno varietà interne. Qui l’argomento si fa necessariamente tecnico, ma cercherò di spiegarmi con tre esempi. 1) In vèneto è un problema l’esistenza della doppia forma «fornaro/fornèr» o della coppia «parlemo/parlòn»? Bene, la lingua spagnola ha doppie forme per il congiuntivo di tutti i verbi: «durmiera/durmiese» (dormissi io), «durmieran/durmiesen» (dormissero) e cosi via per tutte le persone. La lingua ufficiale le accetta: ci sono varianti che possono convivere. 2) In veneto c’è chi dice «tuto» e c’è chi dice «tut». Anche nel piccolo Portogallo esistono variazioni simili: “tudu/tud”. I Portoghesi hanno brillantemente risolto il problema: scrivono «tudo», poi la o finale puoi pronunicarla [tudu] oppure non pronunciarla [tud]. 3) In veneto il numero 100 ha tre pronuncie: «sento», «thento», «tsento». Bene, in spagnolo il 100 suona “sjen” e anche “thjen”. Gli Spagnoli hanno conciliato le due pronunce in un solo segno: scrivono «cien», poi la c puoi pronunciarla [th] oppure [s].
In conclusione, la situazione del veneto è analoga a quella di altre lingue ufficiali. Ci sono variazioni che possono coesistere e variazioni che possono essere conciliate nella grafia senza che una forma “schiacci” le altre. La presenza di varietà non è di per sé un ostacolo alla scrittura, né all’insegnamento. Colgo piuttosto l’occasione per evidenziare una cosa: la ricchezza linguistica del veneto non si esprime solo nella varietà del suo lessico. Il veneto ha anche una sorprendente ricchezza grammaticale: ci sono molte curiosità nascoste nel modo con cui combiniamo queste parole. Regole che noi utilizziamo spontaneamente, ma che costituiscono un’opportunità di riflessione per gli studenti una volta che esse vengono rese “visibili” presentandole e discutendole in classe.
Dott. Michele Brunelli
membro Commissione regionale per la grafia – le opinioni da me presentate in questo articolo sono espresse a titolo personale
link consigliato: il libro di Brunelli sulla grammatica veneta

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Lingua veneta o dialetto? Quando i “dialettologi” rinunciano alla scienza e parlano da politici.

[replica ad un intervento Gianna Marcato; replica inviata a La Nuova in data 3 dicembre 2016] La prof.ssa Gianna Marcato, per declassare la lingua veneta a «mosaico di dialetti», ha recentemente affermato che «L’italiano è diventato tale nel Cinquecento perché alcuni grammatici, supportati da chi gestiva la cultura, hanno decretato che alcuni usi andavano bene e altri no». In effetti, continua la docente patavina di Dialettologia, «Codificare una lingua, significa fissare con una norma esterna chi parla bene e chi parla male».

Ebbene, la prof.ssa Marcato parla male. E’ sufficiente ascoltare un qualunque suo intervento pubblico per accorgersi che non sa parlare italiano corretto: non usa regolarmente il passato remoto, non usa il raddoppiamento fonosintattico, scempia le consonanti, non utilizza le vocali toniche secondo la dizione standard della lingua italiana: in due parole, la prof.ssa Gianna Marcato parla quello che scientificamente è definibile “il dialetto veneto”. Una vera e propria corruzione dell’Italiano standard, un non-italiano e non-veneto contemporaneamente.

A cosa serve definire uno standard imperativo, come pretende la Marcato, se poi nessuno lo usa? Crede forse che Benigni parli lo standard italiano, visto che usa continuamente le aspirate toscane, l’interdentale toscana, e la “g toscana”, che è quella del francese, non dell’italiano? Poi prosegue la prof.ssa Marcato: «una lingua è qualcosa che ha una propria unitarietà codificabile, i dialetti invece sono mille». Mi risulta francamente misterioso comprendere come mai allora il ladino, il friulano ed il sardo, notoriamente ricchissimi di varietà interne, siano stati riconosciuti come lingue dalla legge 482/1999: o la prof.ssa Marcato ha da ridire anche su questo?

Si faccia avanti. La illustre docente vorrà oltretutto spiegarci come mai il veneto è codificato come lingua dall’UNESCO ed è dotato di codice linguistico internazionale: VEC. In realtà, la professoressa Marcato è molto chiara ad esprimere le sue personali motivazioni di contrarietà: «Se voglio codificare un dialetto, devo per forza imporre una varietà sacrificando le altre», e poi aggiunge, «perché è impossibile insegnare un dialetto». In sostanza, la sua è più che altro un’ammissione di incapacità a risolvere la questione dal punto di vista scientifico e glottodidattico, scaricando la responsabilità alla politica.

Spero sinceramente che ella sappia che in area scandinava, per esempio in Norvegia, si è proceduto ad una codifica multistandard della lingua e a scuola la si insegna, cioè si insegna la variante locale e si spiegano gli elementi di diversità delle altre varietà. E’ così difficile da capire? La professoressa Marcato ovviamente non sa, perché probabilmente non le interessa, che quest’anno l’Università di Francoforte ha patrocinato lo studio e la pubblicazione scientifica del primo manuale universitario interamente scritto in lingua veneta, quella “lengua veneta” che la prof. Marcato definisce addirittura «orribile» mostrando la psicologia di un inquietante “odio di sé”, così grave e penetrante da inficiare l’imparzialità del suo giudizio scientifico.

Non saprà nemmeno, che ormai già 500 veneti (e anche stranieri) hanno frequentato il Primo Corso di Veneto, tenutosi in 26 edizioni in 6 province diverse. Sappia che gli allievi hanno utilizzato tutti la stessa dispensa del Corso, hanno studiato il veneto in prospettiva comparatistica, hanno tutti fatto lo stesso test finale e hanno tutti tradotto in veneto, nella propria variante, brani dal De Brevitate Vitae di Seneca. Infine, la invitiamo al Primo Convegno Internazionale sulla Lingua Veneta, che si terrà a Camposampiero in febbraio, patrocinato dal Rotary Triveneto, e con l’intervento di molti suoi colleghi, quali il prof. Moseley (primo linguista dell’Unesco), il prof. Balboni, il prof. Serragiotto, il prof. Ferguson, il prof. Stegmann, il prof. Bertolissi, ed altri docenti da 12 diverse università d’Europa.

Perché se i linguisti veneti vogliono rinunciare al proprio ruolo scientifico e preferiscono fare politica locale, la società veneta prende da sé l’iniziativa e fa cultura vera, fa scienza linguistica, e lo fa in prospettiva internazionale. La aspettiamo al convegno.

dott. Alessandro Mocellin

autore veneto del Primo Manuale Universitario Veneto, pubblicazione scientifica dell’Università di Francoforte
docente dei Corsi di Veneto
Vicepresidente dell’Academia de ła Bona Creansa – Direttore dell’Academia de ła Łengua Veneta

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Le ragioni dell’unità linguistica dei veneti

di Sabino Acquaviva

Ho letto con ritardo l’intervento del 6 maggio di Ugo Suman, il quale sostiene che la lingua veneta non esiste perché vi sono delle differenze fra una città e l’altra, e alla fine sembra pensare che non possiamo parlare neppure di una cultura e di un’identità del popolo veneto. È come affermare che non esisteva un’identità greca perché i dialetti della Grecia antica erano simili ma non identici. Per fortuna quella che viene ricordata come la coinè, cioè l’unificazione dei vari dialetti, ha dato vita al greco antico e a una civiltà millenaria.
I vocabolari di greco antico che si usano a scuola sono la fotografia di questa convergenza di più dialetti in una lingua unitaria, e confesso che questa situazione era la mia disperazione quando studiavo e traducevo dal greco, perché molto spesso le parole avevano due o tre significati (e viceversa), diversi appunto perché provenienti, all’origine, da dialetti differenti. Per questa ragione uno stesso testo finiva per essere tradotto in maniera completamente diversa da studenti differenti.
Con il dominio romano l’identità culturale e linguistica si trasformò in un’unificazione politica che permise ad uno stato greco unitario di essere capace di durare altri mille anni, cioè fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi.
Ma per sostenere la tesi che non esiste un popolo veneto, Suman porta degli argomenti che se fossero validi condurrebbero alla conclusione che non esistono popoli con una loro identità. Ma per fortuna lui stesso osserva che “la storia può essere raccontata in tante maniere, ognuno ne coglie la parte che ritiene più adeguata alla sua verità o alla sua ‘supposta’ verità”. Ho sempre apprezzato e spesso ammirato la difesa di Suman del dialetto padovano, ma anche per questo non capisco il suo desiderio di rifiutare al popolo del Triveneto un’identità culturale, una parziale identità linguistica, una forte presenza nella società europea e mediterranea.
Non so se i veneti si sono mai sentiti un popolo, ma credo che comunque lo fossero. Mi ricordano un po’ la vicenda dei rumeni che, quando nacque la Romania, dovettero scoprire la propria identità latina dopo aver trascorso secoli interi senza rendersi conto della propria origine e del significato dei secoli più lontani della loro storia. Inoltre, non so se gli abitanti delle campagne del Veneto erano più in miseria, come sembra ritenere Suman, di quelli della Catalogna, della Provenza, della Baviera, ecc., non so se avevano più o meno coscienza di essere un popolo, ma penso che oggi questa coscienza si faccia strada da molti punti dei vista. La costruzione dell’Europa unita, come tutti sanno, passa attraverso la riscoperta dell’identità delle culture regionali preesistenti all’emergere devastante dei nazionalismi dell’800 e del ‘900. In quei due secoli le culture di singole regioni divennero culture nazionali, e quindi andarono parzialmente distrutte o soffocate molte culture e lingue regionali come quelle basca, catalana, provenzale, veneta e via dicendo.
Ha ragione Suman, il popolo spesso viveva nella miseria, molte volte sfruttato, dimenticato, ma mi auguro che parli del popolo europeo, anzi dei popoli d’Europa, non soltanto di quello veneto. Oggi il popolo veneto, che prende coscienza della sua identità, come altri popoli europei lavora per costruire al proprio interno una coinè linguistica, e così partecipare alla costruzione dell’Europa dei popoli contro ogni nazionalismo, e ha diritto anche ad una sua lingua unitaria. Ricordo quel che mi diceva mio padre a proposito dei soldati italiani che occuparono la Dalmazia nel 1941: un suo amico veneto andò al ristorante chiedendo una forchetta, nessuno capiva l’italiano, nè sapeva cosa portare, ma quando chiese un piron il cameriere, che era un veneto-dalmata, comprese immediatamente. Tutti i presenti percepirono l’esistenza dell’unità linguistica dei veneti con i dalmati di allora. Certamente, il vicentino è diverso dal triestino, il veronese dallo zaratino che (con la guerra ridotto a poca cosa) ancora sopravvive, ma nell’essenziale sono eguali e sono espressione di una cultura e di un’identità che li unisce, e per questa ragione torno a chiedere che la lingua veneta venga insegnata a scuola. Non so se i vocabolari potranno tener conto delle differenze locali, se una coinè potrà riferirsi soprattutto al veneziano, sono però certo che anche questo lavoro di unificazione linguistica servirà a rafforzare l’identità di un popolo, di chi fece parte di una repubblica che è stata per secoli una grande potenza, di una letteratura che ha avuto in Ruzante e Goldoni due figure particolarmente significative, di una società che possiede caratteri che sono espressione della sua capacità industriale e commerciale, di un livello tecnologico ed economico che ha antiche radici nella storia ed è, anch’esso, parte dell’identità di quel popolo. Adoperiamoci per la nascita degli Stati Uniti d’Europa, ma ricordando che l’unificazione dei popoli del continente richiede anche l’indebolirsi delle identità nazionali e dei nazionalismi, che tanto sangue ci hanno obbligato a versare, e sono ancora un pesante ostacolo alla realizzazione del sogno di un’Europa unita nel nome dei popoli che la compongono.

fonte: Gazzettino, 16 Maggio 2009

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Dialetti a Nordest: si parlano poco, ma sono molto amati e resistono

Il dialetto è in crisi? Come fare per preservarlo? E poi: va preservato? L’Osservatorio sul Nordest, curato da Demos per Il Gazzettino, si interroga su uno dei tratti che ha contraddistinto l’area nel corso del tempo: l’uso del dialetto. Quasi 8 nordestini su 10 (77%) ritengono che nell’arco dell’ultimo ventennio il suo uso sia diminuito, mentre una minoranza ritiene che sia aumentato (5%) o rimasto sostanzialmente uguale (18%).

A fronte di questa crisi, l’opinione (quasi) unanime è che il dialetto vada difeso perché è parte della nostra identità (92%). A contrastarne il declino è chiamata soprattutto la famiglia (74%) e solo una minoranza si rivolge alla scuola (19%) o ad altre forme di trasmissione culturale come libri (5%) e canzoni (2%).

“Ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto.”: così Luigi Meneghello, nel suo capolavoro “Libera nos a Malo” spiega cosa significa avere il dialetto nella propria formazione. Il dialetto, lo scrittore vicentino lo narra bene, è la lingua del cuore del Nordest: in dialetto le cose “sono”, mentre in italiano “sono chiamate”. Perdere questa ricchezza equivale a perdere una parte importante della stessa identità dell’area.

Oggi il rischio è più che concreto: il 77% dei rispondenti percepisce infatti una crisi nell’uso del dialetto rispetto a 20 anni fa, mentre quanti ritengono che si parli di più (5%) o ugualmente (18%) sono una minoranza. L’idea che la sua esistenza vada difesa, però, è plebiscitaria e coinvolge il 92% dei nordestini.

Qual è il mezzo più utile per trasmettere il dialetto alle nuove generazioni? Il primo istituto chiamato in causa è la famiglia: il 74% infatti ritiene sia questo il luogo più idoneo per permettere al dialetto di continuare a vivere. Una estensione tanto ampia si associa anche ad una trasversalità degli orientamenti, che infatti raramente scendono sotto il 70%. Tuttavia, rileviamo che sono soprattutto gli under-25 (78%) o quanti hanno tra i 25 e i 34 anni (80%), oltre che gli adulti tra i 55 e i 64 anni (81%), a convergere maggiormente su questa soluzione. Guardando alle professioni, poi, vediamo come sono soprattutto liberi professionisti (87%), studenti (80%), disoccupati (79%) e impiegati (78%) a mostrare il favore più esteso. Politicamente, rileviamo una maggiore attenzione tra gli elettori di Sel (84%), del Pd e del M5s (78%).

L’ipotesi di affidare alla scuola la trasmissione del dialetto, invece, interessa quasi un nordestino su cinque (19%). Sono soprattutto gli anziani over-65 (26%), gli operai (25%) e i pensionati (24%) a mostrare il favore più esteso, anche se le quote più ampie sono rintracciabili tra gli elettori della Lega Nord (30%) e di Forza Italia (37%).

L’idea che siano libri e canzoni a salvare il futuro del dialetto è sostenuta da una nicchia di intervistati (complessivamente: 7%). La quota tende a crescere tra gli elettori del Pd (12%) e di Sel (16%), oltre che tra quanti guardano ai partiti minori (18%). Molto interessante, però, è che la percentuale tenda a crescere tra i giovani tra i 15 e i 24 anni (12%) e gli studenti (13%), oltre che tra gli imprenditori (17%), segno che c’è interesse in settori che guardano al futuro e su questo stanno, in modo diverso, scommettendo e investendo.

fonte: il Gazzettino
21/11/2015

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Sfatiamo un po’ di luoghi comuni sulla lingua veneta

In questo intervento il dr. Michele Brunelli analizza e risponde a comuni osservazioni erronee che si sentono spesso pronunciare per delegittimare il veneto come lingua e per minimizzarne l’importanza.

Capire l’infondatezza di certi luoghi comuni, frutto spesso di una scarsa conoscenza dell’argomento e a volte di malafede, aiuta non soltanto ad avere una visione più obbiettiva del tema trattato,  ma a rapportarci con esso in maniera più positiva e costruttiva.

1) Ci sono tanti veneti diversi, non c’è il veneto. Per esempio i vicentini dicono te magni, i trevigiani te magna ; a Venezia e nelle città padovane e vicentine dicono ‘a scóea mentre a Verona, Belluno e nei piccoli paesi dicono la scóla…

Sbagliato: ci sono tante varianti venete che in realtà hanno in comune la gran parte delle caratteristiche. Queste caratteristiche comuni a tutte le varianti venete sono, invece, ben diverse da quelle dell’italiano. Per esempio si può dire te magni, te magna, ti magna… ma comunque resta il fatto che tutte le varianti venete hanno il soggetto obbligatorio alla 2nda persona singolare e alla 3rza sing/plur. : cosa che in italiano non succede.
Inoltre, molte differenze tra varianti sono solo apparenti. Spesso sono solo delle pronuncie diverse che si possono rappresentare con una grafia unica. Per esempio la scóla e ‘a scóea si possono scrivere nello stesso modo: la scóla con la L-tajà che si pronuncia in due modi diversi.

2) Però è anche vero che in vicentino-padovano-rovigotto e veneziano preferiscono dire el ga parlà, la ga parlà mentre a Verona, Belluno e in altri posti usano una forma unica l’à parlà ; i primi dicono el xe, la xe mentre i secondi dicono l’è…: visto che ci sono tanti veneti, e non uno solo?

Sbagliato: anche in inglese ci sono dei verbi con forme doppie: si può dire you have oppure you’ve ; he is/he has oppure he’s ecc… e nessuno si è mai sognato di dire che l’inglese non è una lingua unica… Ma lo spagnolo fa anche peggio: si può dire hablase, hablases, hablásemos… o anche hablara, hablaras, habláramos (=parlassi, [tu] parlassi, parlassimo…) cioè ha doppie forme per tutte le persone del condizionale di tutti i verbi regolari: ma nessuno ha mai detto che ci sono due lingue spagnole.

3) Ma, certe volte, le varie parlate venete hanno parole completamente diverse per indicare una stessa cosa. Per esempio alcuni dicono sórzxe mentre altri preferiscono rato e altri ancora morécia (o moréja) : queste non sono semplici differenze di pronuncia.

Vero: ma questo è un fenomeno che si può trovare anche in altre lingue: i famosi sinonimi. Col tempo, poi, alcuni diventeranno più frequenti di altri, o acquisteranno un significato più “elegante” come è capitato tempo fa in italiano. Ma spesso gli scrittori litigano per poche differenze mandando in estinzione tantissime caratteristiche linguìstiche comuni a tutto il veneto.

4) Anche se ci sono differenze, è facile unificare il veneto perché esiste già una “koinè”: quella che si parla nelle città.

Attenzione:
il veneto parlato nelle città è abbastanza unificato…ma è poco veneto e tanto italianizzato. In città tendono a dire chiùdeme la porta invece della forma corretta sàrame la porta. I giovani dicono i sta rivando invece della forma giusta i xe drio rivar ; si sente dire i ce dixe / ce vedémo invece che le forme giuste i ne dixe / se vedémo; e ancora el se xe conprà na màchina invece della forma corretta el se ga conprà na màchina… Se fate caso, invece, tra gli anziani (che conoscono meno l’italiano) e nei paesetti (dove l’italiano è meno parlato), si usa un veneto più genuino e meno corrotto.
Quindi spesso la koinè veneta delle città è un italiano “travestito” da veneto.

5) Ma è inevitabile che il veneto venga sempre più influenzato dall’italiano; che le forme italiane prendano il posto di quelle venete. E` un fenomeno che avviene anche con altre lingue, come per esempio tra italiano e inglese: in italiano si trovano sempre più parole inglesi (e francesi). Non si può pretendere di tornare indietro.

Sbagliato: pensateci. Lo scambio linguistico tra italiano e inglese è uno scambio naturale tra due lingue riconosciute ufficialmente, utilizzate in televisione per film e conferenze, insegnate obbligatoriamente nelle scuole (una in Italia, l’altra in G.Bretagna). Il veneto, invece, non ha questo supporto. Non ha una forma ufficiale, non viene utilizzato nei giornali, non viene insegnato obbligatoriamente a scuola, non ha neanche un canale televisivo ufficiale. Quindi lo scambio tra italiano e veneto non è uno scambio naturale tra due lingue paritarie, ma uno scambio sbilanciato a favore dell’italiano che gode di facilitazioni e del supporto ufficiale dello Stato, della televisione, della scuola. Ma tanti, pensando che questo fenomeno di decadenza sia inevitabile, rinunciano a diffondere il veneto e così contribuiscono ancora di più alla sua estinzione: trasformano una conseguenza in causa. Il famoso “gatto che si mangia la coda”.

6) In ogni caso, che importanza ha la diffusione del veneto? In fin dei conti l’italiano è una lingua più raffinata, più nobile mentre parlare veneto è meno prestigioso.

Sbagliato: la diversità linguistica, in teoria, potrebbe derivare da due cause. 1) da diversità di tipo “grammaticale”, ossìa il fatto di avere regole grammaticali diverse. 2) di tipo “lessicale”, ossìa il fatto di avere magari regole uguali, ma diverse parole per indicare una stessa cosa.
Bene, guardiamo: le differenze grammaticali non rendono una lingua più o meno nobile. Per esempio, l’ italiano non ha il soggetto obbligatorio (si dice canta) ma è lo stesso una lingua di un certo prestigio; l’ inglese e il francese, invece, hanno il soggetto obbligatorio (si deve dire he sings, il chante) proprio come il veneto (si dice el canta) ma nonostante questo non sono meno prestigiose delll’italiano.
Per quanto riguarda le differenze lessicali si può dire la stessa cosa: non producono differenze di prestigio. Per esempio tanti veneti dicono bicier perché credono che goto sia un termine troppo volgare: invece, una lingua europea ufficialmente riconosciuta (il catalano) usa proprio il vocabolo got per tradurre l’italiano “bicchiere”. Anche l’aggetivo inbriaga (inbriago), in veneto è una parola di uso normale mentre il corrispondente catalano embriaga (embriac) appartiene allo stile alto, fa parte di un modo di parlare molto ricercato. Quindi se parole praticamente identiche possono avere “eleganze” diverse in lingue diverse vuol dire che il lessico non è per forza collegato al prestigio. Ancora: tanti ragazzi si vergognano di dire verto, ma in francese si dice tranquillamente ouvert. Il verbo tastar (con il senso di”assaggiare”) ha un corrispondente inglese to taste… Un altro esempio è la parola culo che è apparentemente volgare. Ma in veneto si può anche dire el culo de la màchina, el culo de la botilia dove questo termine ha semplicemente il significato di parte posteriore. (non succede solo in veneto: in fin dei conti di dietro in italiano può aver due signifcati: uno normale ma anche uno più volgare: “dare un calcio nel di dietro” dove di dietro=culo…). E` l’italiano che spesso dà una sola traduzione volgare alle parole venete, mentre in veneto possono esserci due significati, uno volgare e l’altro no.

7) Però l’italiano ha molti termini per indicare oggetti e stili di vita moderni; al veneto mancano. E in generale l’italiano è ricco di parole, il veneto no.

Solo questione di tempo, voglia e onestà: pensate davvero che al tempo dei Romani o di Dante i dizionari contenessero la parola automobile ? E` stata creata quando ce n’è stato bisogno. In vèneto si può fare lo stesso ma spesso, invece, la gente preferisce utilizzare vocaboli italiani perché pensa che siano più eleganti e dopo si lamenta che il veneto non ha parole e che deve prenderle in prestito dall’italiano: gatto che si mangia la coda! Anche perché come si vede al punto (5), molte volte, le varianti venete danno la possibilità di scegliere tra diversi sinonimi per lo stesso oggetto: altro che vocabolario povero! Solo che le differenze dell’italiano vengono considerate ricchezze, quelle del veneto vengono considerate un segno di poca unità: due pesi due misure!

8) Parlare veneto è segno di campanilismo e di chiusura: bisogna aprirsi al mondo.

Proprio per questo: i nostri bisnonni dicevano in veneto butiro / butiéro (=burro). Questo termine è collegato al greco boutyros e che si ritrova in termini moderni come acido butirrico / butyric acid. Addirittura una lingua globale come l’inglese moderno dice tutt’ora butter. I nostri genitori invece ci hanno insegnato che è meglio burro (più simile all’italiano). Avevamo un termine moderno e internazionale e ci hanno insegnato a preferire l’italiano. Cos’è più aperto e internazionale? Il termine veneto (collegato al greco antico, ai moderni neologismi e all’inglese globale) o l’italiano ?

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Veneto: lingua o dialetto? Una lingua è… (parte 1)

Una lingua è la sua oralità, in quanto nasce orale, si trasforma per via orale ed è dichiarata morta quando non ci sono più parlanti (madrelingua). I documenti che essa ha lasciato scritti o registrati nel tempo sono solamente le sue vestigia: ogni registrazione scritta è un’orma, una traccia del passaggio di quella lingua in quel territorio ed in quel tempo. Le difficoltà della paleolinguistica, infatti, sono paragonabili –mutatis mutandis– a quelle della paleontologia: da orme coerenti di un dinosauro possiamo ricavare alcune preziose informazioni, quali la sua struttura (bipede o quadrupede) e la sua stazza, tramite un calcolo dello sprofondamento nel terreno; così un documento può lasciarci testimonianza di un registro linguistico, o comunque notizie lessicali etc…. Trovare invece un fossile intero è paragonabile al rinvenimento di un testo metalinguistico, cioè un testo che va oltre la lingua, generalmente che “spiega” la lingua: si potrà rinvenire magari un trattato di fonetica, un dizionario di lessico e pronuncia, un manuale di grammatica, etc… Insomma, si tratta di inferire da dati non sistematici (linguistici o biologici) le caratteristiche di un sistema che non si conosce, anche con la comparazione con altri sistemi già noti (per esempio verificando la compatibilità di alcune caratteristiche del sistema incognito con le evoluzioni di esso che si trovano nei sistemi presenti, biologici o linguistici, da esso derivanti).

Ecco, dunque, l’importanza scientifica di una strumentazione grafica che sappia produrre impronte fedeli ed univoche del sistema linguistico, altrimenti una lucertola può venir scambiata per un dinosauro e viceversa (cioè si possono ingigantire o sminuire alcuni nodi problematici, della fonetica specialmente).

Venendo invece a trattare di quale sia il ruolo di una lingua “nel presente”, è appena il caso di far notare come una lingua sia in realtà il primo sistema espressivo complesso con il quale l’essere umano neonato si scontra, appena dopo le forme di gestualità e di espressione non articolata (es. pianto, singhiozzo, suzione digitale, etc…). Le capacità e le modalità espressive di ciascuno, insomma, si plasmano tramite la sua lingua madre, e con esse anche lo sviluppo di determinate abilità intellettuali e comportamentali: in parole più semplici, una lingua è di per sé una mentalità. Ciò non comporta che alcune abilità non si sviluppino o si ultrasvilppino, ma che vi sia meno o più terreno fertile in una lingua per tale abilità o mentalità. Si tratta insomma, non di implicazioni logiche o di altre leggi scientifiche esatte, bensì di fattori tendenziali, verificabili e sindacabili unicamente (ove possibile) sul dato aggregato dei parlanti.

Ma veniamo alla domanda di questo capitolo: “lingua o dialetto?”. Beh, in vero, dal punto di vista scientifico, non v’è alcuna differenza. Ogni “sistema concluso di regole grammaticali, sintattiche e morfologiche che si serve di un set lessicale e di un set fonetico” è una lingua. Semmai, sono fattori comparatistici che ci possono far parlare di “dialetto”. Un dialetto, però, non è una “lingua minore/minoritaria”. Un dialetto è, per dirlo con un termine meno esecrato e stereotipato negativamente, una variante di una lingua. Preso, dunque, un fascio (cioè un insieme) di tali suddetti “sistemi linguistici conclusi”, li si può raggruppare secondo canoni di “minor varianza”: minore sarà la varianza, maggiore sarà la vicinanza tra “sistemi linguistici”, fino alla comunione di uno zoccolo così consistente da far tranquillamente parlare di “varianti della stessa lingua”. Ovviamente, tale valutazione deve essere un “tutto sommato”, e ponderata a seconda della rilevanza dei vari fattori, che possono essere non solo grammaticali, morfologici, sintattici, lessicali e fonetici, ma anche geografici e storici: per esempio una forte immigrazione (vedi la lingua veneta negli Stati del Sud del Brasile); la soggezione alla stessa entità politica per un certo periodo (es. bresciano e bergamasco nella Serenissima); il monopolio linguistico di una lingua in un certo settore della conoscenza (es. l’inglese per l’informatica); ed altri simili fattori, raccolti e valutati con una dose di realismo e di buon senso.

Perché, qualcuno si sarà chiesto, specificare queste “quasi-ovvietà”? L’Autore ritiene che si debba mettere un po’ di ordine, non tanto ai concetti accademici, quanto alle conoscenze del cittadino medio, abbandonate a stereotipi che dire ottocenteschi è ancora poco. Vi è però un ostacolo enorme per raggiungere un generale riconoscimento del valore delle lingue locali, ancora scelleratamente definite “dialetti” in senso spregiativo, forse solo in Italia. I Veneti, così come gli altri italofoni, si sono abituati ad un errato esempio di lingua: l’italiano non solo ha una grafia ed una dizione standard, ma anche è una lingua canonizzata e smussata fin dalla creazione, in quanto è una lingua di creazione intellettuale, cioè una lingua nata scritta prima che parlata: artificiale, in una parola. […]

Insomma, il canone ideale di “lingua” non può essere l’italiano, in quanto esso è stato creato, è frutto di un atto volontaristico di pochi, ed è sincretismo intellettuale di altre lingue (principalmente toscano-fiorentino, veneto-veneziano e siciliano, anche se è tutto da vedere, ed uno studio di tenore scientifico non sembra essere mai stato approntato). In poche parole, l’italiano può essere definito, con idea moderna, un “esperanto italico”. Purtroppo, questa mentalità non viene smentita con lo studio scolastico di lingue straniere, in quanto non si dà mai notizia delle variabilità, soprattutto fonetiche e lessicali, che vivono in ogni lingua: studiando l’inglese, giusto per parlare di una lingua straniera “obbligatoria” nelle scuole italiane, allo studente viene insegnato solo l’assetto standard della lingua (nel caso dell’inglese, si insegna la parlata Londinese, cioè della capitale), senza mai nemmeno accennare discorsivamente all’esistenza profusa di varianti. Questo spesso avviene a causa dell’ignoranza del fenomeno da parte dell’insegnante stesso, ma in altri casi viene taciuto (in buona o mala fede): purtroppo, la mentalità linguistica dominante in Italia è che la varietà e la variabilità siano dei difetti, delle degenerazioni, che portino una lingua a “sporcarsi”, ad imbastardirsi. Ecco, nulla di più deviato ed irreale può dirsi di una lingua. Tale mentalità è la più distruttiva in assoluto per la scienza linguistica e per la didattica e l’assimilazione consapevole delle lingue. Questa croce è anche la causa (e l’effetto, in un circolo vizioso) di un insegnamento linguistico troppo incentrato sulla nozionistica lessicale e grammaticale (in senso lato), invece che sulla conversazione in lingua.

Che dire, insomma, del veneto? Dialetto o Lingua? Beh, evidentemente si deve parlare di Lingua Veneta, per ragioni scientifiche, per ragioni storiche, per ragioni sociali. Diamo ora le notizie fondamentali che sostengono la consistenza di tale asserzione (vd. Parte 2).

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Il presente brano è tratto, su autorizzazione dell’Autore, da “Libera Grafia Universale & Dossier sulla Lingua Veneta” (2010), di Alessandro Mocellin, Ed. Scantabauchi. Tutti i diritti restano riservati all’Autore. Qualora si intenda riprodurre altrove brani del testo qui riprodotto, contattare l’Autore scrivendo una mail a liberagrafiauniversale@gmail.com.

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Veneto: lingua o dialetto? Una lingua è… (parte 2)

Perché il Veneto è una lingua: ragioni Storiche e sociali

Con l’espressione “ragioni storiche e sociali” possiamo raggruppare dati statistici e realtà di fatto del passato e del presente che ci consentono di comprendere come l’uso ampio e vario (anche socialmente) della lingua veneta sia persistito e vitale ancor’oggi, pur messa a confronto con la concorrenza sleale dell’italiano e spietata dell’inglese.

Sleale la concorrenza dell’italiano in quanto si è fatto (ed ancora si fa) di tutto per sminuire, ridicolizzare, schernire e soffocare la lingua veneta, insieme alle altre lingue storiche italiche e subalpine, senza neanche tanti complimenti. Questo atteggiamento coloniale è vergognoso da un punto di vista umano, disgustoso da un punto di vista politico e ingrato da un punto di vista culturale. La cultura veneta in tutti i suoi ambiti ha potentemente contribuito al progresso scientifico e culturale dell’Europa intera: la Serenissima aveva una produzione culturale straordinaria e sapeva attrarre nella sua orbita “cervelli” e capitali in fuga da regimi liberticidi o in cerca di “ispirazione” (un Petrarca, un Galileo, un Bruno, un Goethe od un Byron; anche Shakespeare, a quanto rivelerebbero recenti ipotesi), un po’ come gli Stati Uniti d’America quando in Europa imperversavano i totalitarismi, così come al giorno d’oggi. Se ciò non bastasse, esponenti grandissimi della teorica della lingua comune italica (poi chiamata italiano) furono i veneti Pietro Bembo (veneziano di nascita, trevisano d’adozione) e Gian Giorgio Trissino (vicentino, seppur poi esiliato per questioni politiche). Il contributo non fu unicamente intellettuale, ed oltretutto non per una creazione linguistica ritenuta estera, bensì un contributo anche in termini di prestiti linguistici, specie in registro alto, e di prestigio, anche presso le corti europee e non solo: “anca al Sultàn, parlèghe in venesiàn” era il consiglio agli ambasciatori ed ai diplomatici della Serenissima, segno di potere, sicurezza, fierezza. Più che di “prestiti” dal veneto all’italiano, visto l’odierno sprezzo italiano per la lingua veneta, forse dovremmo cominciare dunque a parlare di “furti”.

Dall’altra parte invece la spietata concorrenza dell’inglese. V’è da dire però una cosa fondamentale: la concorrenza dell’inglese è giustificata, nel senso che esso si è diffuso “per merito”, conquistando sul campo interi settori di conoscenza (es. la tecnologia). Questo inoltre è un tipo sano di concorrenza linguistica, in quanto l’inglese non pretende assolutamente di sostituirsi in toto alle altre lingue, ma si sta pian piano sovrapponendo, come lingua franca, cioè una lingua “in più, aggiuntiva” per la “sicura comunicazione” tra due persone che non hanno altre lingue in comune: quindi con un criterio di impiego residuale. L’italiano, invece, è nato storicamente come creazione intellettuale (quella sorta di “esperanto italico” di cui si è già parlato) al fine di diventare “lingua franca” tra i diversi popoli, non lingua unica ed esclusiva dei diversi popoli storici poi raggruppati nel toponimo politico “Italia”. La vera differenza tra il progetto di “italiano” umanistico-rinascimentale e quello poi attuato in epoca savoiarda sta forse proprio qui: nessuno pensava all’imposizione dell’italiano a danno delle lingue storiche, così come nessun intellettuale auspicava la sottomissione di tutti gli “italiani” ad un solo regno (men che meno manu militari, come è invece avvenuto), ma si optava per una federazione o per una confederazione, ritenendo folle e deleterio il voler riunire sentimenti, mentalità, diritti, economie e culture così diversi. L’idea dell’“italiano” come lingua degli “italiani” è sicuramente antica, mentre è moderna e giacobina l’idea che quel “volgare illustre” che Dante riteneva di dover creare, poi chiamato “italiano”, fosse da imporre a scapito assoluto delle prestigiose lingue storiche della penisola, della pianura padana e delle valli alpine, fino ad augurarne la morte, non naturale, ma violenta, in nome della lingua “una ed indivisibile”.

La principale motivazione portata per giustificare tale progetto è sostanzialmente quella di un intrinseco “minor valore” delle lingue “locali” rispetto all’italiano, in una assurda visione gerarchica tra lingue, dalla quale è poi scaturita quasi spontanea l’idea popolare che veneto, siciliano, napoletano, etc. siano “brutte copie locali” dell’italiano, quasi dei prodotti di massa derivati dall’ignoranza della vera lingua, cioè l’italiano.

Di per sé, fare una graduatoria delle lingue “importanti”, magari per decretare l’inutilità di certune, è come fare una graduatoria di gusto nei diversi piatti. I fattori da valutare sarebbero talmente tanti, vari e soggettivissimi da rendere inutile proprio tale graduatoria, specie visto che in fondo si andrebbe a disquisire su semplici opinioni, e “de gustibus non disputandum est”. Bisognerebbe considerare la finalità espressiva, il mezzo, il mittente ed il destinatario, il contenuto in sé e, soprattutto, i soggettivi significati e le intime emozioni che in maniera puramente soggettiva il mezzo linguistico specifico sa suscitare, specialmente sui madrelingua.

Si può limitare il campo specificando almeno dei settori di conoscenza, dei periodi storici e delle aree geografiche, così da poter individuare eccellenze, per dire che la lingua della tecnologia di oggi è sicuramente l’inglese, della diplomazia fu un tempo il francese (oggi ancora l’inglese), dei commerci mediterranei fu il veneto-veneziano, del diritto è stata per lunghissimo tempo il latino, della filosofia grandemente il greco antico ed il tedesco più recentemente, del cinema l’americano, della lirica massimamente l’italiano, dei manga il giapponese, etc… Bene, di tutte le altre lingue “non eccellenti” vogliamo dunque far piazza pulita? A qualcuno potrebbe venire l’insana tentazione di dir di sì, che in fondo il resto è triviale vita quotidiana: casa, bottega, campagna, piazza, mercato. Dimenticano costoro varie cose. Innanzitutto che tutte queste eccellenze sono in realtà ben accompagnate da prodi “secondi e terzi classificati”, e che nella storia nessun elenco può avere pretese di esaustività e di sempiterna verità, perché il mondo si evolve; secondariamente che in tutte le lingue (pur non grandemente eccellenti ed altisonanti) v’è una naturale e preziosissima produzione di arte poetica, prosaica, teatrale, musicale; infine, anche se fossero tali lingue –ma non lo sono– limitate a casa-piazza-bottega, questi sono gli ambiti più naturali, primi e primari per qualsiasi essere umano. Pertanto, anche il solo pensare di far piazza pulita di una sola lingua è un abominio, una violenza culturale, una distruzione dolosa di un patrimonio materiale ed immateriale di cui nessuno può conteggiare l’entità.

Ecco, tornando al nostro caso dopo queste giuste precisazioni generali, il Veneto come lingua ha avuto eccellenze culturali degne delle altre lingue europee, in produzione artistica e scientifica ed in prestigio. Oggi, invece, più che fiorire come ha liberamente fatto durante la Serenissima, esso deve “resistere” alla sleale concorrenza di un italiano monopolista (con la forza) della burocrazia, dei media, delle scuole, delle accademie e di tutto ciò che è pubblico. Un monopolio, però, non “neutro”, bensì intenzionalmente avanzante e volontariamente distruttivo nei confronti delle lingue storiche italiche e subalpine, relegandole con assurde giustificazioni accademiche a “dialetti” (con termine assolutamente scorretto dal punto di vista scientifico) e caricando il termine “dialetto” con un significato negativo e sordido che forse in nessun’altra lingua ha assunto.

[…]

Oggi la lingua veneta è molto utilizzata ed un recente studio Istat (pubblicato nel 2007) ci rivela che solo il 24% dei cittadini della Regione Veneto parla unicamente in italiano: tre quarti della popolazione la lingua veneta la comprendono, la usano o la saprebbero utilizzare, a diversi i livelli sociali e professionali ed in diversi contesti. Tale studio segnala anche che nella fascia degli studenti –la più educata nell’italiano– un generale aumento di attenzione per le lingue locali.

In Veneto, anche gli immigrati spesso apprendono la lingua veneta proprio per necessità di lavoro e di relazione, mentre gli immigrati italiani sono molto più restìi ad apprenderla, forse a causa delle campagne denigratorie contro i “dialetti” in genere, e della cultura veneta in particolare, bistrattata e ridicolizzata con rara viltà, anche e soprattutto negli àmbiti e con i mezzi del servizio pubblico, cioè denigrandoci con le tasse prelevate dalle nostre ricchezze frutto del nostro sudore e del nostro ingegno.

L’enorme emigrazione veneta all’estero, poi, è stata quasi una diaspora (fenomeno sconosciuto ai Veneti, anche sotto la dominazione asburgica) cominciata subito dopo l’arrivo dello Stato italiano e continuata fino al secondo dopoguerra, con la parentesi dell’emigrazione “interna” nel ventennio fascista che vede i Veneti spediti a bonificare le paludi dell’Agro Pontino ed a rendere coltivabili campagne intere in Sardegna.

Il veneto, dunque, si è diffuso quasi in ogni continente, portato con amore da chi era costretto ad abbandonare la propria ricca terra per tristi scherzi di un destino che ha voluto portare un tremendo ciclo di miseria ad una terra che per mille anni aveva creato e mantenuto uno standard sopra la media europea, per ricchezza, condizioni di vita, cultura. Troviamo oggi comunità piccolissime, di dimensioni interfamiliari, di parlanti veneto in ogni Stato d’America, in Australia, persino in Africa. Ma le due comunità venetofone più conosciute sono l’enclave in terra messicana di “Chipilo” [(leggi LGU: /Tsjipìlo”)] ed i due Stati più a Sud della Federazione del Brasile, ossia Santa Catarina e Rio Grande do Sul. In tali Stati la comunità venetofona è particolarmente consapevole della propria differente identità, frutto di una forte migrazione di Veneti nel corso delle ultime decadi dell’Ottocento. Tale lingua veniva chiamata “Talian”, nome che, pur suggerendo il significato di “italiano”, tradisce con somma evidenza gli accidenti generali veneti di aferesi della vocale iniziale non accentata e di apocope della vocale terminale del maschile singolare. Inoltre, ad un Veneto odierno “di madrepatria” che interagisca con i parlanti di questo c.d. “Talian” pare veramente di parlare un veneto più arcaico, più puro, ed in effetti si tratta della lingua dei nonni dei nostri nonni. Lo si nota soprattutto da certi “dinosauri lessicali”, perché per il resto la parlata è assolutamente comparabile a quella dell’alto Veneto (tra Belluno e Montebelluna, grossomodo). Ovviamente, i parlanti veneto-brasiliano utilizzano simbologie grafiche del portoghese, lingua con cui sono stati alfabetizzati dalle scuole. Allo stesso modo, a Chipilo il veneto si scrive con la grafia spagnola. Identicamente, in Veneto il veneto viene usualmente scritto con la grafia italiana. Questa è una prova evidentissima, se ancora ce ne fosse bisogno, del fatto che l’unità di una lingua si vede dalle caratteristiche della sua oralità, e la grafia (standard o non standard, l’una o l’altra) conta ben poco ai fini dell’integrazione di un modello ideale di “lingua”. La grafia, insomma, dovrebbe invece essere mezzo di trascrizione dell’oralità, congegnata per dare una testimonianza scritta veritiera e fedele.

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Il presente brano è tratto, su autorizzazione dell’Autore, da “Libera Grafia Universale & Dossier sulla Lingua Veneta” (2010), di Alessandro Mocellin, Ed. Scantabauchi. Tutti i diritti restano riservati all’Autore. Qualora si intenda riprodurre altrove brani del testo qui riprodotto, contattare l’Autore scrivendo una mail a liberagrafiauniversale@gmail.com.

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Venetian (or Venetan) language

The Statute of Veneto Region cites the “Venetian people” and UNESCO gives to Venetian language the status of not endangered language, as it is usually spoken in Veneto, part of Friuli-Venezia Giulia, part of Croatia, Rio Grande do Sul and Santa Catarina in Brazil; and Chipilo, Puebla in Mexico.

In 2007 Veneto recognized Venetian as official language of the region, alongside Italian, instituted an official website for standard Venetian and proclaimed a yearly “Day of the Venetian People” (Festa del Popolo Veneto) on 25 March, anniversary of the foundation of Venice.

While support for a federal system, as opposed to a centrally administered State, receives widespread consensus in Veneto, support for independence is less favoured. One poll estimated that 52.4% of Padanians north of the Po river consider secession advantageous (vantaggiosa), and 23.2% both advantageous and convenient (auspicabile). Another poll estimated that about 20% Padanians (18.3% in North-West Italy, 27.4% in North-East Italy) support secession in case Italy is not reformed into a federal State. However, according to a more recent poll (January 2010), 45% of Northeners and 52% of Venetians (including Friuli-Venezia Giulia and Trentino support the independence of Padania and, thus, in the case of Venetians of Veneto.

In the 2010 regional election, Liga Veneta was by far the largest party in the region with 35.2% of the vote, while its leader Luca Zaia was elected President of Veneto by a landslide 60.2%. The combined result of Venetist parties was 37.6%, the highest ever.

Soon after the 2010 regional election, Daniele Stival (Liga Veneta), new regional minister for Venetian Identity, appointed a commission of experts which will fix the rules of standard Venetian and the official Venetian names of all 581 municipalities of Veneto. The commissioners include: Rodolfo Delmonte, linguist; Gianfranco Cavallin, writer and linguist close to Raixe Venete; Sabino Acquaviva, sociologist and avowed Venetist; Michele Brunelli, linguist; Lodovico Pizzati, economist and secretary of Veneto State; Davide Guiotto, president of “Veneto Nostro – Raixe Venete”, on behalf of the Venetist movement.

Source: Wikipedia

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Insegnamento della Lingua Veneta a scuola

Egregio Direttore,

le polemiche suscitate in questi giorni attorno al tema dell’insegnamento della lingua veneta non mi sorprendono. Abituati – come ci hanno abituati – a vedere la nostra cultura come un elemento di poco conto, di serie B magari se paragonata ad altre come quella italiana, siamo di fronte a discorsi già sentiti, preconfezionati e venduti da 140 anni in quella fabbrica sforna-italiani che è la scuola di stato. “Fatta l’Italia bosogna fare gli italiani” ammonì a quel tempo preoccupato un certo Massimo d’Azeglio… ma prima dell’Italia, che per i Veneti esiste da 143 soli anni, cosa c’era? Che culture? Che lingue? Ebbene, il veneto era lingua internazionale e lo è stato per secoli, parlato negli scambi commeriali ma anche come lingua franca e della diplomazia.
Oggi invece, che dobbiamo sentirci per forza italiani, trattiamo la nostra lingua come dialetto o, come credono i nemici della nostra cultura, come un italiano parlato male.
“Impariamo i congiuntivi piuttosto del dialetto”, “impariamo l’inglese piuttosto…” e altre sterili polemiche nascono solo dall’ignoranza culturale di chi le dice. Mi chiedo, e come me tanti altri veneti le assicuro, perché se si parla di insegnare i veneto a scuola lo si deve paragonare ad altre culture? Non possono coesistere forse insegnamenti culturali diversi fra loro? Non abbiamo forse il diritto di apprendere chi siamo stati e chi siamo?
Che gli italiani non sappiano i congiuntivi cosa centrerebbe con l’insegnamento del veneto? Facciano un mea-culpa, dicano che i loro metodi di insegnamento fanno pena ma non tirino in ballo per cortesia la nostra cultura.
Vede, forse non tutti sanno che la lingua veneta non è fatta solo di lettere, una a fianco all’altra. E’ fatta di espressioni, proverbi, modi di pensare e di esprimersi specchio di una saggezza popolare che è nostra e che ci è stata tramandata come un valore prezioso.
“Quale veneto insegnare?”, anche qui purtroppo ci si arena con una facilità disarmante. Sarei curioso di sentire da tanti denigratori del veneto quale è la lingua al mondo parlata uniformemente su tutto il suo territorio. Nessuna, perché tutte le lingue con una antica storia alle spalle hanno forti tradizioni orali e nel tempo si sono caratterizzate localmente con accenti, finali di parole o espressioni tipiche. E con questo? Si tratta di una debolezza e di una prova che la lingua non esiste, o piuttosto sono piccole ricchezze che arricchiscono un patrimonio linguistico?
Il concetto è semplice: anche per il veneto ci si accorderà per una variante di riferimento, esattamente come è stato fatto per la maggioranza dei casi nel mondo, lasciando facoltà alle varianti locali di venire insegnate assieme parallelamente, evidenziando i punti in comune o le differenze ove possono emergere. E’ così difficile da comprendere?
Insegnare il veneto a scuola è una proposta che arriva tardi, dopo 143 anni di censura e svilimento continuo e pesante da parte della scuola italiana. Insegnarla per qualche ora nei programmi scolastici significa riscoprire la nostra anima, i valori di chi è venuto prima di noi e, diciamolo, significa tornare a volerci bene, finalmente! Perché per troppo tempo siamo stati additati come i veneti-egoisti, i veneti-razzisti, i veneti-evasori. Ma sa cosa le dico? Io non sono così. La mia gente è differente. La mia gente merita rispetto e se altri popoli ci insegnano che valorizzare la propria lingua insegnandola alle nuove generazioni – come accade in Catalogna da 30’anni – porta benefici e una maggior coesione sociale, oltre che diventare strumento di integrazione con le altre culture, allora io dico ben venga che i nostri figli sappiano chi sono, chi sono stati i loro predecessori e quale è la loro prima lingua madre.
E vedrà, così facendo saremo di nuovo attivi protagonisti in un mondo a cui la nostra cultura può ancora regalare molte ricchezze.
Ma dobbiamo partire da noi, abbattendo preconcetti ed aprendo gli occhi sulla vera realtà delle cose: e cioè che l’insegnamento del veneto è un processo naturale e un diritto che ci spetta, una ricchezza a cui io, personalmente, non voglio più rinunciare.

Davide Guiotto
Ass.ne Veneto Nostro – Raixe Venete
portavoce Coordinamento Associazioni Venete CAV

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L’identità e la cultura del popolo veneto

Egregio direttore, mi permetta di comunicare l’amarezza provata dalle parole che uno studioso padovano ha scritto in questi giorni al “Gazzettino”, a riguardo de “L’improbabile unitarietà dei veneti”.

Egregio direttore,

mi permetta di comunicare l’amarezza provata dalle parole che uno studioso padovano ha scritto in questi giorni al “Gazzettino”, a riguardo de “L’improbabile unitarietà dei veneti”. Mi permetta però, da laureato in storia veneta, di sottolineare il fatto che ciò che scrive è sì in buona parte vero (anche il sottoscritto, pur non avendo un’età anagrafica avanzata, ha avuto modo di fare una serie di ricerche sull’isolamento e la vita dura dei contadini veneti), ma tutto ciò è appunto una “parte” della storia veneta che si è voluta sottolineare, tralasciando altri e fondamentali elementi, talvolta opposti a questi.

Ricordo a chi non ha letto l’intervento in questione che vi sono affermazioni del tipo di: “lingua veneta dichiarata, questa non esiste”, “fantomatico popolo veneto… semianalfabeta o analfabeta del tutto… i più non sapevano nemmeno di essere veneti…. l’unità (del popolo) che si riferisce in gran parte alla potenza della Serenissima, non c’è mai stata”. Si potrebbero sul piano storico ribattere facendo tutta una serie di rilievi e ricordando una serie di manifestazioni popolari (e non d’èlite come dice il nostro autore) a sostegno dello stato di San Marco minacciato dagli eserciti stranieri, come dopo la sconfitta della Serenissima nel 1509 ad Agnadello o come nel 1809 tutte le insorgenze che avvennero nei nostri paesi contro i napoleonici invasori; quest’anno ricorre il cinquecentenario ed il bicentenario di entrambe, e non sarebbe male ricordare anche queste cose ai veneti di oggi.

Sul piano linguistico basta leggere tutti gli studi del compianto prof. Cortellazzo, recentemente scomparso, il quale se certo sottolineava le differenze presenti nelle varianti locali venete ripeteva spesso che oltre il 90% delle parole venete sono uguali o quasi uguali in tutta la regione, e allora come si può dire che questa non è una lingua? Gli esempi sul piano storico e culturale potrebbero essere molteplici, per non tediare i nostri lettori vorrei invece spostare la questione sul piano del cuore, pieno di tristezza nel vedere come molti cittadini veneti, anche tra i più colti, non sentono o non vogliono riconoscere la loro identità, la loro storia e la loro lingua; presentando la nostra storia unicamente come quella di chi “viveva nella miseria” si fa di certo il gioco di chi, magari avendo una conoscenza sommaria dell’identità del proprio “popolo” (mi permetta direttore una battuta: se non è mai esistito un “popolo veneto”, può mai esistere “un popolo italiano”?) la sfruttano per fini d’interesse di bottega; se era questa la preoccupazione che sta a monte dello scritto del nostro autore, allora essa è sicuramente condivisibile.

prof. Daniele Marcuglia
Zero Branco (Treviso)

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Il veneto è espressione di una Nazione

[…] leggo nel Gazzettino di sabato 31 maggio l’intervento del senatore Maurizio Castro relativo al dibattito sulla lingua veneta e sull’insegnamento della stessa.
Devo dire che, mentre nel passato ho apprezzato alcune lucide analisi economiche del senatore, questa volta le sue tesi mi lasciano alquanto… perplesso.

Egregio Direttore,
leggo nel Gazzettino di sabato 31 maggio l’intervento del senatore Maurizio Castro relativo al dibattito sulla lingua veneta e sull’insegnamento della stessa.
Devo dire che, mentre nel passato ho apprezzato alcune lucide analisi economiche del senatore, questa volta le sue tesi mi lasciano alquanto… perplesso.

Vediamo schematicamente alcuni passaggi:

1) il senatore sottolinea la “falsificazione mitografica di un passato mai esistito (quale la Padania o la celticità del Nord-Italia)” da parte della Lega: condivido. Ma qui stiamo parlando di Veneto, di storia, di lingua e di identità veneta, di un popolo che dal 1.200 a.C. ha plasmato questa terra dandogli il proprio nome.
Il Veneto è, a tutti gli effetti, una nazione storica d’Europa, come la Bretagna, la Baviera, la Catalunya ecc. e come tale va considerata;
2) passa poi a definire la lingua italiana “patrimonio identitario della Nazione, come tale romana e cattolica”. L’Italia è uno stato, non una nazione, e all’interno di questo stato convivono vari popoli, dal veneto al sardo, dal tirolese al ligure. Il tentativo di ridurre tutto questo straordinario patrimonio di culture e di identità a “un popolo, una storia, una lingua” che ha avuto la sua massima espressione nel ventennio fascista ha provocato guasti inenarrabili. In particolare come Veneti, abbiamo avuto la nostra storia, una repubblica indipendente per 1.100 anni che, come scrisse Montanelli fu “una civiltà non italiana (quale la Serenissima mai fu né mai si sentì), ma europea e cristiana”.
3) Il senatore chiude l’intervento auspicando la “riscrittura ufficiale della Nazione nel 2011 in occasione del 150 anniversario dell’Unità d’Italia”. Benissimo, ma si tenga presente che il Veneto entrò a far parte del Regno d’Italia nell’ottobre del 1866, dopo un plebiscito-truffa. Cosa abbiamo da festeggiare noi Veneti nel 2011?
4) E’ sbagliato e ingiusto ricondurre alla sola Lega Nord l’impegno di tante venete e veneti per la difesa e la valorizzazione della lingua veneta; un impegno che parte dalla fine degli anni settanta con la nascita della “Società Filologica Veneta” e che continua fino ai nostri giorni attraverso un arcipelago di movimenti e associazioni solo in minima parte riconducibili alla Lega; anzi per diverso tempo il gruppo dirigente leghista, Umberto Bossi in testa, ha contrastato l’uso della lingua veneta, così come della bandiera veneta in quanto ostacoli all’affermazione di una identità “padana”.
5) Chiudo citando quanto scriveva, oltre trent’anni fa, il Consiglio d’Europa nel preambolo della “Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie”, ove si afferma il “il diritto delle popolazioni ad esprimersi nelle loro lingue regionali o minoritarie nell’ambito della loro vita privata e sociale costituisce un diritto imprescrittibile” e più avanti “la difesa e il rafforzamento delle lingue regionali o minoritarie nei vari paesi e nelle varie regioni d’Europa, lungi dal costituire un ostacolo alle lingue nazionali, rappresentano un contributo importante all’edificazione di un’Europa basata sui principi di democrazia e di diversità culturale”.

Ettore Beggiato

Studioso e ricercatore

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Le ragioni dell’unità del popolo veneto

Ho letto con ritardo l’intervento del 6 maggio di Ugo Suman, il quale sostiene che la lingua veneta non esiste perché vi sono delle differenze fra una città e l’altra, e alla fine sembra pensare che non possiamo parlare neppure di una cultura e di un‘identità del popolo veneto. È come affermare che non esisteva un’identità greca perché i dialetti della Grecia antica erano simili ma non identici.

di Sabino Acquaviva – sociologo

Ho letto con ritardo l’intervento del 6 maggio di Ugo Suman, il quale sostiene che la lingua veneta non esiste perché vi sono delle differenze fra una città e l’altra, e alla fine sembra pensare che non possiamo parlare neppure di una cultura e di un‘identità del popolo veneto. È come affermare che non esisteva un’identità greca perché i dialetti della Grecia antica erano simili ma non identici. Per fortuna quella che viene ricordata come la coinè, cioè l’unificazione dei vari dialetti, ha dato vita al greco antico e a una civiltà millenaria.
I vocabolari di greco antico che si usano a scuola sono la fotografia di questa convergenza di più dialetti in una lingua unitaria, e confesso che questa situazione era la mia disperazione quando studiavo e traducevo dal greco, perché molto spesso le parole avevano due o tre significati (e viceversa), diversi appunto perché provenienti, all’origine, da dialetti differenti. Per questa ragione uno stesso testo finiva per essere tradotto in maniera completamente diversa da studenti differenti.
Con il dominio romano l’identità culturale e linguistica si trasformò in un’unificazione politica che permise ad uno stato greco unitario di essere capace di durare altri mille anni, cioè fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi.
Ma per sostenere la tesi che non esiste un popolo veneto, Suman porta degli argomenti che se fossero validi condurrebbero alla conclusione che non esistono popoli con una loro identità. Ma per fortuna lui stesso osserva che “la storia può essere raccontata in tante maniere, ognuno ne coglie la parte che ritiene più adeguata alla sua verità o alla sua ‘supposta’ verità”. Ho sempre apprezzato e spesso ammirato la difesa di Suman del dialetto padovano, ma anche per questo non capisco il suo desiderio di rifiutare al popolo del Triveneto un’identità culturale, una parziale identità linguistica, una forte presenza nella società europea e mediterranea.
Non so se i veneti si sono mai sentiti un popolo, ma credo che comunque lo fossero. Mi ricordano un po’ la vicenda dei rumeni che, quando nacque la Romania, dovettero scoprire la propria identità latina dopo aver trascorso secoli interi senza rendersi conto della propria origine e del significato dei secoli più lontani della loro storia. Inoltre, non so se gli abitanti delle campagne del Veneto erano più in miseria, come sembra ritenere Suman, di quelli della Catalogna, della Provenza, della Baviera, ecc., non so se avevano più o meno coscienza di essere un popolo, ma penso che oggi questa coscienza si faccia strada da molti punti dei vista. La costruzione dell’Europa unita, come tutti sanno, passa attraverso la riscoperta dell’identità delle culture regionali preesistenti all’emergere devastante dei nazionalismi dell’800 e del ‘900. In quei due secoli le culture di singole regioni divennero culture nazionali, e quindi andarono parzialmente distrutte o soffocate molte culture e lingue regionali come quelle basca, catalana, provenzale, veneta e via dicendo.
Ha ragione Suman, il popolo spesso viveva nella miseria, molte volte sfruttato, dimenticato, ma mi auguro che parli del popolo europeo, anzi dei popoli d’Europa, non soltanto di quello veneto. Oggi il popolo veneto, che prende coscienza della sua identità, come altri popoli europei lavora per costruire al proprio interno una coinè linguistica, e così partecipare alla costruzione dell’Europa dei popoli contro ogni nazionalismo, e ha diritto anche ad una sua lingua unitaria. Ricordo quel che mi diceva mio padre a proposito dei soldati italiani che occuparono la Dalmazia nel 1941: un suo amico veneto andò al ristorante chiedendo una forchetta, nessuno capiva l’italiano, nè sapeva cosa portare, ma quando chiese un piron il cameriere, che era un veneto-dalmata, comprese immediatamente. Tutti i presenti percepirono l’esistenza dell’unità linguistica dei veneti con i dalmati di allora. Certamente, il vicentino è diverso dal triestino, il veronese dallo zaratino che (con la guerra ridotto a poca cosa) ancora sopravvive, ma nell’essenziale sono eguali e sono espressione di una cultura e di un’identità che li unisce, e per questa ragione torno a chiedere che la lingua veneta venga insegnata a scuola. Non so se i vocabolari potranno tener conto delle differenze locali, se una coinè potrà riferirsi soprattutto al veneziano, sono però certo che anche questo lavoro di unificazione linguistica servirà a rafforzare l’identità di un popolo, di chi fece parte di una repubblica che è stata per secoli una grande potenza, di una letteratura che ha avuto in Ruzante e Goldoni due figure particolarmente significative, di una società che possiede caratteri che sono espressione della sua capacità industriale e commerciale, di un livello tecnologico ed economico che ha antiche radici nella storia ed è, anch’esso, parte dell’identità di quel popolo. Adoperiamoci per la nascita degli Stati Uniti d’Europa, ma ricordando che l’unificazione dei popoli del continente richiede anche l’indebolirsi delle identità nazionali e dei nazionalismi, che tanto sangue ci hanno obbligato a versare, e sono ancora un pesante ostacolo alla realizzazione del sogno di un’Europa unita nel nome dei popoli che la compongono.

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Un Popolo che muore…

[…] perché lingue minori come l’estone, la lettone, la lituana, la danese, l’olandese, ci sono ancora e la lingua veneta, che ha molti più parlanti “, ed ha la dignità di una lingua che è stata lingua internazionale, lingua franca, parlata e scritta in diversi stati, anche fuori d’Italia,” non è riconosciuta?…

Prefazione di Sabino Acquaviva al libro Gli Ultimi Veneti – di Gianfranco Cavallin

Questo libro racconta la storia di un popolo che muore, ma lo fa mentre qualche cosa ancora vive di quel popolo, anche se forse si tratta soltanto dei relitti di un naufragio. Tuttavia, l’interesse del libro è proprio, o meglio anzitutto, in questo fatto. Leggere le pagine di Cavallin suscita sentimenti contraddittori,e forse è questo il loro fascino. Si segue con raccapriccio la distruzione di uno stato, anzi di un impero, quello veneziano. La prima parte è una specie di sintesi di eventi politici e militari che hanno segnato il destino successivo di queste terre. Ma insieme alla Repubblica di Venezia, e questa è la cosa più triste, si capisce che si perde l’identità del popolo veneto, lentamente ma inesorabilmente. Di fronte alla tragedia che stiamo vivendo, Cavallin si pone subito le domande chiave. La prima: “perché è scomparso uno stato importante come la repubblica veneta? “ La seconda: “perché lingue minori come l’estone, la lettone, la lituana, la danese, l’olandese, ci sono ancora e la lingua veneta, che ha molti più parlanti “, ed ha la dignità di una lingua che è stata lingua internazionale, lingua franca, parlata e scritta in diversi stati, anche fuori d’Italia,” non è riconosciuta?”
Certamente, la causa prima di tutto questo è nell’obbrobrio del trattato di Campoformio. E questo fu opera di Napoleone primo, il distruttore della repubblica di Venezia. E pensare che qualcuno ha proposto, ignorando la storia, di erigere un monumento a memoria di chi ha sepolto, insieme la repubblica di Venezia, la sua specficità culturale e la sua lingua, saccheggiando e trafugando i tesori più preziosi della repubblica. Ma Cavallin, nel suo libro, cita anche la storia della. diaspora, del disperdersi dei Veneti nei diversi paesi del mondo. E questa, che a un lettore disattento può apparire una semplice cronaca, ha un significato molto più consistente.
Anzitutto perché sottolinea la sopravvivenza e la forza di una lingua e una cultura. All’estero, forse molto più che in Italia e nel Veneto, l’identità veneta sopravvive ed è amata, difesa e coltivata.
In secondo luogo per il valore simbolico di questa diaspora. Gli Ebrei, perseguitati per secoli, dispersi nel mondo, riuscirono a ritrovarsi, a ritornare in Palestina, a ricostruire una loro patria, a far rivivere la lingua e la cultura ebraica. E si trattava di una lingua morta che dopo millenni è ridiventa viva, scritta e parlata.
Gia siamo di fronte alla diaspora del popolo veneto alla fuga dalla propria identità, al processo di italianizzazione, alla perdita progressiva e apparentemente inesorabile della lingua parlata. E noi sappiamo che un popolo perde la sua identità quando appunto rifiuta o semplicemente dimentica la propria lingua.
E allora che fare? Penso che nel libro di Cavallin vi siano le premesse, esposte in maniera magistrale, della rinascita. C’è una diaspora? Ebbene, essa – analogamente a quella del popolo ebraico è capace di annunciare appunto la riscoperta e la rinascita della lingua e della cultura del Veneto.
La lingua sta morendo? Ci sono ancora studiosi e uomini di cultura che possono organizzarsi per riportare il veneto nella scuola, superando le critiche superficiali di molti, anche di chi non riconosce la presenza, anche se in parte potenziale, di una koinè della lingua veneta. È indispensabile che il veneto venga insegnato nelle aule scolastiche, perché una lingua che non venga rivissuta a scuola è destinata a morire. Dunque, bisogna organizzare i venetofoni in difesa della loro lingua, da Gorizia a Rovereto, dall’Istria alla Dalmazia, da Trieste a Perasto. Questo mobilitando le amministrazioni comunali, provinciali e regionali, i centri culturali, ogni altro organismo, per far rinascere il veneto. Cominciando, ad esempio, dai gemellaggi e continuando con radio e televisioni locali, giornali, riviste. Perché, ad esempio, non gemellare Padova e Rovino o Zara piuttosto che Padova e Los Angeles? Perché non contribuire così al salvataggio di una cultura? È impossibile? Non è vero, altri popoli che hanno difeso la loro identità quasi perduta hanno vinto la battaglia, e si pensi alla Catalogna. Difendere le culture regionali è indice di conservatorismo? Anche questo non è vero: la crescita delle culture regionali a danno di quelle nazionali, favorisce, prepara, accelera, la formazione degli Stati Uniti d’Europa, la nostra grande patria di domani, espressione e tutela delle antiche patrie regionali combattute, soffocate, spesso cancellate, dagli stati nazionali.
In conclusione, il libro di Cavallin, raccontando il lento declino di una identità potrebbe essere un primo strumento per la sua riscoperta e la sua ricostruzione. E un contributo indiretto, forse involontario, alla costruzione dell’identità europea.

Sabino Acquaviva

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Lingua e cultura veneta. Dopo la legge, i fatti

La lingua veneta è parlata da tre milioni di persone nel Veneto, forse cinque nel Triveneto, in Istria e in Dalmazia. Non penso sarebbe difficile una politica triregionale di rilancio. Basterebbe andare in Catalogna e imparare.

di Sabino Acquaviva – sociologo
Il 25 aprile? Il 1° maggio? Due feste di questa repubblica. Ma qualcuno ricorda la festa dell’altra repubblica, la festa di San Marco, appunto lo stesso 25 aprile? Pochi, in verità, perché l’unità d’Italia, gestita, nei primi decenni, con il pugno (allora) di ferro dei prefetti, provocò il collasso delle culture e delle identità regionali, che furono quasi dimenticate. Ma ora guardiamo al futuro, agli Stati Uniti d’Europa. Tuttavia, il futuro deve passare per il passato? Certamente, in quanto il riemergere delle identità regionali rafforza l’identità europea. Questo perché indebolisce le identità nazionali che tanto sangue e tante guerre sono costate al continente. Dunque, per costruire il futuro parliamo di culture e identità regionali. Ma nel Veneto che accade? L’identità si è offuscata. È diminuito il numero di quanti parlano la lingua veneta, la difendono, ne promuovono i principi ideali. Si sono perdute antiche tradizioni come appunto quella del 25 aprile, ormai celebrato come festa della repubblica (italiana).
Tutto vero, ma forse il 2008 è l’anno di una svolta che potrebbe diventare storica. La legge approvata dal consiglio regionale dichiara “Il veneto è storicamente la lingua del popolo veneto”. È dunque ufficiale, il veneto è lingua e può essere insegnato “facoltativamente” a scuola. E qui, purtroppo, un primo cedimento: perché facoltativamente? Avete mai visto la lingua di un popolo che, nel proprio paese, venga insegnata facoltativamente?
Certamente, la legge è ambivalente per ragioni politiche e giuridiche obiettive. Ma, a questo punto, chiarito che si tratta della lingua di un popolo, questo popolo deve lottare per la propria lingua. Ma la legge offre altre prospettive positive: “la regione si impegna a favorirne e promuoverne” (del veneto) “l’insegnamento e l’apprendimento, l’informazione giornalistica e televisiva, la creazione artistica, l’edizione e la diffusione di libri e pubblicazioni, eccetera eccetera”.
Ma di tutto questo che cosa accade o è accaduto? Televisione? Radio? Giornali? Dove è l’uso del veneto?
Molto poco, in verità, è seguito alla promulgazione della legge. La lingua è parlata da tre milioni di persone nel Veneto, forse cinque nel Triveneto, in Istria e in Dalmazia. Non penso sarebbe difficile una politica triregionale di rilancio. Basterebbe andare in Catalogna e imparare.
Ma chi fa politica ha molti strumenti in mano che io, ad esempio, non possiedo: può introdurre fin d’ora negli asili, e nei primissimi anni di scuola, dei testi in veneto per i piccolissimi, curandone la diffusione gratuita, agire sulle radio e le televisioni locali offrendo dei contributi per le trasmissioni in lingua veneta. Operare in maniera analoga sui giornali, non dimenticando di influire sulle pubblicazioni, anche periodiche, ma più o meno pubblicitarie di interesse locale, diffondere dei piccoli manuali di storia della regione, promuovere la modifica dei testi scolastici adeguandoli alla storia reale d’Italia e del Veneto e non difendendo la diffusione di testi che raccontano il mai accaduto.
Si contribuirebbe in questo mondo alla riscoperta da parte di coloro che sono nati nel Veneto o che vi abitano, della propria identità linguistica e culturale. Qualche cosa di simile, insomma, a quello che accade agli immigrati in America.
In conclusione, abbiamo una legge che potrebbe permettere di salvare una lingua, una cultura, le tradizioni della repubblica forse più antica del mondo. Una svolta storica, insomma. Cerchiamo, noi abitanti del Veneto, o del Triveneto, di non perdere questo appuntamento con la storia, proposto da una semplice legge regionale: sarebbe una vera tragedia per un popolo e la sua lingua.

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Montecchio (VI): veneto in aula in Consiglio arriva l’interprete

L’azienda, che è di Pistoia, al posto delle parti dialettali dei vari interventi ha scritto fra parentesi «frase in dialetto, incomprensibile»…

La società che effettua le trascrizioni è toscana e non capisce gli interventi

MONTECCHIO MAGGIORE – Il vicesegretario comunale castellano Roberto Borghero nominato «d’ufficio» traduttore dal dialetto veneto all’italiano dei verbali delle sedute consiliari. La decisione è stata presa ieri sera a Montecchio Maggiore, nel corso del consiglio comunale dopo uno scambio di battute fra un consigliere di opposizione, Luciano Chilese, e il vicepresidente del consiglio comunale Tullio Cortivo. Gli interventi in veneto erano stati inseriti nel regolamento grazie ad un’apposita postilla, alcuni mesi fa. Il Comune di Montecchio aveva così seguito l’esempio di altri municipi veneti, primo fra tutti il padovano Piombino Dese. Chilese, come annunciato da giorni, all’inizio della seduta di ieri ha messo in dubbio la validità dei verbali del consiglio precedente, parzialmente non tradotti in quanto la ditta toscana che effettua le trascrizioni non capisce il veneto. L’azienda, che è di Pistoia, al posto delle parti dialettali dei vari interventi ha infatti scritto fra parentesi «frase in dialetto, incomprensibile». «Noi l’avevamo previsto – ha sostenuto Chilese – l’opportunità di parlare in dialetto, che la maggioranza ha preteso di inserire nel regolamento, nella pratica è assurda perché servirebbe un traduttore simultaneo». Assente il presidente del consiglio Claudio Meggiolaro, al quesito di Chilese ha risposto il vice presidente Tullio Cortivo, pure lui di minoranza, proponendo che Chilese prendesse con sè i nastri originali e traducesse le parti di verbale non riportate. Chilese ha obiettato che questo non è suo compito: Cortivo ha quindi incaricato delle traduzioni di eventuali parti incomprensibili ai toscani il vice segretario comunale Borghero, ritenuto dal vicepresidente competente in materia.

Andrea Alba
28 settembre 2010

fonte: corrieredelveneto.corriere.it

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28/11/2010 Manifestazione per il riconoscimento in parlamento della Lingua Veneta

L’Associazione Culturale Veneto Nostro – Raixe Venete sabato 28 novembre 2010 ha organizzato una grande manifestazione a sostegno della Lingua e dell’Identità Veneta a Venezia. Una manifestazione trasversale per chiedere allo stato italiano una maggior tutela e valorizzazione del patrimonio linguistico veneto, a cominciare dal riconoscimento della lingua veneta in parlamento.

E’ stata una manifestazione trasversale, apartitica ma fortemente culturale ed identitaria, per chiedere allo stato italiano una maggior tutela e valorizzazione del patrimonio linguistico dei veneti (in tutte le sue varianti), a cominciare dal riconoscimento della lingua veneta in parlamento. “Crediamo” hanno diachiarato gli organizzatori per voce del presidente Davide Guiotto, “che sia giusto dare finalmente anche al veneto lo status di Lingua riconosciuta, al pari delle altre lingue minoritarie parlate in Italia e già riconosciute dallo stato come il sardo, il friulano, il catalano, il croato e molte altre”.
La lingua veneta gode già di riconoscimenti internazionali da parte dell’Unesco e di molti linguisti e nel 2007 la Regione del Veneto ha riconosciuto lo status di Lingua al veneto attraverso la Legge regionale 8/2007. “Ma questo non basta”, prosegue Guiotto “serve ora una valorizzazione e un sostegno più forti ed incisivi da parte delle istituzioni. Per questo manifestiamo, manon solo: la società veneta scenderà in piazza per rimarcare l’importanza dell’insegnamento della lingua veneta nelle scuole. Come già accade in molte parti del mondo e come dettato dalle convenzioni internazionali per i diritti dei Popoli e delle culture minoritarie – sottoscritte anche dall’Italia – anche noi Veneti abbiamo infatti il diritto di insegnare alle nuove generazioni la nostra lingua madre, vero patrimonio identitario e culturale”.
A dare sostegno all’iniziativa anche il sociologo Sabino Acquaviva: “Il veneto è una lingua che va tutelata e insegnata a scuola, e non un’ora alla settimana, ma massicciamente, quasi come l’italiano. [ … ] Se non viene tutelata la lingua, l’identità muore”. E il mondo sarà più povero.

Alla Manifestazione di sabato 28 novembre erano presenti anche diversi rappresentanti politici veneti, sia di centro destra che di centro sinistra. Anche a loro gli organizzatori si erano rivolti per chiedere con fermezza che, in maniera trasversale, all’interno dei rispettivi gruppi politici iniziassero a sostenere e a concretizzare le richieste culturali che giungono da tempo dal territorio, a cominciare proprio dalla valorizzazione e dal riconoscimento della lingua veneta in parlamento.

“La lingua veneta appartiene a tutti noi ed è elemento di unione e di integrazione anche con altre culture che qui da noi trovano ospitalità, un patrimonio simbolo di una grande civiltà che merita ora un sostegno trasversale e una forte partecipazione popolare”: questo lo spirito che ha animato una manifestazione ben riuscita che ha visto sfilare per le calli di Venezia più di mille persone.

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La Serenissima alza la voce e il veneto diventa Lingua

Il veneto non è più un dialetto: da mercoledì sera è una lingua. Il Consiglio Regionale, a larga maggioranza, ha approvato la legge che tutela e valorizza la parlata dell’ex Serenissima. Solo Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani si sono astenuti. Per il resto tutti d’accordo. Anche sull’istituzione di una festa “ad hoc” per il popolo veneto. Sarà il 25 marzo, giorno della fondazione di Venezia, anche se originariamente era stata fissata per il 25 aprile, giorno di San Marco.

Il Parlamentino lagunare non ha fatto altro che legittimare la realtà: tutti giorni, più di sette persone su dieci parlano in veneto, soprattutto in ambito familiare e nel tempo libero, ma molti utilizzano la lingua dei nonni anche al lavoro. Secondo un’indagine, realizzata da Demos, ben il 78% degli intervistati, nel settembre 1998, affermava di utilizzare «molto» o «abbastanza spesso» il dialetto della propria zona. Otto anni dopo, si osserva un leggero arretramento, ma i numeri rimangono molto alti, confermando l’ampia diffusione della parlata nel Nordest. Oggi, Al dialetto, ricorrono circa tre persone su quattro, quando si incontrano con i propri conoscenti ed amici (74%). Appena inferiore è la frazione relativa all’utilizzo tra le mura domestiche: 71%. E se la diffusione del veneto sfiora l’80% presso la popolazione adulta ed anziana, c’è da dire che si mantiene comunque attorno al 65-67% nelle fasce più giovani. In altre parole, circa due giovani su tre, al di sotto dei trent’anni, continuano a utilizzare il dialetto nelle loro relazioni più strette.

Per molte persone la lingua erede della Serenissima rappresenta – come dicevamo – uno strumento di comunicazione anche sul luogo lavoro: più di quattro intervistati su dieci, infatti, dichiarano di utilizzarlo in ambito professionale. Tre le persone appartenenti al ceto-medio dipendente – tecnici, insegnanti, impiegati – è circa una su tre (35%) a parlare dialetto nei contatti di lavoro, oppure tra colleghi. Ma le percentuali salgono oltre la maggioranza assoluta tra gli operai (57%) e perfino tra gli imprenditori e gli altri lavoratori autonomi: ben il 55%, nella conduzione della propria attività, comunica in dialetto. Certo che il veneto è una lingua soprattutto orale.

Manca la diffusione scritta, anche perché a scuola si scrive nell’idioma di origine toscana: l’italiano. Colmare questo deficit sarà così il compito della legge regionale appena votata: “il veneto è storicamente la lingua del popolo veneto”, questa è la definizione approvata, e la Regione si impegna a favorirne e promuoverne l’insegnamento e l’apprendimento, l’informazione giornalistica e radiotelevisiva, la creazione artistica, l’edizione e la diffusione di libri e pubblicazioni, l’organizzazione di specifiche sezioni nelle biblioteche pubblice, la ricerca, lo svolgimento di attività e incontri per il suo uso e conoscenza. E ancora, nell’ambito dell’istruzione scolastica, la Regione promuoverà e finanzierà corsi di formazione e aggiornamento per gli insegnati, corsi facoltativi di storia, cultura e lingua veneta. La legge detta inoltre regole in materia di grafia ufficiale e di toponomastica, con l’aiuto di una speciale commissione scientifica. Per fare tutto questo servono soldi. Pronti: 250mila euro l’anno per il prossimo triennio.

Molto soddisfatti i consiglieri regionali del Progetto Nordest, Mariangelo Foggiato e Diego Cancian: «La lingua veneta è un pilastro della nostra identità e la sua valorizzazione è una tappa importante nel processo di riappropriazione della nostra sovranità politica e culturale», hanno commentato ricordando come l’iter di questa legge sia partito dal consigliere provinciale di Vicenza Ettore Beggiato (Pne) che il 10 maggio 2005 fece approvare dal Consiglio Provinciale la proposta di legge approdata poi in Consiglio Regionale. Euforici invece i rappresentanti dell’associazionismo venetista, Raixe Venete in testa, che già da tre anni organizzano la festa dei veneti a Cittadella, in provincia di Padova, «Forse oggi il pericolo di estinzione dei Veneti ha visto un’inversione di tendenza decisiva – spiega Patrik Riondato del neonato movimento “Veneti” – grazie all’impegno di tanti patrioti che, in tutti i partiti e nella società civile si sono adoperati» per il riconoscimento della lingua veneta.

Giuliano Zulin

Fonte: Libero – quotidiano


Xe sta fata justìsia
di LUCA ZAIA*
Xe sta fata justìsia. Finalmente pa £a £engoa veneta xe rivà el justo riconosimento. Na roba che ndava fata, parché £a xe £a £engoa dei nostri pàri, noni e antenài. £a xe £a £engoa che nialtri conosìmo fin da quando che semo nati e sto riconosimento pùblico vol dir on mucio pa nialtri veneti. Vol dir riconósar insieme anca £a nostra Storia che po’ £a xe stà que£a de £a Serenìsima Repùblica de Venesia. Na Repùblica che xe nata sol XI seco£o e che, in pì de 1.100 àni de storia, siviltà e cultura, £a ga fato de nialtri xente ùnica, caraterixà da on forte senso de apartenensa a £a nostra tèra e al teritorio indove nialtri se identifichemo. £a Rejon ieri £a se gà donca inpegnà ofisialmente a garantìrghene £a salvaguardia e £a promosión e, fra i tanti pónti de £a £eje, a métar in pie na comisión aposta pa £a so codificasión. Ciapémo sto anùnsio co on mucio de contentésa, parché nialtri co £a £engoa nostra semo cresésti, £a ghemo scoltà e parlà e e£a, cofà na mare piena de amór, £a ne gà conpagnà fin davanti £a porta de scó£a, indove £a gà dovésto pasàr ofisialmente £e consegne a £a £engoa ‘ta£iana. Èco, da qua in vanti l’inpegno nostro el gavarà da ndar so sta diresión, co bèn in testa el modè£o Cata£àn, £a nostra £engoa £a gavarà da èsar insegnà inte £e sco£e e difuxa e parlà in tute £e ocaxión del nostro vìvare de ogni dì. Parché sta roba vorà dir, ‘ncora na volta, tirar fora e sostegner £a nostra identità davanti al centra£ismo e a £a vo£ontà de uniformàr tuti i aspèti de £a nostra vita portà vanti dal goerno romàn”.

* Vicepresidente della Regione Veneto

fonte: Libero
30/03/07


VENETO/REGIONE: CONSIGLIO APPROVA LEGGE TUTELA LINGUA VENETA (ASCA) – Venezia, 29 mar – Via libera quasi unanime (38 si’ e 2 astenuti) del Consiglio regionale del Veneto alla legge di ”tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale del Veneto” avanzata in forma congiunta dai due Consigli provinciali di Vicenza e Treviso. Il testo definisce la lingua veneta come ”le specifiche parlate storicamente utilizzate nel territorio veneto e nei luoghi in cui esse sono state mantenute” e impegna la Regione a diffonderne la conoscenza e l’insegnamento a tutti i livelli (compreso quello scolastico con corsi facoltativi per insegnanti in collaborazione con i CSA, Centri Servizi Amministrativi). La legge stanzia quindi 250 mila euro all’anno per sostenere ricerche relative alla grafia ufficiale della lingua veneta e al suo uso, per ripristinare la toponomastica veneta, per istituire speciali sezioni nelle biblioteche pubbliche locali, e per finanziare l’edizione di pubblicazioni specializzate, la redazione di trasmissioni televisive e radiofoniche e incoraggiare la creazione di opere d’arte ispirate alla civilta’ veneta.
Tra le iniziative per valorizzare la lingua veneta la legge prevede anche l’istituzione di concorsi, borse di studio e premi annuali per tesi di laurea sul patrimonio linguistico della regione. Per sottolineare ulteriormente l’importanza della consapevolezza dell’identita’ veneta la legge prevede, inoltre, l’istituzione della ”Festa del popolo veneto” da celebrarsi il 25 marzo, giorno della fondazione di Venezia.
res-muz/sam/sr
Fonte: Asca
29/03/2007


L’INTERVENTO
La lingua veneta deve entrare a scuola
di Leonardo Muraro *
L’approvazione della legge sulla lingua veneta è un’ottima notizia, che non deve essere letta come una concessione ad istanze localiste, ma piuttosto come un salto di qualità nell’affermazione dei diritti all’identità regionale, senza schematismi ideologici di parte. Quella della lingua non è una questione secondaria. Quando si parla d’identità culturale, occorre essere consapevoli che essa si ritrova soprattutto nella lingua, che è il primo e fondamentale strumento di cui una comunità necessita per interpretare la realtà, definire i rapporti interpersonali e costruire il proprio universo simbolico. Detto in altri termini, non essendo mai le diverse lingue pienamente traducibili l’una nell’altra, ciò significa che ogni lingua definisce in modo unico ed irripetibile la cifra culturale e il modo di stare al mondo dei suoi “parlanti”. Per questo i grandi linguisti contemporanei stanno lanciando l’allarme sul rischio di un olocausto linguistico connesso alla perdita delle lingue regionali.

Un fenomeno che trova le sue cause nel bilinguismo disuguale generato da un rapporto non corretto tra Stato e Regioni, dalle politiche monolinguistiche perseguite degli stati nazionali, dalla perdita di prestigio delle lingue locali, dalla mancanza di scrittura, dalla pressione dei media. Occorre capire che il multilinguismo, da sempre presente nell’area veneta, è una risorsa culturale straordinaria.

L’insegnamento della lingua italiana va concepito come complementare e non alternativo alla lingua veneta. Anche la psicologia linguistica spiega che è meglio coltivare una doppia competenza, che peraltro rafforza la capacità di apprendere altre lingue ancora.Adesso, fatta la legge con ampia convergenza delle forze politiche, è opportuno che nelle nostre scuole si dia uno spazio adeguato alla lingua locale. Val la pena di ricordare come buona parte del patrimonio letterario teatrale italiano si componga proprio delle diverse letterature teatrali regionali, in cui fa la parte del leone quella Veneta. Così come molte produzioni poetiche anche contemporanee sono realizzate in lingua regionale. Si pensi al caso emblematico del poeta trevigiano Zanzotto che pratica con esiti straordinari il bilinguismo. Però una lingua non può venire difesa solo negli spazi istituzionali; dobbiamo essere noi cittadini tutti a rinnovarne la vitalità. Anche per questo la nuova legge, che accoglie la proposta presentata dai consigli provinciali di Treviso e Vicenza, assume uno straordinario significato simbolico e politico. Leonardo Muraro

* (Presidente della Provincia di Treviso)


PROGETTO NORDEST
Finalmente una legge per la tutela della lingua veneta
Il Consiglio regionale del Veneto ha approvato a larga maggioranza la legge “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto.
La legge prevede, in adesione alla “Carta europea delle lingue regionali e minoritarie”, l’organizzazione di corsi per insegnanti, l’edizione e la diffusione di pubblicazioni, la realizzazione di programmi e notiziari radiotelevisivi, l’organizzazione di specifiche sezioni nelle biblioteche pubbliche, l’organizzazione di corsi di storia, cultura e lingua veneta.

La proposta stabilisce, inoltre, la nomina di una commissione di esperti per recuperare gli storici toponimi veneti e per determinare la grafia ufficiale della lingua veneta.

Viene istituita la “Festa del del Popolo Veneto” come giornata di riappropriazione storico, culturale, linguistica, festa che ricorre il 25 marzo, anniversario della fondazione di Venezia.

Profonda soddisfazione è stata espressa dai consiglieri regionali Mariangelo Foggiato e Diego Cancian di “Progetto Nordest”.

“La lingua veneta è un pilastro della nostra identità e la sua valorizzazione è una tappa importante nel riappropriazione della nostra sovranità politica e culturale” hanno detto ricordando come l’iter di questa legge sia partito dal consigliere provinciale di Vicenza Ettore Beggiato che il 10 maggio 2005 fece approvare in Consiglio Provinciale la proposta di legge approdata poi in Consiglio Regionale e testè approvata dall’aula di Palazzo Ferro-Fini.

fonte: il Gazzettino
30/03/2007

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Lingua veneta e lingua catalana: confronto con un altro modello

Qualche giorno fa commentando con un amico catalano la pretesa dei consiglieri di un Comune veneto di poter esprimersi anche in lingua veneta, sbottó: “Beh! …. Qual é il problema!?”, bloccando sul nascere le mie obiezioni sulla traduzione, sulle varietá dialettali, sulla trascrizione ecc.

Qualche giorno fa commentando con un amico catalano la pretesa dei consiglieri di un Comune veneto di poter esprimersi anche in lingua veneta, sbottó: “Beh! …. Qual é il problema!?”, bloccando sul nascere le mie obiezioni sulla traduzione, sulle varietá dialettali, sulla trascrizione ecc.

Effettivamente in Catalogna il problema della lingua é stato affrontato e risolto da parecchio tempo: in tutte le sedi istituzionali: dal parlamento regionale, ai consigli comunali, dalla scuola obbligatoria alle universitá é usata la lingua catalana; accettata/ tollerata anche la lingua castigliana (lo spagnolo). In modo analogo é stato risolto il problema linguistico anche nelle altre regioni della Spagna con lingua propria:: il basco nel Paese basco, il gallego in Galizia, il valenziano a Valenza ecc.

Tutto bene. Se non fosse che solo 35 anni fa in Catalogna e in Spagna la situazione linguistica era molto diversa da qiuella attuale e certamente non migliore di quella che esiste oggi nel Veneto. Durante i 40 anni di dittatura franchista infatti e cioé fino alla morte del dittatore (1975) la lingua catalana era stata proibita in tutti gli ambiti pubblici e ufficiali. In Spagna solo si poteva usare il Castigliano (lo spagnolo); altre lingue o dialetti erano tollerate solo nell’ambito familiare e privato.
Cosí accedde che con l’instaurazione dell’Autonomia nel 1980 la Catalogtna aveva piú della metá della popolazione che non parlava e non capiva il catalano (anche a causa della massiccia immigrazione dalle altre regioni spagnole) e pochissimi catalani erano in grado di scriverlo.

Con la democrazia peró le nuove istituzioni autonomiche catalane (Generalitat e Ayutaments ecc) scommisero fin dall’inizio in maniera determinata e senza mezze termini sulla rinascita della lingua catalana, considerata l’elemento caratterizzante della Catalogna moderna.
Due furono gli strumenti che Jordi Pujol (president de la Generalitat de Catalunya dal 1980 al 2003) subito individuó: la scuola e la televisione.
La scuola: la Generalitat ottenne fin dal principio di poter gestire direttamente la scuola catalana. Con la cosidetta “immersione linguistica”, (copiata da un’altra grande autonomia: Il Quebec), impose la lingua catalana in tutti gli ordini di scuola (dalla materna all’universitá): tutte le materie cioé dovevano essere impartitte in catalano. Si esigeva per conseguenza dagli insegnanti una conoscenza scritta e orale della lingua di livello elevato. Parecchi insegnanti castiglianoparlanti chiesero trasferimento in altre regioni della Spagna, altri aderirono con recettivitá e profitto ai corsi di Catalano organizzati per loro dalla Generalitat..
La televisione. Appena ne ebbe i mezzi e la possibilitá dopo la scuola Jordi Pujolel si dedicó a creare (1983) una rete televisiva catalana in catalano (TV3), seguita qualche anno dopo da una seconda rete (TV33), da contrapporre alle due reti statali allora esistenti in spagnolo TVE1 e TVE2.
Si puó dire che nello stesso periodo in cui Berlusconi creava in Italia le sue tre televisioni commerciali contrapposte alle tre nazioni, in Spagna le televisioni autonomiche, (l’esempio catalano infatti fu subito imitato dal Paese basco, da Valenzia, dalla Galizia ecc.,) si contrapposero alle televisioni nazionali..
La cadena catalana TV3 fu particolarmente efficacie per la “normalizació linguistica” in quanto diede a tutta Catalogna un uso standard del catalano, allora parlato secondo diverse varianti provinciali Sopra tutto diede alla lingua catalana pari dignitá rispetto al castigliano Jordi Pujol qualche anno piú tardi dirá: era importante che i catalani sentissero parlare J.R. (della famosa serie Dallas) in catalano per poterlo usare senza complessi in tutti gli ambiti sociali..

Questa impostazione voluta e portata avanti da Jordi Pujol e dal suo partito CiU per piú di 20 anni, trovó formulazione giuridica nel nuovo statuto catalano del 2006 (v. post del 13/V/10).Di questo citeró solo alcuni estratti dell’art. 6 intitolato: “La lingua propria e le lingue ufficiali”
1. “La lingua propria di Catalogna é il catalano. Come tale il catalano é la lingua d’uso normale e preferente delle amminsitrazioni pubbliche e dei mezzi di comunicazione pubblici di Catalogna ed é anche la lingua normalmente usata come curriculare e di base nell’insegnamento “
2. “Il catalano é la lingua ufficiale di Catalogna. Anche lo é il castellano, che é la lingua ufficiale dello stato spagnolo.
Tutte le persone hanno il diritto d’utilizzare le due lingue ufficiali e i cittadini di Catalogna hanno il diritto e il dovere di conoscerle. I poteri pubblici di Catalogna devono stabilire le misure necessarie per facilitare l’esercizio di questi diritti e il complimento di questo dovere………

Naturalmente il Veneto non é la Catalogna né la lingua veneta é la lingua catalana. I parallelismi tra realta simili servono per conoscere soluzioni efficaci ad analoghi problemi, soluzioni peró che sempre richiedono di essere adattate alle reali situazioni particolari.
Per ritornare ai consiglieri comunali che pretendono di usare la lingua veneta nelle sedute del Consiglio comunale non credo che la loro iniziativa sia ispirata da un progetto linguistico alla catalana. Sanno bene che il veneto non é la Catalogna. Peró non c’e dubbio che la loro presa di posizione é un atto di autoaffermazione come a dire: siamo veneti e per cominciare non ci vergognamo di parlare la lingua che nostra madre ci ha trasmesso con il lattematerno e la maggior parte del popolo veneto tuttora usa. La rinascita di un popolo comincia proprio dal credere di essere un popolo

A nostro giudizio forrse la lingua non é il “fatto differenziale” per il Veneto perlomeno come lo é per la Catalogna Forse sono da individuare altre le caratteristiche quali caratterizzanti l’essere veneto..
In ogni caso pretendere di parlare in lingua veneta nelle sedute del Consiglio comunale mi sembra uno scatto di autostima

Che succederebbe, per es. se si stabilisse il principio, ovvio in Catalogna, che nel Veneto i Veneti hanno diritto di essere attesi negli uffici pubblici anche nella propria lingua materna? O che le persone che vivono nel Veneto hanno il dovere di apprendere la lingua veneta?

Le disposizioni della Generalitat sulla scuola pur tuttavia ancor oggi sono oggetto di controversia in Catalagna: basti pensare che in Barcellona, é possibile iscrivere i propri figli in una scuola dove l’insegnamento delle materie (curriculorare) é in tedesco, il francese, l’inglese, in giapponese, anche l’ intaliano ecc., peró non esiste una scuola il cui insegnamento curriculare sia in castigliano.

Naturalmente Il Veneto non é Catalogna e nemmeno Galizia o Galles.

Dalla Catalogna: Giancarlo Zorzanello

Fonte: www.laltracampana.com

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Venetian spoken here

Although Venetian is routinely referred to as a “dialetto” in Italy, this has become misleading in that it is now widely and unthinkingly interpreted as implying that Venetian is a dialect of Italian.

The language of Venice is older, less artificial and more influential than Italian itself

Although Venetian is routinely referred to as a “dialetto” in Italy, this has become misleading in that it is now widely and unthinkingly interpreted as implying that Venetian is a dialect of Italian. In fact Venetian predates Italian by hundreds of years. It grew naturally and autonomously out of the late Latin spoken in the north-east of the peninsula. Italian, on the other hand, was an artifically created language, based primarily on vernacular Tuscan and the works of Tuscan writers, notably Petrarch, Dante and Boccaccio, and forged by scholars and humanists of the late fifteenth and early sixteenth centuries in an attempt to found a national language, written and spoken, for the entire population of the yet to be unified country. More or less universal knowledge of Italian was only achieved in the second half of the twentieth century.

The robustness of Venetian in the face of the exclusive use of Italian in the media, education system, bureaucracy and the Church, and in a country where other “dialects” are in more rapid decline, is remarkable. The Venetian language remains central to the Venetian identity, but is seldom mentioned other than in the most cursory fashion in the thousands of books and articles about the city and its lagoon. Venetian, which is in many respects as different from Italian as Italian is from French and Spanish, and can be impenetrable for Italians from elsewhere, is still spoken by the majority of Venetians living in the lagoon and also in the Mestre-Marghera conurbation on its western shores.

English words borrowed from Venetian include artichoke, arsenal, ballot, casino, contraband, gazette, ghetto, imbroglio, gondola, lagoon, lido, lotto, marzipan, pantaloon, pistachio, quarantine, regatta, scampi, sequin and zany. “Ciao” – a long-standing contraction of the courteous Venetian salutation “vostro schiavo” (your humble servant) – has now become a global greeting.

Given the importance of Venetian throughout Venice’s history and in the present everyday life of the city, it is surprising that no continuous account of Venetian from its origins to the present has before been written in any language. Consequently, A Linguistic History of Venice, whose author, Ronnie Ferguson, is head of modern languages at the University of St Andrews and had the inestimable benefit of a Venetian-speaking mother, should become essential reading not only for historians of Venice, but also those interested in the development of Romance languages in general. Although parts of the book are fairly technical, it is structured in such a way that all readers should find it easy to navigate the most specialized sections without losing the thread of the enlightening and lucidly written overall narrative.

Ferguson traces the origins of Venetian to the vernaculars that developed during the Dark Ages on the mainland surrounding the lagoon. These gradually merged into a common language as mainlanders migrated to the islands of the lagoon. Nonetheless, as late as about 1500, the Venetian diarist Marin Sanudo noted that the fishermen of the area around the San Nicolò church in the south-west of the city were still speaking a distinct dialect called “nicoloto”. Even today, instantly recognizable variations of standard Venetian can be found on the island of Burano in the north-east of the lagoon and Pellestrina and Chioggia to the south-west of the city. And some small differences can distinguish speakers from Cannaregio, Castello and the island of Giudecca. A major factor in the survival of Venetian against the incoming tide of Italian is that it is spoken with pride by all classes of society. Some of the purest Venetian is spoken by the least educated on the one hand, who have little contact with Italian speakers, and the most educated on the other, who are acutely aware of correct Italian (often referred to in Venetian as “Tuscan”) and correct Venetian and carefully avoid contamination between the two. The day-to-day speaking of Italian in Venetian homes, once rare, is unquestionably on the increase (especially where a partner is not Venetian). However, many children who do not speak Venetian at home quickly learn the language from their playmates and school friends. Immigrant workers from Eastern Europe and elsewhere are picking up the language in the workplace, unexpectedly adding to the number of speakers.

The first examples of written Venetian go back to around 1200, and Ferguson offers a series of varied and well-chosen literary and other texts (with English translations) charting the evolution of the language. Curiously, it was a Venetian, Cardinal Pietro Bembo, with his Prose della volgar lingua, published in 1525, who was the most influential early codifier of the new Italian language. During this period Venice was becoming the epicentre of publishing in Italian. Literate Venetians readily adopted Italian as a written language, which in many ways superseded the role that Latin had previously played (although Latin persisted in the more conservative realms of the chancery and Church). Even as Venetians read increasingly in Italian, written Venetian continued to be used in personal and business correspondence, practical manuals, diaries, histories and wills, while spoken Venetian remained the language of government and the courts, religious, philosophical and scientific discourse.

Literary energies in Venetian were more consistently directed towards verse and drama than prose – understandably, as Ferguson points out, given that poetry and theatre were closer to the world of speech than works intended to be read on the page. And as poetry and drama were available to the literate and unlettered alike, the spoken word was constantly enriched by these literary works. The first authoritative dictionary of Venetian, by Giuseppe Boerio, which was in advance of its times in its unprudish inclusion of slang and vulgar expressions, was published in 1829. One of the aspirations behind Boerio’s large tome was the hope that it would help enrich the Italian language. The 1856 edition, available in facsimile, is still an essential reference work.

No standard orthography of Venetian has ever been established. Different authors follow their own fancies when committing it to paper. Ferguson favours the historically traditional “Goldonian” x to indicate the English z, although a plain z is gaining ground among contemporary local writers. Nor do any of the various systems for writing Venetian follow actual pronunciation closely. For example, the words for “he” and “she”, conventionally written “lu” and “ela”, are actually pronounced “yu” and “eya”. The so-called l evanescente, or vanishing l (initial and intermediate ls tend to disappear between two vowels), is one of the spoken language’s striking characteristics but seldom reflected in orthography. Thus, “fradelo” and “sorela”, brother and sister, are pronounced “fradeo” and “sorea”, while “un libro” (a book) becomes “do ibri” (two books) in the plural.

Ferguson’s book coincides with several new local publications, from Manlio Cortelazzo’s Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo (Venetian Dictionary of the Language and Popular Culture of the Sixteenth Century), to Gianfranco Siega’s Par modo de dir (So to Speak), a compendium of idioms and their origins. Siega is also the author, along with Michela Brugnera and Samantha Lenarda, of an etymological dictionary of Venetian, rather pessimistically entitled Il dialetto perduto (The Lost Dialect). But, while he fully recognizes threats to Venetian’s future survival – among them the scientifically flawed, sometimes nonsensical terms of “The European Charter for Regional or Minority Languages”, which seem perversely calculated to undermine rather than protect some of these languages – Ferguson ends his invaluable study on a quietly optimistic note.

Ronnie Ferguson
A LINGUISTIC HISTORY OF VENICE
320pp. Florence: Olschki. 33euros.
978 88 222 5645 4

Source: timesonline.co.uk

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Venetian language in the world

Where is the Venet(i)an language spoken?

Take into account that in English the word “venetian” refers both to the whole Veneto and to the variety spoken in Venice. On the contrary, usually we normal distinguish vèneto (=”venetan” or general venetian) from venesian (=venetian proper or “venician”).

First of all, Venetan is spoken in Veneto (north-east of Italy). Here people speak different variants of this language: Venetian, Veronese, Belunese, Trevigiano and Padovano-Vicentino-Rovigotto.
In big towns, people use a sort of mix based on italian language externally “venetized”, i.e it is not venet(i)an language but venetian dialect of italian language.

Then, Venetan is spoken in the dalmatian Coast, Croatia, where people use a Triestino-Venetian variant brought there by the Serenìsima Repùblica of Venice.

In Rio Grando do Sul, Santa Catarina e Paranà (states of Brasil), about five million people speak a koinè based on ancient Vicentino-Trevigiano variant moderated by other north-italic languages (in the last century immigrants came even from Trentino, Friuli, Lombardia) and influenced by Portuguese. This Venetan koinè is the said to be newest romance language and its speakers call it “Taliàn” , i.e. Italian in opposition to Brasilian, i.e. Portuguese, that is the main language. Indeed, Talian is not Italian!

In the town of Chipilo, Mexico, people speak a Trevigiano-Belunese variant as most of the immigrants came from the town of Segusino, in the northern part of the province of Treviso. It’s influenced by Spanish.

Source: www.sitoveneto.org

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Lingue Minoritarie riconosciute dall’Italia

19 “Lingue Minoritarie Riconosciute” dallo stato Italiano racchiudono in sé un totale di 2.779.000 parlanti, i parlanti in lingua veneta sono 5.100.000. Quasi il doppio. Ma…

Tipologia di Lingua | Località | % | Parlanti

Albanese | Sicilia-Calabria-Puglia-Abruzzo | 1,21 % | 98.000

Carinziano | Udine e provincia | 0,38 % | 2.000

Carnico |Belluno e provincia | 0,66 % | 1.400

Catalano | Alghero e provincia | 44,37 % | 18.000

Cimbro | Verona -Vicenza -Trento e province | N.C. | N.C.

Franco-Provenzale | Valle Aoste – Piemonte | 1,98 % | 90.000

Francofone | Valle Aosta | 0,89 % | 1.780

Friulano | Friuli | 56,32 % | 526.000

Greco | Reggio Calabria – Lecce e province | 0,89 % | 20.000

Ladino | Trento – Belluno – Bolzano e prov. | 1,88 % | 55.000

Mocheno | Trento e provincia | 11,69 % | N.C.

Occitano | Torino – Cuneo – Imperia e province | 4,19 % | 178.000

Provenzale | Torre Pellice (Piemonte 4.573) – Guardia Piemont. (Calab. 1.863) | N.C. | N.C.

Sardo Sardegna | 4,19 % | 1.269.000

Sloveno | Gorizia – Udine – Trieste e province | N.C. | 97.450

Serbo-Croato | Molise | 77,48 % | 2.600

Tedesco | Trentino – Alto Adige | 11 % | 290.000

Walser | Vercelli – Novara e province | 9,6 % |  N.C.

Sinti – Rom | Popolazioni nomadi | 0,79 % | 130.000

VENETO | Veneto | 65,42 % | 5.100.000

19 “Lingue Minoritarie Riconosciute” dallo stato Italiano racchiudono in sé un totale di 2.779.000 parlanti, i parlanti in lingua veneta sono 5.100.000. Quasi il doppio, eppure la lingua Veneta non é riconosciuta dallo stato italiano. E’ una semplice dimenticanza o si tratta di qualcos’altro, magari una forma di razzismo culturale?

Fonte: www.lalbaro.org

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Perché difendere la Lingua Veneta

Non ci sono solo le guerre in quanto tali, le guerre di religione o quelle economiche ma, anche, QUELLE LINGUISTICHE, messe in atto da alcuni popoli o da alcuni gruppi di potere che, DALL’AFFERMAZIONE DELLA PROPRIA LINGUA, traggono energie e potere per dominare sugli altri.
Il New York Times ha pubblicato un lungo articolo sulla drammatica situazione della lingua indonesiana a causa della scelta della classe dirigente indonesiana di usare l’inglese a livello d’una seconda lingua madre. La “question” è come si faccia ad avere due madri, infatti la prima, l’indonesiano, “As English Spreads, Indonesians Fear for Their Language”, sta morendo. In Italia c’è chi si preoccupa della politica d’insegnamento dell’inglese come prima ed unica lingua straniera, in competizione diretta con l’italiano, al punto da insegnare materie curricolari e attivare interi corsi di laurea in lingua inglese. Questa politica è considerata demenziale e autolesionista per l’Italia e la sua identità perché, come si evince dall’articolo, l’italiano non è meno a rischio dell’indonesiano. Di fronte a questi effetti dirompenti e distruttivi si grida contro queste leggi RITENUTE DI TIPO QUASI RAZZIALE PERCHÉ ISPIRATE AD UNA SORTA DI “MANIFESTO SULLA SUPERIORITÀ DELLA RAZZA ANGLOFONA”.

Secondo me anche questo allarme per la possibile scomparsa dell’italiano è di tipo quasi razziale nonché monco: parla solo dell’Italiano come se esistesse solo l’Italiano e non le varie Lingue madri d’Italia: se il principio universale deve essere la salvaguaria della Lingua madre, allora prima di preoccuparci dell’italiano dobbiamo preoccuparci di salvare la Lingua veneta (e le altre Lingue madri degli altri italiani). Forse che l’italiano è una lingua madre?

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Perché il Veneto è Lingua e non dialetto

Il Dr.Gianfranco Cavallin spiega in sintesi in questo estratto perché il Veneto è Lingua e non dialetto.

Affermano i testi scolastici scritti secondo i programmi ministeriali d’Italia che una lingua, per essere considerata “lingua”, deve possedere:

1 – una codificazione: l’insieme di parole che noi usiamo per comunicare il contenuto del nostro pensiero ad un’altra persona. Se tra parlanti ed ascoltatori esiste uno stesso codice, chi ascolta capisce il contenuto del pensiero espresso da chi sta parlando, in caso contrario parlanti ed ascoltatori non si capiranno mai.
2 – un uso scritto: quando la lingua usata per comunicare il contenuto del proprio pensiero viene usata anche in forma scritta (Letteratura, Poesia, Storia, Romanzi, Giornali, Atti notarili, Atti amministrativi, Verbali, ecc.).
3 – un prestigio sociale: quando la lingua è usata a tutti i livelli (fino alle più alte cariche dello Stato).
4 – una dignità culturale: quando una lingua possiede una Letteratura, una Storia, un Teatro.
La Lingua Veneta possiede: codice, uso scritto, prestigio sociale, dignità culturale: /…/ il veneto e il napoletano, che hanno subito una codificazione, possiedono un uso scritto e una grande dignità culturale (si pensi all’opera del Goldoni e del Basile) (M. DARDANO/P. TRIFONE, “Grammatica Italiana con nozioni di linguistica”, Zanichelli, Firenze 1988, p. 30).
Nella Venezia (Triveneto) ci sono più lingue riconosciute che nel resto del mondo: 8 lingue: 3 ufficiali e 5 riconosciute:
Carinziano (UD), 2.000 parlanti, 0,38% della popolazione di Udine è riconosciuto “lingua”;
Carnico (BL), 1.400 parlanti, 0,66% della popolazione di Belluno, è riconosciuto “lingua”;
Cimbro (VR-VI-TN), 650 parlanti; Friulano, (Regione Friuli), 526.000 parlanti, 56,32% della popolazione della Regione, è riconosciuto “lingua”;
Ladino (TN-BZ-BL), 55.000 parlanti, 4,19% della popolazione di Bolzano, 1,69 di quella di Trento, 10% di quella di Belluno, è riconosciuto “lingua”;
Mocheno a Trento: 1.000 parlanti.
Sloveno (TS-GO-UD), 70.000 parlani a Trieste, 9,6% della popolazione di Trieste, 8% di quella di Gorizia, 3% di quella di Udine, è riconosciuto “lingua”;
Tedesco, (BZ e molte zone delle Alpi e Prealpi venete), 282.000 parlanti a Bolzano, 65,43 della popolazione di Bolzano, è riconosciuto “lingua”;
In cosa consiste la differenza tra tutte queste lingue che, tutte assieme assommano a meno di un milione di parlanti e la Lingua Veneta che conta 5 milioni di parlanti nella sola Italia e non meno di 15 milioni di venetofoni nel mondo?
Cosa parlavano i Veneti se udirono per la prima volta l’Italiano nel 1915?: “/…/ (nel Veneto) si cominciò a sentire un nuovo strano modo di parlare, l’Italiano, soltanto nel 1915-18, durante la guerra combattuta sul territorio veneto in seguito all’aggressione italiana all’Austria” (G. MARCATO, Il dialetto come problema sociale e politico, in Schema, n.5, III-1980, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova).
Cosa aveva parlato per mille anni il popolo dello Stato forse più importante d’Italia?: “Naturalmente non posso considerare l’avventura di questa città dal momento in cui essa ebbe la sorte di non essere più capitale di uno Stato che fu politicamente ed economicamente forse il più importante d’Italia per circa un millennio” (Feliciano BENVENUTI, “Venezia Ancora”, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Tomo CXL (1981 – 82), Venezia 1982, p.223).
… Codificazione, uso scritto, prestigio sociale, dignità culturale: “/…/ (il Veneziano) era la sola lingua parlata a Venezia, da tutte le classi sociali, ed era persino la lingua ufficiale negli affari di Stato, nelle arringhe nel Gran Consiglio ed era la lingua dei tribunali – persino le leggi si stampavano in Veneziano. Il Veneziano non era un dialetto, era una lingua, la sola lingua parlata” (T. W. ELWERT, Studi di Letteratura Veneziana, Venezia 1958, p.165).

Dr.Gianfranco Cavallin
Autore del libro “Gli Ultimi Veneti”

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Manuale di Grafia Veneta Unitaria

Quanto vi proponiamo di seguito è il manuale di “Grafia Veneta Unitaria”, primo tentativo di normalizzazione linguistica prodotto dalla vecchia Commissione Grafia (insediatasi per DGR n. 4277 del 14 settembre 1994) nel marzo del 1995.
Di fatto però tale documento non portava ad una grafia realmente unitaria. La Legge Regionale n.8/2007 “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio storico e culturale veneto” – che di fatto ha riconosciuto ufficialmente il Veneto come lingua – ha previsto all’articolo 10 la costituzione di una apposita “Commissione per la Grafia e la Toponomastica”. Tale Commissione è stata nominata con DGR. n. 287 del 16 febbraio 2010, al fine di recuperare, modernizzare ed internazionalizzare – anche in parte superandolo – il lavoro precedentemente svolto dalla vecchia Commissione, fino a produrre, nel dicembre 2017, il manuale della Grafia Veneta Internazionale Moderna.

 

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Breve presentazione e storia della Lingua Veneta

Il veneto (nome nativo vèneto) è una lingua romanza usata da alcuni milioni di parlanti in sei stati diversi. Circa la metà dei parlanti si trova nella penisola italiana, nella “Terraferma” della ex-Repubblica di Venezia e principalmente nella regione del Veneto, ma anche in Trentino e Friuli-Venezia Giulia. La metà rimanente si trova all’estero, principalmente in Istria, con comunità minori in Dalmazia, Romania, Brasile, Messico e in varie altre località oggetto di emigrazione.

È tutelata come lingua dalla Regione Veneto (che pure ne riconosce il carattere composito) ma non dallo Stato italiano, che non la annovera tra le minoranze linguistiche, pur essendo compresa fra le lingue minoritarie dall’UNESCO.

La lingua veneta potrebbe essere ritenuta una lingua regionale o minoritaria ai sensi della Carta europea per le lingue regionali e minoritarie, che all’art. 1 afferma che per “lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue … che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Stato”. Bisogna ricordare che in Europa varianti della lingua veneta sono attualmente parlate, oltre che in Italia, anche in Slovenia, Croazia, Montenegro e Romania.

Il veneto deriva dalla fusione tra latino volgare ed il venetico parlato nella regione, il quale era del resto affine al latino stesso.

Testi in volgare che presentano chiare affinità con il veneto sono rintracciabili già a partire dal XIII secolo, quando in Italia non esisteva ancora un’egemonia linguistica del toscano.

Il veneto, in particolare nella sua variante veneziana, ha goduto di ampia diffusione internazionale grazie ai commerci della Repubblica Veneta, soprattutto nel Rinascimento, diventando per un certo periodo una delle lingue franche di buona parte del Mar Mediterraneo, soprattutto in ambito commerciale. Tuttora molte parole del gergo marinaro sono di origini venete.

Il veneto tuttavia non si impose come lingua letteraria in quanto, già nel XIII secolo, doveva confrontarsi con esponenti letterari di grosso rilievo sia di origine toscana che di origine provenzale. A riprova di ciò è il fatto che Marco Polo dettò a Rustichello da Pisa il Milione scegliendo la lingua d’oïl, allora diffusa nelle corti quanto il latino. Le opere in veneto più significative furono scritte da autori quali il Ruzante (Angelo Beolco) nel XVI secolo, Giacomo Casanova e Carlo Goldoni; in quest’ultimo caso l’uso del veneto era limitato a buona parte delle commedie teatrali, soprattutto per rappresentare il popolo e la borghesia.

Di particolare rilievo per l’utilizzo in ambito scientifico è la stampa nel 1478 de L’Arte dell’abbaco, opera meglio nota in ambito accademico come Treviso Arithmetic, scritta da un anonimo insegnante in lingua veneta, primo testo stampato conosciuto del mondo occidentale di insegnamento dell’aritmetica e della matematica ed uno dei primi testi stampati scientifici di tutta Europa. Esso era rivolto particolarmente all’educazione della classe media e in particolare al mondo mercantile.

La diffusione di questo idioma al di fuori dell’area storica dei veneti si ebbe con il progressivo sviluppo della Repubblica Veneta, che lo utilizzava come lingua ordinaria assieme al latino e all’italiano.

Con il dissolversi della Repubblica, il vèneto progressivamente venne sostituito da altre lingue per gli atti ufficiali e amministrativi. Il suo uso tuttavia perse progressivamente, almeno in parte, i registri letterari e aulici restando sempre come lingua storica e naturale del popolo, riuscendo comunque a raggiungere vette liriche mirabili con poeti come Biagio Marin di Grado. Bisogna anche ricordare il poeta triestino Virgilio Giotti, che poetava in triestino e ordinariamente scriveva in italiano. Inoltre bisogna ricordare Nereo Zeper che ha tradotto l’Inferno di Dante Alighieri in dialetto triestino (variante del veneziano). Si ricorda, tra l’altro, l’Iliade di Omero tradotta in veneto da Francesco Boaretti e in veneziano da Giacomo Casanova; nonché l’opera in veneto padovano intitolata Dialogo de Cecco da Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella Nova che tratta delle nuove teorie galileiane sul sistema solare, che taluni attribuirebbero a Galileo Galilei con lo pseudonimo di Cecco da Ronchitti. Altri letterati del Novecento che hanno utilizzato il veneto nelle loro opere sono i poeti Giacomo Noventa e Andrea Zanzotto come anche Attilio Carminati ed Eugenio Tomiolo. Si segnalano negli ultimi decenni – per la qualità della loro ricerca anche Sandro Zanotto, Luigi Bressan, GianMario Villalta, Ivan Crico. Notevoli inserti in veneto sono presenti anche nelle opere dello scrittore Luigi Meneghello.

Il progetto concepito da Giuseppe Lombardo Radice di sviluppare ed impiegare testi scolastici in lingua nell’ambito Veneto (come in altri contesti regionali), non ebbe completa attuazione poiché coincise con il periodo fascista, il cui regime era notoriamente impegnato, nella sua opera di forte centralizzazione dello Stato, a promuovere l’apprendimento della lingua italiana in un disegno complessivamente repressivo delle culture locali.

In anni recenti numerosi cantanti e gruppi musicali hanno adottato la lingua veneta per la loro produzione artistica: negli anni sessanta hanno raggiunto una buon successo Gualtiero Bertelli e il suo gruppo Canzoniere Popolare Veneto. Negli anni novanta si sono distinti i Pitura Freska, guidati da Sir Oliver Skardy, che hanno partecipato anche al Festival di Sanremo con la canzone Papa nero, scritta in dialetto veneziano. Più di recente hanno ottenuto una certa notorietà artisti come il rapper Herman Medrano, i Catarrhal Noise e i Rumatera.

Con la Legge Regionale n. 8 del 13 aprile 2007 “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto”, che si richiama ai principi della Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie, pur non riconoscendo alcuna ufficialità giuridica all’impiego del veneto, la lingua veneta diviene oggetto di tutela e valorizzazione, quale componente essenziale dell’identità culturale, sociale, storica e civile del Veneto.

(LA) « [Venetus est] pulcherrimus et doctissimus omnium sermo, in quo redolet tota linguae Grecae maiestas! »
(IT)« [Il veneto è] la lingua più bella e più dotta di tutte, nella quale esala tutta la grandezza della lingua greca! »
Pontico Virunio, umanista ed erudito bellunese (ca. 1460-1520)

Fonte: wapedia.mobi

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Firmata la convenzione per una cattedra di dialettologia a Ca’ Foscari

L’assessore regionale all’identità veneta, Daniele Stival e il Rettore dell’Università di Ca’Foscari, Carlo Carraro, hanno sottoscritto stamane a Venezia, nella sede della Giunta regionale di Palazzo Balbi, una convenzione per l’istituzione presso l’ateneo veneziano di una cattedra di dialettologia.

Assessore Stival: valorizzare la lingua veneta è un fatto culturale, ma anche la difesa di una ricchezza

L’assessore regionale all’identità veneta, Daniele Stival e il Rettore dell’Università di Ca’Foscari, Carlo Carraro, hanno sottoscritto stamane a Venezia, nella sede della Giunta regionale di Palazzo Balbi, una convenzione per l’istituzione presso l’ateneo veneziano di una cattedra di dialettologia.

“Il nostro proposito – ha spiegato Stival – è quello di tutelare, valorizzare e promuovere il patrimonio linguistico e culturale del Veneto. Con questo accordo raggiungiamo un nuovo e importante traguardo in quel percorso iniziato nel 2000 con la creazione dell’assessorato all’identità veneta e proseguito successivamente con l’approvazione di vari provvedimenti e norme che promuovono la conoscenza e lo studio della storia, delle tradizioni, e, per l’appunto, dell’identità del nostro popolo”.
Attraverso questo accordo, la Regione si impegna a sostenere economicamente con 80 mila euro la fase di avvio e sperimentazione del progetto per l’anno accademico 2010-2011. Se, come da tutti auspicato, l’iniziativa darà risposte incoraggianti, il prosieguo dell’insegnamento di questa materia sarà confermato con una successiva convenzione.

Il Rettore Carraro, definendo la convenzione “un atto lungimirante”, ha sottolineato che questa opportunità offerta dalla Regione consente all’Università di cogliere più di un obiettivo: “uscire dal palazzo” e lavorare nel e con il territorio, puntare alla valorizzazione culturale come elemento fondante dal punto di vista formativo, approfondire la conoscenza di una lingua che di fatto ci appartiene.

La cattedra è stata affidata al prof. Lorenzo Tomasin, già in ruolo a Ca’Foscari, che sarà impegnato oltre che nell’attività didattica anche in quella di ricerca dialettologica. Lo stesso Tomasin ha annunciato che proprio in questi giorni è in stampa, grazie al sostegno della Regione Veneto, il libro “Storia linguistica di Venezia” e che altre pubblicazioni stanno per essere completate, arricchendo così il patrimonio di documentazione in questo ambito di studio.

“Posso anticipare – ha detto Tomasin, presente alla sottoscrizione dell’accordo – che già sono pervenute numerose richieste di informazione e di adesione da parte di studenti intenzionati a seguire questo corso di laurea”.
“Ci auguriamo che i risultati della sperimentazione siano positivi e che la cattedra di dialettologia diventi permanente – ha concluso l’assessore Stival – perché, come ha detto lo stesso presidente Zaia, attraverso questo originale laboratorio, possiamo contribuire, nell’interesse dei nostri cittadini, a superare la discriminazione del veneto come lingua madre e a valorizzarla e difenderla come una vera ricchezza”.

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Verso una grafia unica per il Veneto

Nomi tradotti in dialetto per i 581 Comuni E nascerà un dizionario
Grafia unica sui cartelli. Sei studiosi sono già al lavoro

VENEZIA — «Benvenuti a Chioggia-Ciosa». Potrebbe essere un cartello di questo tipo ad accogliere i visitatori nelle città lagunare ed altri, sul genere, potrebbero puntellare presto gli altri Comuni del Veneto. L’idea nasce dalla giunta regionale, che ha istituito nei primi mesi del 2010 la Commissione della grafia veneta, un gruppo di sei studiosi che nei prossimi due anni si dedicherà allo studio dei dialetti regionali, con lo scopo di trovare una grafia standard. «Vorremmo tradurre i nomi di tutti i 581 Comuni della regione – spiega Daniele Stival, assessore regionale all’identità veneta – così chi lo vorrà potrà inserire il nome veneto sotto quello in italiano nei cartelli stradali, in quelli delle piazze e degli spazi cittadini». Ma, ben lungi da pericolose iniziative «fai da te», il procedimento per il doppio segnale dovrà essere unico: «Basterà fare richiesta alla Regione o alla commissione – continua Stival – i Comuni interessati riceveranno così un’indicazione precisa».

Cartelli bilingue, dunque ma anche una precisa ricerca culturale e identitaria portata avanti dalla neo-nominata commissione che avrà anche il compito nei prossimi due anni di dare alla luce il dizionario ufficiale della grafia veneta. «Il dizionario non presenterà il dialetto regionale come un’unica lingua, sarebbe sbagliato oltre che praticamente impossibile – spiega Stival – nelle pagine si troverà piuttosto una sintesi del parlato veneto più diffuso che proporrà, per ogni singola parola, la forma dialettale più usata a livello regionale ma riporterà di seguito anche le diverse cadenze locali ». L’obiettivo, insomma, è quello di definire una lingua scritta comune per tutta la Regione, dando conto però anche delle variazioni linguistiche locali. La commissione che lavorerà al progetto e che deve i suoi natali alla legge 8 del 2007 sull’identità veneta, è stata nominata dalla giunta regionale nei primi mesi del 2010 ma il via ufficiale ai lavori è arrivato solo ilmese scorso.

«I sei studiosi che fanno parte della commissione provengono da mondi diversi tra loro – spiega Stival – alcuni sono docenti universitari di Ca’ Foscari come Rodolfo Delmonte, Lodovico Pizzati e Michele Brunelli, poi ci sono il sociologo Sabino Acquaviva, lo scrittore Gianfranco Cavalin e Davide Guiotto, membro dell’associazione Raixe venete, in rappresentanza delle associazioni venetiste. Lavoreranno insieme per due anni e avranno un grande compito, quello di dare vita ad un codice per mettere per iscritto il vero dialetto veneto». Per iscritto si, ma non soltanto tra le pagine del dizionario. Nei due anni di lavoro che aspettano la commissione, infatti, i sei esperti daranno vita anche ad un dizionario on line inglese-veneto, che non verrà stampato ma sarà disponibile sul web e consultabile quindi da tutti gli interessati. I finanziamenti? Presto per fare i conti: «Si sa che questo tipo di studi sono molto lunghi e complicati – spiega Stival, – inserire a bilancio già quest’anno le stampe del dizionario sarebbe stata una sciocchezza».

Alice D’Este

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Lingua, grafia e toponomastica veneta

Regione Veneto – Si è riunita oggi per la prima volta a Venezia, nella sede della Giunta veneta a Palazzo Balbi, la Commissione di esperti prevista dalla Legge regionale in materia di tutela e valorizzazione del patrimonio linguistico veneto. Compongono la Commissione, presieduta dall’assessore regionale all’identità veneta, Daniele Stival, il sociologo Sabino Acquaviva, i docenti dell’Università di Ca’Foscari Rodolfo Del Monte e Ludovico Pizzati, il linguista Michele Brunelli, lo studioso di lingua veneta Gianfranco Cavallin e il presidente dell’associazione Veneto Nostro Davide Guiotto. Alla seduta d’esordio ha presenziato anche l’assessore al bilancio, Roberto Ciambetti.

Compito della Commissione è quello di fornire un supporto alla Giunta regionale nella realizzazione di iniziative che favoriscano la conoscenza e la diffusione della lingua veneta, garantendo in particolare una corretta definizione della grafia, della toponomastica e di ogni altro aspetto linguistico.
“Il nostro obiettivo – ha sottolineato l’assessore Stival aprendo i lavori – è quello di valorizzare la lingua come vera ricchezza del popolo veneto, come componente irrinunciabile della nostra identità culturale, sociale, storica e civile. Lo stesso presidente Zaia ha più volte evidenziato che la tutela di questo patrimonio rappresenta una questione centrale per lo sviluppo dell’autonomia regionale”.
“Oggi inauguriamo una nuova stagione operativa – ha ribadito l’assessore Ciambetti – attuando compiutamente quanto previsto dalla legge regionale alla quale abbiamo a suo tempo lavorato con impegno e convinzione. Affidiamo un incarico importante ai componenti di questa Commissione, esperti di riconosciuta competenza professionale e culturale nel campo linguistico, sia in ambito accademico, sia in quello della ricerca”.
Gli assessori hanno evidenziato l’importanza che la Commissione si confronti nelle sue attività con le diverse realtà associative e culturali regionali, al fine di condividere il più largamente possibile le iniziative e i progetti finalizzati alla diffusione della lingua veneta, coinvolgendo in questo anche le comunità dei Veneti nel Mondo.

Fonte: VicenzaPiù

07/05/2010

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Dialetti e lingue regionali, non si faccia confusione

Di Sabino Acquaviva – sociologo

Ho letto con sostanziale disappunto l’articolo di Luciano Canfora sul Corriere della sera del 24 maggio dal titolo “Più dei dialetti a scuola insegniamo le lingue nazionali”, in cui si sostengono le vecchie tesi che hanno distrutto le culture regionali scatenando guerre e massacri di cui paghiamo ancora il prezzo di sofferenze e di sangue.
Gli stati nazionali, riconosciamolo, sono stati una sventura plurisecolare per il nostro continente. In una parola Canfora illustra, nel suo articolo, una tesi che a mio parere fa a pugni con la storia.
Come è noto, fin verso il Cinquecento in Europa dominava il latino (come oggi, giustamente, tende a prevalere l’inglese) accanto ad un consistente numero di lingue regionali. In seguito, in ogni area geografica singole lingue regionali hanno prevalso sulle altre, dichiarandosi lingue nazionali e scatenando le lotte e le guerre che sappiamo.
Tutto questo è dimostrato dal cimitero linguistico in cui siamo immersi. Ad esempio il francese del nord ha schiacciato il provenzale, il castigliano ha tentato di annientare il catalano, il toscano (diventato italiano) ha fatto strage di lingue con una tradizione secolare, come il veneto. Eccetera. Ma oggi finalmente tentiamo di costruire gli Stati Uniti d’Europa e la loro nascita è resa più facile dall’indebolirsi degli stati nazionali (e della loro identità, anche linguistica).
In conclusione, l’idea di difendere le lingue regionali (che Canfora confonde con i dialetti), non è né fondamentalista né demagogica come sembra sostenere. Anzi, guarda al futuro di un continente che soltanto unito potrà difendersi da paesi in rapida crescita economica, e con più di un miliardo di abitanti ciascuno, come l’India e la Cina.
Due altre considerazioni critiche di Canfora e di molti altri studiosi vanno prese in considerazione e confutate. La prima: i dialetti (cioè le lingue regionali) cambiano anche all’interno di singole regioni, e quindi sono troppe le varianti linguistiche e la confusione. E allora? Il greco antico non è forse il risultato di tre dialetti? L’evoluzione della società greca, le guerre, lo sviluppo culturale, non hanno dato forse vita alla famosa koinè, cioè a un greco unificato? Perché questo processo non deve essere facilitato e favorito per almeno alcune delle lingue regionali della nuova Europa come il catalano, il basco, il veneto?
La seconda: “Avrebbe semmai più senso far meglio conoscere, in una regione, i dialetti di altre regioni”. Mi sembra poco logico. Anzitutto, non capisco perché dovremmo trasformare i nostri concittadini europei in poliglotti. Inoltre, cosa scegliere? Lingue come il veneto, il siciliano, il napoletano, tutte con una antica tradizione culturale? In specie il veneto, lingua internazionale nel Mediterraneo per secoli, che ha le sue radici in figure come quelle di Ruzante e Goldoni? Oppure il molisano, vero e proprio dialetto?
In conclusione vorrei invitare Canfora, sempre un acuto osservatore, a distinguere fra dialetti e lingue regionali, fra l’Europa del futuro e la baraccopoli, spero in liquidazione, degli stati nazionali.

Fonte: il Gazzettino del 31/5/2009